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Autore: ___Ace    10/01/2015    3 recensioni
Nella Francia del XVIII secolo, più precisamente durante il corso del 1789, ogni tipo di potere immaginabile era riposto unicamente nelle mani della monarchia assoluta, a detta dei nobili e del sovrano, per diritto divino. I cittadini avevano sopportato tanto per molto tempo, senza mai lamentarsi e continuando a seppellire vittime di quelle ingiustizie. L'avversione dei sudditi francesi non aveva fatto altro che crescere e inasprirsi di giorno in giorno.
C'era, però, qualcuno pronto a combattere: un gruppo di persone che agivano nell'ombra e che lottavano per i loro ideali di giustizia ed uguaglianza. C'erano i Rivoluzionari, desiderosi di cambiare le cose e di liberare la Francia una volta per tutte.
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Ace/Marco, Ciurma di Barbabianca, Rivoluzionari, Sabo/Koala, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law, Rufy/Nami, Sanji/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Liberté, Égalité, Fraternité.
Trois.

 

Marco era molto scettico riguardo la decisione presa da Barbabianca. Era passato già molto tempo da quando avevano lasciato l’America in fretta e furia, braccati da quelli che una volta avevano chiamato amici, confratelli, famiglia. Li ricordava ancora bene, quei momenti, quando il panico aveva preso possesso di lui e dei suoi due fratelli, ma il babbo li aveva tranquillizzati e aveva promesso loro che nessuno si sarebbe fatto male. Alla fine, era andato tutto per il meglio e loro erano riusciti a lasciarsi alle spalle quella terra traditrice e malvagia. Certo, gli anni passati in mare, girovagando allo sbaraglio, erano stati duri e faticosi, ma avevano dato modo al loro piccolo nucleo famigliare di allargarsi acquisendo nuovi fratelli, tanto da non poterci più stare tutti su una sola nave. La compagnia di navigatori che avevano formato di conseguenza era stata un’ottima trovata e, in quell’ultimo periodo, le tre navi che continuavano a perlustrare il mondo per conto del grande Capitano Newgate avevano avvisato che erano riusciti a trovare un posto tranquillo nel Nuovo Mondo, dove nessuno di loro era ricercato e dove avrebbero potuto stabilirsi in maniera permanente. Finalmente avrebbero potuto lasciare la Francia, ci erano rimasti anche troppo a lungo e ormai la conoscevano alla perfezione. Si erano momentaneamente stabiliti da quelle parti perché la salute di Barbabianca aveva iniziato a far preoccupare un po’ tutti, così avevano deciso di fargli fare una pausa, tenendolo a riposo e non lasciandogli più manovrare una nave. Le cose stavano andando bene, mancava davvero poco alla loro partenza, giusto qualche mese, tempo che due delle loro navi attraversassero l’oceano, quindi, perché imbarcarsi in quella causa che con loro non aveva proprio nulla a che fare?
Tuttavia sapeva che, anche se l’uomo era ormai vecchio e un po’ svampito, non era un incosciente e aveva anche la certezza che non avrebbe mai messo in pericolo la vita dei suoi figli invano.
Così sospirò, tentando di rilassarsi e di prestare attenzione a quella sottospecie di trattativa improvvisata che stava avvenendo sotto al suo naso all’interno della tenda adibita per le riunioni importanti. Ancora non riusciva a credere che quel mocciosetto stesse tentando di guadagnare un alleato in battaglia, per giunta del calibro di Edward Newgate.
-E abbiamo anche un sacco di armi ben nascoste!- stava dicendo entusiasta, come se un paio di misere pistole e qualche spada potessero essere sufficienti a sbaragliare l’esercito francese che proteggeva la Corona. Quasi gli venne da ridere. Loro, a confronto, erano superiori e la mezza dozzina di cannoni che tenevano al sicuro nel folto delle paludi ne era la prova.
Barbabianca ascoltava la spiegazione del ragazzino con interesse misto a divertimento. Da tempo non gli capitava di imbattersi in un moccioso così irriverente e irrispettoso, ma a suo favore poteva dire che il carattere e la determinazione non gli mancavano affatto. Avrebbe potuto dargli una possibilità, giusto per non vivere con il rimpianto e, anche se quei Rivoluzionari erano male organizzati e privi di una buona preparazione militare, ci sarebbero sempre stati i suoi figli da poter assumere come maestri temporanei. E poi, ad essere sincero, vedere capitombolare il Re della Francia sarebbe stato per lui il miglior regalo di sempre.
