È
passato troppo tempo..?
L’indomani
all’ospedale l’assenza di Cuddy era percepibile, il
consiglio aveva designato
come suo momentaneo sostituto il dottor Wilson, in attesa di prendere
una
decisione. House sapeva che averla vinta su di lui sarebbe stato ancora
più
semplice e, se non ci fosse riuscito avrebbe potuto partecipare agli
appuntamenti con Amber e prima o poi il “dolce
Jimmy” si sarebbe arreso e gli
avrebbe concesso anche la più pazza delle diagnosi. Questo
era il potere di
Greg House. Ed era rimasto il solito anche dopo quella notte, senza
nominare
però nemmeno una volta il nome di Cuddy, neppure per
prenderla in giro, così
gli fu semplice nascondere l’accaduto ai suoi assistenti
anche se non a Wilson,
a lui no. A lui era impossibile nascondere qualcosa e inoltre gli
sembrò
insolito il silenzio e l’indiscrezione da parte di House
riguardo l’accaduto.
Sentiva, sapeva che qualcosa fosse successa, ma cosa?
Si
diresse nel suo ufficio dieci minuti prima che House finisse il turno.
-Hai
notizie di Cuddy?-
-No-
non aveva scherzato di nuovo sulla cosa, nonostante ne avesse avuto
l’occasione
e la situazione suonava alquanto sospetta per l’amico, temeva
sempre peggio.
-Sei
stato da lei per caso?- disse con aria interrogativa, la risposta lo
incuriosiva.
-No-
non lo guardò nemmeno negli occhi, continuava i suoi
cruciverba, ormai era
chiaro per l’oncologo: stava mentendo.
-È successo
qualcosa?-
-No-
iniziava ad essere infastidito da tutte quelle domande su qualcosa di
cui non
gli andava affatto di parlare e, Wilson lo era per le risposte
monosillabi,
così fece cenno con la testa; un sì che diceva
“non ti credo, ma per amore
della nostra amicizia ti lascio perdere. Per ora”. E
uscì dallo studio.
Due
giorni dopo il telefono non aveva ancora
squillato, e sentirsi stupida per Lisa era anche troppo poco, ma non
voleva
rischiare di perdere un’occasione come quella e dopo quella
notte perfetta con
lui, lei si sentiva vuota, come se Greg le avesse dato qualcosa di
unico che
aveva portato con sé anche una parte di lei nel momento in
cui aveva lasciato
casa sua.
-Ciao…-
gli aveva detto mentre House indossava goffamente il cappotto, gli
addii lo
avevano sempre imbarazzato.
-Tornerò-
Ma
il campanello non suonò nemmeno quella sera.
House
aveva avuto paura; lui diceva che temeva di poter far soffrire gli
altri, ma la
verità era che lui paventava di potersi fare male. Non era
un tipo facile da
comprendere ma sembrava che lei quella sera lo avesse decifrato, avesse
compreso finalmente il codice per accedere al suo cuore, e adesso
sapeva di
dover stare attenta, perché doveva maneggiare il tutto con
cura, come un
fragile specchio nel quale lei aveva avuto la fortuna di poter
riflettere i
propri sentimenti e sentirseli tornare indietro con ancora
più passione. Sapeva
che adesso toccava a lei prendere in mano la situazione e finire di
scrivere le
pagine bianche di quel libro cominciato insieme.
Si
vestì, e in fretta salì in auto, era il cuore a
guidarla, il cervello si era
spento giorni prima, quando aveva lasciato l’unica cosa che
la rendeva ancora
un po’ più completa di House.
Non
indossava il solito tailleur, bensì dei jeans aderenti e una
camicetta rossa
sbottonata nei primi bottoni che lasciava scoperto la parte superiore
del seno
e delle scarpe da tennis, non sembrava nemmeno più Cuddy,
l’amministratrice del
Princenton Plainsbore Teaching Hospital.
I
loro ricordi: lui era sdraiato su di lei, le stava abbassando la
cerniera della
gonna e le accarezza, con la mano libera, i seni rigidi sorretti ancora
dal
reggiseno.
Lei:
mise la cintura e accese l’auto, andava da lui; sapeva che
era la cosa giusta
da fare.
Lui:
era appena tornato a casa, sbatté la porta dietro di
sé, era nervoso, gli
mancava, ma non andò da lei; sapeva che non era la cosa
giusta da fare.
I
loro ricordi: gli sbottonava la camicia azzurra, stropicciata, e
sentiva il suo
corpo sudato avvinghiarsi al suo.
Lei:
era ferma ad un semaforo, giocava con le dite sullo sterzo, si sentiva
agitata;
sapeva che era la cosa giusta da fare.
Lui:
prese il decimo Vicodin della giornata, e bevve due bicchieri di Vodka,
il
dolore era aumentato quel giorno, ormai gli era difficile stare senza
di lei e
lo sapeva; sapeva che non era la cosa giusta da fare.
I
loro ricordi: e finalmente vennero insieme, sussultarono entrambi, si
sdraiarono rilassati sul letto, stringendosi così
l’uno all’altro.
Lei:
era arrivata, spense l’auto, si tolse la cintura, sentiva
forte il cuore
battere; e sapeva sempre più che era la cosa giusta da fare.
Lui:
iniziò a suonare al pianoforte, con note alte,
cosicché la musica potesse
ricoprire completamente i suoi pensieri, pensava troppo a lei; e sapeva
sempre
più che non era la cosa giusta da fare.
Non
le servì bussare, la porta era già aperta
davanti a sé, e quella figura possente adesso la stringeva
contro il proprio
corpo, le poggiava la testa sopra la spalla e lei che non riusciva
nemmeno a
toccarlo era rimasta così sorpresa che si
paralizzò tra le sue braccia, nulla
era andato perduto come temeva, sembrava che quella distanza durata due
lunghissimi giorni non fosse mai esistita, come se fossero stati
abbracciati
per tutto quel tempo senza perdere nemmeno un solo respiro della
persona amata.
Rimasero
insieme tutta la notte e parlarono come
mai, certo con House è complicato trovare punti di contatto,
ma lei lo
conosceva e discussero tutta la notte del suo nuovo paziente, lui prese
in giro
diverse volte Wilson e le sue sconvolte espressioni quando House gli
proponeva
cure strampalate solo per rendergli più difficile il nuovo
ruolo.
Rise
–non ci credo… come ha fatto a credere a una
cosa simile???- era un po’ gelosa di non poter essere lei la
vittima dei suoi
giochi di potere.
-La
droga accende le parti più remote del nostro
cervello… magari funziona anche con gli uomini in
coma… potrebbero aiutarci a capire
come non far sbavare il mascara o tutte le altre cose per cui si
dispera Wilson
da una vita.