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Autore: Demipotterbutes    08/01/2015    1 recensioni
Uff, devo svegliarmi anche oggi, ma d’altronde chi potrebbe sopportare per un giorno intero la mia assenza? . Ma perché non fingermi malato? Ma come al solito, la mano di ferro di Zia Lee che fa tremare la porta della mia stanza, così come la sua voce poderosa che fa sempre –amorevolmente, probabilmente- un ulteriore controllo e oggi è perfino di buon umore, penso con una punta di amarezza fin troppo evidente.
Genere: Avventura, Comico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altro personaggio, Nico di Angelo, Percy Jackson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                                                                                                [Gabriel]
Uff, devo svegliarmi anche oggi, ma d’altronde chi potrebbe sopportare per un giorno intero la mia assenza? . Ma perché non fingermi malato? Ma come al solito, la mano di ferro di Zia Lee che fa tremare la porta della  mia stanza, così come la sua voce poderosa che fa sempre –amorevolmente, probabilmente-  un ulteriore controllo  e oggi è perfino di buon umore, penso con una punta di amarezza fin troppo evidente. Solo quel rimbombo fa pensare all’aspetto di Zia Lee: una donnetta bassa e grassoccia, zitella ovviamente, che indossa sempre quegli abiti neri, pesanti, magari con un grembiule con tante tasche, che di solito brandisce un minaccioso mattarello di legno calibro 50, con annessa mitragliatrice a pepe e paprika. Apro gli occhi, sbattendo le palpebre intorpidite dal sonno, e osservo annoiato la stanza che mi circonda, buia. Non ci sono  finestre in camera mia, se non quella specie di tapparella che permette di respirare attaccata alla porticina quasi tagliata in due per la posizione delle scale. Vivo in un condominio, ero al 5° piano, Manhattan; da lì non si vedeva un gran che, probabilmente era l’edificio più basso e insulso di tutta l’isola, ovviamente dopo la mia scuola. Ah, la mia scuola. Un inutile ammasso di acciaio e vetri, e ovviamente di professori assatanati che vogliono interrogarti tutti i santi giorni. Ma dico io, quei compiti a sorpresa non li potete mettere in... ehm, ehm, voglio dire: quei buoni foglietti con domande a risposta da spiegare, non potete  gentilmente bruciarli? Un sorriso divertito mi attraversa le labbra: che bello riuscire a svegliarsi di buon umore nonostante Zia Lee! Mi alzo lentamente dal letto della mia squallida camera, le mura bianche che devo ricordare di dipingere, i cassettoni pieni di roba vecchia insieme a scatoloni pieni di cianfrusaglie. Un giorno ho provato ad aprirne uno, trovandoci dentro un bigliettino con su scritto “Eredità della signora Benedith McLaggen per la signorina Lee McLaggen” e una cassettina di pelle scura. Leggendo il nome di mia madre mi ero fermato, ricordo di aver richiuso e di averlo scaraventato in un angolo della stanza, non lo più ritrovato. O minimamente cercato;  Di solito mi dedico alla pulizia della stanzetta con una particolare dedizione da far invidia anche alla cameriere più puntigliose. Compiti, direte voi. Ma chi li fa  mai, i compiti! Se solo i prof sapessero che ho appena aperto un bel negozietto in cui vendo soluzioni, penne bigliettino, munizioni per le cerbottane…  ah, già, la cerbottana. Sono sempre bravo a mirare sulla testa dei prof o sulla lavagna, meritandomi un 5 con il mio compagno. Mi avvicino sicuro, senza neanche accendere la luce, all’asse di legno su cui appoggio le mie poche cose: un telefono, una fotografia della mamma e infine un braccialetto d’argento; quest’ultimo ha  come centro una placchetta d’argento su cui c’è inciso un sole brillante, o almeno sembra risplendere di luce proprio in ogni momento della giornata. Appeso al muro, proprio davanti a me c’è uno specchio che riflette la mia  immagine: un quattordicenne, anni da poco compiuti, con la carnagione chiara ma abbronzata anche in pieno inverno, capelli biondi riccioluti sempre spettinati con ciocche particolarmente ribelli; sono molto fiero del mio aspetto, non m’importa di quello che dicono gli altri. Anzi, gli altri non mi dicono proprio niente: cerco di essere amico di tutti, soprattutto perché riesco ad adattarmi bene alle situazioni, seguendo più o meno gli interessi comuni per non farmi deridere. Se poi non dovessi proprio  farmi piacere quella cosa, che mi deridessero pure, tanto sono più grosso di loro, ma non è mai capitato e spero non capiterà mai. Ma proprio quando queste acute riflessioni mi attraversano la testa, illuminandone gli angoli remoti e non utilizzati –tipo il cervello-  un altro colpo da terremoto scuote la porta facendo tremare un’altra volta la casa: zia Lee è furiosa, e