-Molto bene, ragazzo,- proruppe soddisfatto ad un certo punto, battendo il palmo di una mano sul tavolo e facendolo vibrare, -Mi hai convinto.-
-What?- domandarono Marco e Thatch all’unisono, uno scattando in piedi dalla sedia e l’altro sputando il vino che stava sorseggiando, non preoccupandosi nemmeno di parlare in francese, ma utilizzando direttamente la loro lingua madre.
-What the hell are you doing? We don’t know anything about this shitty brat!- si animò Marco. Aveva detto che si fidava di suo padre, ma non aveva di certo immaginato che avrebbe scelto così velocemente il da farsi. Cosa credeva, che tutti sarebbero stati d’accordo e che avrebbero fatto i salti di gioia per l’inizio di una guerra che, per giunta, non li riguardava?
-Don’t worry, guys.- li zittì Barbabianca, chiudendo il discorso con un gesto secco della mano, rivolgendosi poi a Ace che aveva seguito lo scambio di battute con una faccia confusa. –Dimmi, chi sta a capo della Rivoluzione?-
-Uh? Beh, il popolo.- rispose Ace con ovvietà. Era tra le persone povere che correva il malcontento generale.
-Non c’è nessuno che dirige le vostre rivolte o le operazioni di sabotaggio?- chiese allora in modo più specifico il vecchio.
Ace ci pensò su per qualche istante prima di decidere se parlare o meno. A dire la verità alcune persone, una in particolare, c’erano, ma non era sicuro che fare i loro nomi fosse una buona idea. Optò per il vago. –Forse c’è qualcuno.-
Barbabianca sorrise. –Allora ti sarei grato se riuscissi a mettermi in contatto con questa persona. Non per offenderti, ma non mi sembra il caso di affidare incarichi troppo importanti ad un ragazzino come te.-
A quelle parole, Marco si rilassò visibilmente, mentre Ace digrignò i denti. Era offeso eccome!
-Sono benissimo in grado di fare qualsiasi cosa!- affermò spavaldo.
-Certo, farti catturare dalle guardie ti riesce benissimo a quanto pare.-
Thatch si preparò ad assistere ad una carneficina nell’esatto istante in cui il suo troppo esaltato fratello prese in giro il mocciosetto, il quale non perse tempo prima di rivolgergli un’occhiataccia torva. Quando poi lo vide avanzare di un passo verso il biondo sorrise, felice che finalmente qualcuno osasse sfidare Marco in modo diretto.
-Ripetilo se hai il coraggio.- soffiò Ace, piuttosto incazzato.
-Altrimenti?- ovviamente, Marco non gli avrebbe lasciato carta bianca, assolutamente. Quel piccoletto gli aveva dato fastidio dal primo momento in cui l’aveva visto e se era una lezione quella che voleva, allora non si sarebbe fatto pregare troppo: l’avrebbe rivoltato per bene e a dovere.
Fu Barbabianca a mettere fine al battibecco, liberando Marco da quella scocciatura e incaricando Thatch di accompagnare Ace in città a cercare il loro fantomatico stratega Rivoluzionario e il dottore per il suo amico moribondo.
-Veramente, ecco…- iniziò a dire Thatch a disagio. Non aveva tanta voglia di andare a Parigi, aveva promesso ad Haruta che avrebbe seguito i suoi allenamenti. –Io, insomma, avrei da fare e…-
-Io non ci vado.- scandì Marco, negando con il capo quando il fratello provò a supplicarlo di prendere il suo posto con gli occhi.
Ace attese con impazienza malcelata che decidessero cosa fare. Avrebbe voluto insistere per andare da solo, però aveva capito bene che non si fidavano ancora ciecamente di lui, ma non se la prese. Se doveva dire la sua, nemmeno lui era certo di quello che stava facendo, ma se tutto ciò fosse servito a vincere la causa del popolo, allora avrebbe fatto qualche sacrificio di sopportazione.
Alla fine, Thatch fu costretto ad accettare il compito.
Poco male, si disse, almeno non mi annoierò a morte e andrò a farmi una passeggiata in centro. Con questa storia dell’anonimato non si può mai andare in giro!
Uscendo dalla tenda, prima che si separassero, Marco lo affiancò per parlargli con tono complice. –Non ti preoccupare, avviso io Haruta.- gli assicurò ammiccando.
-Non so di cosa parli.- ribadì il castano, mantenendo un portamento serio e disinteressato. Non era nulla di che e non gli dispiaceva poi così tanto. Sua sorella avrebbe potuto benissimo arrangiarsi da sola come al solito senza alcun problema.
Oh, ma dannazione, e lui come lo sa? si domandò in ogni caso, procedendo lungo il sentiero verso le mura con Ace al suo fianco, tutto allegro mentre trotterellava facendogli strada. Non vedeva l’ora di mettere piede a Parigi per liberarsi di quell’impiastro che gli avevano appioppato alle calcagna. Avrebbe fatto perdere le sue tracce e poi sarebbe corso alla base per recuperare Law e ideare qualcosa per ritrovare Rufy. Non gli andava che uno di quegli svitati che vivevano nelle paludi vedesse il Quartier Generale dei Rivoluzionari, quindi sarebbe tornato lui da loro una volta sistemate alcune faccende personali.
Con i tempi che correvano non ci si poteva fidare di nessuno.
 
*
 
Law sistemò gli strumenti da lavoro in una borsa abbastanza ampia da poterli contenere tutti per poi uscire dalla sua stanza e scendere le scale fino all’ingresso dove si fermò per indossare un lungo cappotto nero. Nel vestirsi gettò un’occhiata fuori dalla finestra, notando il cielo grigio e con le nuvole gonfie di pioggia.
Che tempo di merda, pensò svogliato, apprestandosi ad aprire la porta per uscire.
-Law, tu vais où?- gli chiese una voce che sbucò all’improvviso alle sue spalle, facendolo bloccare sull’uscio appena aperto.
Il ragazzo sospirò, assumendo poi un espressione piatta e neutrale, voltandosi appena per rispondere al suo mentore. –Ho delle visite da fare. Starò fuori tutto il giorno.-
Non stava mentendo, non ne aveva bisogno dato che aveva sul serio dei pazienti da visitare, operare e ricucire, solo che più della metà di loro non erano esattamente gente delle alte sfere, ma miseri poveracci che credevano di poter portare la pace nel mondo con una rivoluzione improvvisata.
L’uomo alle sue spalle annuì pensieroso, salutandolo e ricordandogli di non rientrare troppo tardi la sera. –Gira brutta gente per le strade.- lo ammonì.
Law annuì e uscì in strada, chiudendosi il portone dietro di sé e alzando gli occhi al cielo, scocciato. Come se non sapesse quello che stava succedendo a Parigi in quel periodo, anzi, se doveva essere sincero aveva esattamente ben presente che razza di gentaglia brulicava la notte per le vie della città, ma non si preoccupava affatto di correre dei pericoli. Insomma, era o non era il medico di fiducia dei Rivoluzionari?
Ghignando divertito, si incamminò lungo la rue, ripassando mentalmente alcune nozioni che aveva studiato la sera precedente e facendo mente locale di tutti gli appuntamenti che aveva quel giorno. Nella sua lista rientrava anche qualche nobile, visto che doveva pur dire al suo tutore da quali persone illustri andava, così, nel giro di un paio d’ore, completò le visite a domicilio nei quartieri più ricchi, facendo buon viso a cattivo gioco e immaginando tutti quei luridi figli di puttana bruciare nelle fiamme della rivolta. Ovviamente, si comportò in modo impeccabile.
Una volta libero da quelle seccature si concesse una pausa in un café nel Quartiere Latino, imboccando poi una stradina laterale e scomparendo nei vicoli della periferia senza che nessuno prestasse attenzione ad un anonimo passante incappucciato e solo.
Solamente quando iniziò a riconoscere il quartiere si rilassò, conscio che presto sarebbe stato circondato da gente con degli ideali e del carattere forte, a differenza di quelli che, solo perché avevano i soldi, non facevano altro che oziare e perdere tempo. Li considerava insulsi e inutili, quindi se quei maleducati cittadini dei bassifondi li toglievano di mezzo a lui andava più che bene.