non ho bisogno di vederla in faccia per sapere se sta pensando di rompermi in testa un bel mattarellone di legno; così mi cambio in quattro e quattr’otto, mettendomi quelli che forse sono un jeans e una felpa rossa, abbastanza stretta e aderente al punto da far vedere qualche muscolo in via di formazione. Esco dalla stanza al volo, mentre corro, mi metto un calzino e tengo in equilibrio lo zainetto sulla spalla destra, acchiappo i miei due unici oggetti trasportabili: il telefono e il braccialetto d’argento. Quel braccialetto è l’unica cosa che mi ha lasciato mio padre. Lo so che volete sapere dove sono i  miei genitori, pfh. E’ inutile che suggerite. Si, sono entrambi... ma che ve ne frega! Non voglio parlare con dei tipi che neanche conosco! Sì, sto parlando con te, proprio con te, che stai leggendo in questo momento. Gira a largo dalla storia della mia vi- e sì, se te la sto raccontando nei minimi particolari è perché le avventure di Capitan Gabriel devono essere predicate in tutto il mondo, essere stampate e tradotte in tutte le parti e lingue del mondo, affinché tutti conoscano la mia noiosa vita e ne traggano insegnamento: se devi scegliere tra una Zia che pare una metà tra Peppa Pig e l’Incredibile Hulk con la stessa barba di Hagrid e tra la Casa-Famiglia, fidati, scegli la seconda, ti trateranno meglio. Anche perché, riguardo alle case, sicuramente sarebbero state meglio di questo lurido appartamento: un sottoscala, il luogo dove ho passato in pratica tutta la mia vita fino ad ora – dai 5/6 anni a oggi-  più altre stanze nel piano di sopra: un corridoio, tre stanze, una cucina/salotto e basta. Ok, può  essere accettabile quanto volete voi, ma la condizione igienica non proprio pulitissima e ancora di più la presenza di Zia Lee possono  far uscire fuori di testa qualsiasi cristiano, ortodosso o musulmano esistente al mondo. Di certo non me, ma la mia pazienza è stata messa a dura prova troppo a lungo . Fin ora sono stato abbastanza bravo nel rientrare ad una certa ora, non far rompere la porta a furia di richiami e a non portare le ragazze con cui mi tengo. Ma anche perché ho da poco un abbonamento mensile alla famosa ditta di sonniferi, quindi sono apposto e ogni volta che esco gliene verso un po’ –più di un po’- nella tazza di aranciata serale. Ma, tornando alle mie epiche imprese di sopravvivenza; attraverso come un fulmine il salotto antiquato, pieno di strani odori dovuti ai continui esperimenti culinari di Zia Lee o forse all’odore di putrefazione della stessa donnetta tozza, le rughe che le solcano il viso prematuramente, i capelli crespi e sempre fuori dalla coda che li tirava indietro prepotentemente, costringendo quei pochi capelli ancora biondicci a delinearle in malo modo la testolina piccola e con qualche bozzolo in più nella parte posteriore per botte su cui non voglio indagare troppo. Chissà se quell’armadio che ha in camera è colpevole di qualcuno di quei bozzoloni... comunque, quel salotto comprendeva un tappeto in pelle di orso, la testa ancora visibile e aperta, un grosso divano di cuoio mezzo sfondato, la parte posteriore è stata usata come nascondiglio da me, visto che ho scavato un intera caverna dentro l’imbottitura e tagliato pezzi di cuoio per aprire un varco adatto, lì dentro ci andavo per sfuggire alla collera di quella pazza di Zia Lee. Lì dentro ci ho nascosto molte cose, un giorno devo andarci di nuovo, magari trovo modi di copiare dimenticati e forse il mio vecchio arco di plastica, uno di quelli che si vendono alle bancarelle nei giorni di festa, come premio per qualche gioco... lo usavo per dare quelle frecce di gomma con le ventose sulla faccia di quella odiosa donna, ah! Forse l’ha buttato...  Non riesco e non voglio, sinceramente, guardare per più di un minuto la brutta  zia Lee che indossa a quel che vedo nel movimento troppo veloce dell’afferrare le scarpe da ginnastica e anche il cartoccio marrone che contiene il mio pranzo, -probabilmente un panino al prosciutto- un pigiama ben coperto da una vestaglia e ha anche una tazza bella piena di caffè. Un ed esco finalmente di casa, facendo tutte le rampe di scale velocemente, mentre osservo fuori dalla finestra il tempo, che per  ora si presenta nebbioso e con pochi raggi di sole, non mi accorgo delle scale bagnate e sto per scivolare, ma all’improvviso il mio braccialetto inizia a splendere, non vedo più niente.   