Un paio di uomini lo riconobbero e lo salutarono con un cenno rispettoso, mentre Law poté ben notare le armi sotto i loro vestiti. Difficilmente qualche intruso sarebbe riuscito ad andarsene vivo dalla periferia.
-Signor Trafalgar!- strillò con fare infantile un mocciosetto che conosceva fin troppo bene, correndogli incontro e fermandosi davanti a lui con occhi adoranti. –Come sta? Ha dormito bene? Vuole che le porti la borsa?-
-No Shachi, voglio solo che tu stia zitto.- rispose lui, guardandosi attorno alla ricerca di Penguin, più professionale e meno espansivo. Perché quella sanguisuga che baciava la terra dove camminava non aveva preso dal fratello?
-Bonjour.- salutò a quel punto l’altro infermiere, apparendo sulla soglia di un’apparente edificio abbandonato e decadente, facendogli cenno di entrare.
Se all’esterno la costruzione sembrava cadere a pezzi, l’interno era tutt’altra cosa. Era accogliente, caldo e colorato. Law avrebbe usato anche l’aggettivo vivo per descriverlo perché le persone che vi si aggiravano erano sempre molte. C’era un clima amichevole, confidenziale, quasi famigliare. Tutti si conoscevano e si sostenevano a vicenda, nessuno veniva lasciato da solo e ogni povera anima che arrancava fino alle porte della casa in cerca di aiuto era sempre ben accetta. Era diverso dalle sale fredde, spente e solitarie che c’erano nelle abitazioni dei nobili. Law lo sapeva bene, dopotutto, lui ci viveva in un ambiente come quello e si sentiva orribilmente solo. Era stato quello uno dei motivi che lo avevano spinto ad abbracciare l’idea della Rivoluzione: i ricchi credevano di avere tutto, ma la verità era che non avevano proprio nulla. Preferiva di gran lunga stare in compagnia di grezzi contadini e lavoratori, piuttosto di conversare con gente raffinata e ignorante.
Finse di non apprezzare i saluti che gli venivano rivolti, mantenendosi distaccato e disinteressato, salendo al primo piano ed entrando nella sala che avevano riservato alle cure dei feriti e dei bisognosi. Si sentiva bene in quel luogo ed era ogni giorno più vicino a definirlo quasi come una casa. Lì poteva essere se stesso, poteva osservare senza dire nulla, poteva studiare, sperimentare, provare, poteva seguire la sua passione, poteva fare tutto. Era libero.
-Aspetti, non può entrare! Si metta in fila!- disse una voce all’esterno, seguita da un baccano e da un colpo secco addosso alla porta della stanza in cui si trovava con Penguin e Shachi, intenti  ad organizzare il tutto per cominciare le visite.
-Levati di mezzo, microbo!-
L’istante successivo, un energumeno isterico fece il suo ingresso con al seguito un tizio con dei lunghi capelli biondi che cercava di calmarlo, pregandolo di comportarsi bene.
Il medico, di fronte a quella scena, si concesse un ghigno beffardo, mentre osservava i due con curiosità.
A volte, facendo il suo lavoro si divertiva pure.
-Bene, bene, bene.- disse, sbottonandosi lentamente i polsini della camicia ed iniziando a ripiegare le maniche fin sopra i gomiti, -Ha seguito i miei consigli, Monsieur Eustass. E’ tornato per la visita di controllo?-
Il diretto interessato, nel frattempo, si era fermato al centro della stanza e soffiava aria dal naso come un toro irritato, proprio come quelli che aizzavano gli spagnoli durante le Corride. Il suo amico, invece, pareva indeciso se mettersi in mezzo o lasciarlo fare.
-Senta un po’, Dottor Trafalgar,- sbottò il rosso, levandosi con un gesto secco la giacca che aveva indossato prima di uscire da quella bettola che chiamava casa, -Il suo lavoro é sicuro di saperlo fare bene?- lo sfotté, mostrando la camicia macchiata di sangue, segno che la ferita curata la notte precedente si era riaperta.