Riesco solo a capire che devo continuare a camminare per non cadere, e piuttosto in fretta, forse sono riuscito ad aggrapparmi a qualcosa perché inizio a sentire veramente il contatto con la superfice leggermente gommosa e appiccicaticcia del corrimano, fino a  quando tutto il bagliore termina, mi ritrovo al piano terra, davanti alla porta del condominio. Giuro a me stesso di parlarne con Julie e fino a quel momento di non pensarci. Mi avvio così verso la fermata del bus; solo lì inizio a riflettere un po’, rompendo la mia promessa giurata sottovoce, facendomi prendere un po’ dal panico, lo stomaco che si chiude in una stretta dolorosa... scuoto leggermente la testa cercando di non pensarci, e infilo il panino nello zaino, mi risistemo un po’ e aspetto il pullman che mi porterà alla Street  School, la scuola degli sfigati. Alla fermata sono  presenti solo qualche persona, adulti , ma perlopiù ragazzini della mia età, tutti indossano abiti che sono assolutamente da considerare “Fighi” ma anche un segno di distinzione :vari gruppi di amici si vestono o hanno un segno che li contraddistingue; quelli lì che appartengono, anzi, che pensano di appartenere al ceto sociale più alto, figli di ‘ndrocchia. Ovviamente da evitare, per qualsiasi ragione al mondo, visto che sono finito in Carcere Minorile per ben due volte nella vita.  Un po’ di saluti, pugni e schiaffetti: questi erano i miei amici, gente falsa e altamente bastarda, come scoprirò più tardi, nel momento del bisogno. Nessuno con cui parlare veramente: era sempre “segui il flusso della cose, non parlare mai di testa tua”. Seguivo fedelmente la filosofia, ogni volta che se ne presentava l’occasione mi sento chiamare: è Jack, un mio amico grosso quanto un armadio a quattro ante, sudafricano, capelli neri come la pece e poi quegli occhi che sembrano scannarti al solo contatto... peccato però che i brufoli che gli butterano quel faccione rovinassero l’effetto “cattivo” lo prenderei a pugni, ma la sua stazza mi fa fare un passo indietro   domando, probabilmente l’ha consegnato in bianco, ma anch’io di solito non vado una meraviglia, ma c’era quel santo di Frank che mi passa quasi tutto. Ah, quanto gli voglio bene! <oh... beh.. ‘nsomma... 2..> trattengo a stento una risata. Io prendo al massimo 6 o 7, lui prende quelle sole di 4,3 e 2. Un bel batti-cinque e finalmente se ne va La stazione del bus oramai si sta svuotando man mano che l’ora avanza, il mio autobus arriva sempre ultimo rispetto agli altri, ma non ci posso fare niente, ogni mattina devo per forza farmi una corsa dal cancello principale alla mia aula, la 3D, quella in culo alla scuola. La mia scuola è cominciata da un po’, una settimana, in un freddo settembre NewYorkese , forse due. Il professor Ambrogius dice che ci sarebbero state novità, quella settimana... probabilmente compito a sorpresa, magari uno di quei temi “cosa avete fatto in estate, bambini?”. Dio, quanto odio quel genere di consegne, ma soprattutto il modo in cui mi tratta quell’altra orrida professoressa, la Litiermi, che sembra venuta fuori da un film horror per quanto è vecchia. Mi distraggo pensando finalmente all’autobus e a quello che avrei dovuto affrontare a scuola. “Solo due ore di latino e una di storia, che sarà mai.” Infatti quel giorno sarei uscito prima, e sarei andato... sarei andato a giocare un po’ al campo, magari. Sì, quella era una buona idea. E alla fine l’autobus arriva. L’aria nebbiosa non è il mio genere di tempo preferito, ma sono sicuro (inquietante) che in quella strana nebbia (inquietante inquietante) c’era qualcosa di innaturale e superiore (inquietante inquietante inquietante). C’era anche un po’ di vento, ora che me ne rendevo conto, e la cosa più strana era che si sentiva, al di là dei classici suoni della città, rombi di tuoni; guardai un momento in alto, e vidi una cosa che non mi sarei mai immaginato di vedere: c’era il mio riflesso, o almeno quello che potrei sembrare da adulto, visto che era una copia di me con una barba, aveva degli occhi azzurri splendenti e quegli incantevoli boccoli biondi. Ma quella testa aveva un che di strano, era letteralmente disegnata nella nebbia. Per un attimo quei perfetti denti sorrisero  e immersero tutta la città in un bagliore accecante. Ancora una volta, sperai che fosse solo un illusione e che mi sarei confidato solo con Julie, per non essere preso come un pazzo e perdere la mia reputazione con gli altri.  Mi concentrai per respirare normalmente e calmarmi, e salii sul mezzo giallo che mi avrebbe portato a un altro esasperante giorno di scuola, alla Street  School. Mentre ero deciso a non riflettere, un pensiero più veloce della luce fece capolino nella mia mente: quella luce abbagliante e quella faccia hanno qualcosa in comune... lo scacciai subito, ma la cruda verità venne fuori: prima avevo cavalcato un raggio di sole.  



Lo stupidissimo angolo dell'autore: Eccoci! Questa è la mia prima fanfiction, quindi perdonatemi e anzi fatemi notare gli errori che ho fatto, così miglioro :D 
  
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