A quella vista Penguin impallidì, mentre Shachi decise che era meglio uscire dalla sala prima che qualcun altro si fosse ritrovato con arti sanguinanti oltre che a quell’idiota di un Rivoluzionario.
-Siediti sul tavolo.- ordinò con tono freddo Trafalgar, lasciando perdere le forme di cortesia e ignorando tutti, voltandosi per afferrare ciò che gli serviva per curare quel braccio.
Eustass Kidd avrebbe voluto ribattere che lui non si faceva comandare da nessuno, ma capì da solo che sarebbe stato meglio se fosse rimasto zitto, almeno per quella volta, così obbedì suo malgrado e si sedette sul bordo del tavolino in legno utilizzato come tavolo operatorio.
-Ehi, Killer, non azzardarti ad uscire di qui.- disse sottovoce al ragazzo accanto a lui, il quale annuì con un cenno deciso del capo. Non lo avrebbe detto, ma era contento di aver trovato qualcuno in grado di calmare gli isterismi di Kidd e, anche se quel dottore gli metteva una certa inquietudine, gli era grato per non averli fatti sbattere fuori a calci dopo che erano entrati senza educazione e rispetto per quelli che stavano attendendo prima di loro.
A Kidd, invece, non fregava proprio un cazzo di non aver rispettato la fila e fremeva per potersene andare di lì alla svelta. Prima, però, doveva farsi sistemare il braccio. Accidenti a lui e a quando aveva deciso di fare a cazzotti con un suo compagno. Non era stata tutta colpa sua, però, era stato l’altro a irritarlo e a fare battute sui suoi capelli. Quel particolare dello scontro, però, non lo avrebbe confessato a quel dottorino, preferiva farlo sentire un incompetente buono a nulla. E poi era ancora incazzato per il fatto che, mentre lo stavano operando, si fossero permessi di prendersi gioco di lui.
Law gli si avvicinò e si collocò davanti, fissando la macchia che aveva inzuppato la camicia bianca.
-Spogliati.- disse con voce apatica, come se ormai conoscesse la procedura a memoria e stesse ripetendo un’azione che aveva fatto, e visto fare, migliaia di volte.
Kidd, però, non era tipo da rimanersene buono e zitto troppo a lungo, così non perse tempo e, iniziando a sbottonarsi la veste, decise che una chiacchierata non avrebbe fatto male a nessuno.
-Ma dai, è la seconda volta che ci vediamo e già mi chiedi di spogliarmi?- lo beccò, sorridendo malizioso e sfilandosi una manica, lasciando scoperta una parte del torace asciutto e allenato e della spalla sinistra, ampia e forte, sfregiata in quel momento da una brutta ferita sanguinante.
Law sembrò non sentire nemmeno le battutine di quello che considerava solo uno stupido paziente e afferrò saldamente il suo avambraccio, ruotandolo verso di sé ed iniziando a controllare con attenzione e concentrazione i punti, curioso di constatare se aveva fatto lui un pessimo lavoro o se quel coglione di un francese del sud lo stava prendendo per il culo.
-Ma dai,- rispose in ogni caso, imitando il tono sorpreso usato prima dall’altro, -Tieni il conto dei nostri incontri?-
Sentì Penguin sghignazzare sommessamente alle sue spalle e non gli sfuggì nemmeno il sorriso trattenuto a stento del tizio biondo e grosso quanto un armadio che osservava la scena dall’alto, vicino al suo amico, rosso di capelli e di imbarazzo, il quale lo fissava in modo stupito e offeso.
Prima che Kidd potesse ribattere, Law posò le dita sulla ferita e godette nel sentirlo sussultare. Almeno se ne sarebbe rimasto in silenzio e non avrebbe aperto la bocca per dire cazzate durante un controllo medico.
Alla fine, senza dire una parola, prese il disinfettante e pulì la zona interessata, rimettendo poi i punti dove serviva e fasciando il braccio con bende pulite e nuove.
Solo quando ebbe finito e rifatto la medicazione si concesse di riprendere il discorso da dove lo avevano interrotto, incrociando le braccia al petto e guardando spudoratamente dritto in faccia l’uomo che gli stava di fronte, fissandolo torvo a sua volta.
-Sentiamo,- esordì il moro con sarcasmo, -Quale scusa hai da inventarti per spiegare questo?- domandò, indicando con il capo l’arto leso del rosso.
-Assolutamente nessuna!- si infervorò Kidd, deciso a farlo sentire un inetto, -Hai semplicemente sbagliato a curarmi ieri.-
Trafalgar scoppiò in una risata che non aveva niente di divertente, anzi, sembrava solamente di scherno. E lo era davvero.
-Senti,- fece poi con aria glaciale, guardandolo come se fosse stato un rifiuto. -So meglio io come operare e salvare una persona in fin di vita che quei coglioni pieni di soldi che si credono dottori solo perché lavorano a Corte, perciò non pensare nemmeno di potermi fregare. La ferita si è riaperta perché tu non sei stato fermo. Mi sbaglio, Eustass-ya?-
Kidd lo guardò senza parole e senza sapere cosa ribattere. Quel moccioso dall’aria rachitica e smilza poteva schiacciarlo quando voleva, ma doveva ammettere che aveva le palle per rispondere a tono. Nessuno lo aveva mai affrontato in quel modo. Uno grosso e minaccioso come lui, poi! Gli avrebbe stretto la mano se non fosse stato tanto fastidioso e saccente, ma di certo non poteva ammettere che non era stato ai patti e che aveva forzato il braccio solo per passare il tempo.
Per sua fortuna, o sfortuna, dipendeva dai punti di vista, fu il suo amico Killer a spiegare la faccenda, desideroso di mettere fine a quel battibecco che, lo sapeva e ne era certo, sarebbe finito in una zuffa. E, considerando che il dottore aveva dalla sua parte oggetti appuntiti e conosceva benissimo i punti vitali del corpo umano, era meglio filarsela e non rischiare oltre.
-Si è battuto e la ferita si è riaperta.- confessò mestamente, mentre un sorriso di vittoria stirava le labbra di Law e un ringhio basso fuoriusciva da quelle di Kidd.
Stava per iniziare a bestemmiare, quando la porta si aprì all’improvviso come aveva fatto in precedenza, lasciando entrare un ragazzo dai capelli corvini scompigliati e con gli abiti sgualciti, ansante e frettoloso in compagnia di un uomo sconosciuto e con un buffo ciuffo di capelli castani ben pettinati, tutto sorridente e incuriosito dal luogo.
-Oh, Law, finalmente ti ho trovato!- disse Ace tutto d’un fiato, avanzando nella stanza e ritrovandosi due paia di occhi puntati addosso. –Uh? Ciao Kidd. Anche tu qui?-
-Conosci questo sbandato?-
-Conosci questo stronzo?-
I due ragazzi parlarono all’unisono, scoccandosi poi un’occhiataccia poco amichevole e sbuffando subito dopo, ognuno riprendendo ad ignorarsi: Trafalgar impegnato a ordinare gli strumenti da medico sparsi sul tavolo vicino a Kidd, mentre quello guardava altrove sussurrando improperi.
-Cosa ti serve, Ace?-
Trafalgar fu il primo a parlare, rompendo quel silenzio e dando le spalle ai nuovi arrivati e al suo paziente che, nonostante l’etica medica lo obbligasse a curare chiunque, avrebbe volentieri lasciato morire.
Il ragazzo parve ricordarsi solo in quel momento del motivo per il quale aveva corso a rotta di collo per le vie di Parigi con quella piaga di inglese alle calcagna, il quale non gli aveva dato un attimo di respiro e lo aveva persino legato a sé con un paio di manette rubate chissà dove che, grazie al Cielo, aveva tolto non appena arrivati alla base. A quanto pareva, avevano previsto una sua fuga e si erano organizzati a dovere.
-Devi venire con me alle paludi, mi serve il tuo aiuto. Vedi, Sabo é…- iniziò a raccontare.
-A proposito, che fine avevate fatto? Ieri contavamo su di voi, invece non vi siete fatti vivi e la rivolta è andata a puttane!- si intromise a quel punto Kidd, balzando giù dal tavolino e avvicinandosi al ragazzo per avere spiegazioni.
Ace lo guardò stranito, non capendo di cosa stesse parlando.
-Una rivolta? Voi del cantiere ne avete organizzata un’altra?- domandò, spalancando gli occhi e iniziando a innervosirsi. –Vi avevamo detto espressamente di aspettare!-
-Lo sai com’è fatto Franky. Gli si sono girate le palle e ha deciso di aizzare gli animi.- si giustificò il rosso, non del tutto dispiaciuto. Lui, ogni volta che poteva, prendeva parte a qualsiasi battaglia. Era nel suo sangue.
-Idioti, non avreste dovuto farlo!-
-E questo chi l’ha deciso, tu? Non sei a capo dei Rivoluzionari, moccioso.-
-Bada a come parli, Kidd.-
-Problemi di coppia?- ironizzò Thatch, osservando i due giovani fissarsi in modo truce e ricordandosi con piacere delle zuffe che avvenivano spesso tra lui e i suoi fratelli. Tutto affetto, quello.
-E tu chi cazzo sei?- gli venne chiesto dal tizio dall’aria minacciosa e poco amichevole.
Si schiarì la voce e fece un passo avanti, sorridendo ampiamente e porgendogli la mano che, come aveva immaginato, non venne nemmeno degnata di attenzione. –Il mio nome è Thatch. Sono un amico di Ace, diciamo.-
-Cazzate.- lo liquidò il diretto interessato, chiudendo il discorso. –Kidd, ora vado di fretta, ma sappi che presto faremo un discorsetto, tu ed io, chiaro?-
Il rosso sbuffò seccato, alzando gli occhi al cielo e voltandosi verso l’uscita per andarsene assieme al suo compagno che, nel frattempo, se ne era rimasto in silenzio ad osservare annoiato la scena.
-Ti mando la parcella a casa, Eustass-ya.- si fece sentire allora la voce del chirurgo, piuttosto divertita e sarcastica, cosa che urtò parecchio i nervi già tesi di Kidd, obbligandolo a salutare tutti con un gestaccio della mano prima che la porta si chiudesse sbattendo.
-E’ un tipetto particolare.- commentò Thatch.
-E’ una testa di cazzo.- fu la sincera risposta di Ace. –Senti, Law, so che sei impegnato e non te lo chiederei se non fosse un’emergenza, ma devi venire con me alle paludi.-
-Non ti aiuterò a riesumare cadaveri solo per usarli come manichini per spaventare le guardie di nuovo.- lo avvisò quello, inarcando un sopracciglio scettico e osservando di sottecchi come il nuovo amico di Ace rabbrividisse a quell’idea.
Il più piccolo scosse energicamente il capo. –No, no, no!- lo rassicurò, -Devi venire a visitare Sabo. Le guardie ci hanno teso un’imboscata ieri e lui è rimasto ferito. Non può muoversi.- gli spiegò di fretta, iniziando a trascinarlo per la manica della camicia. –Avanti, vieni, ti prego!-
Trafalgar sospirò sconfitto, prendendo subito una decisione positiva e acconsentendo ad accompagnare quell’impiastro del suo amico. Sapeva che, se avesse detto di no, non avrebbe avuto un attimo di pace. E poi c’era Sabo da mettere in conto. Quel ragazzo era essenziale nei loro ranghi, per cui bisognava andare a recuperarlo il prima possibile.
-Penguin, te la senti di pensarci tu fino al mio ritorno?- chiese, rivolgendo un’occhiata speranzosa verso il suo infermiere di fiducia.
-Assolutamente!- gli assicurò, entusiasta per l’incarico affidato.
-Bien.- disse, recuperando il cappotto poggiato sullo schienale di una sedia e guardando i due nuovi arrivati. –On y va?-
 
*
 
-Hai intenzione di tenermi il muso ancora per molto?-
Sabo, se possibile, si imbronciò ulteriormente e si tirò le coperte fin sopra la testa, nascondendosi interamente alla vista della ragazza che, stanca di quel comportamento che durava ormai da troppo, posò malamente il piatto con la minestra che gli aveva portato sopra al tavolino improvvisato accanto al letto.
-Well, you know what? Do the fuck you want, little princess.- disse scocciata, alzandosi e dirigendosi a passo deciso verso l’uscita, scostando la tenda ruvida e finendo quasi per sbattere addosso a suo fratello Thatch, il quale la salutò sorridendo e agitando la mano nella sua direzione.
-Allora, come sta il nostro ospite?- le chiese allegro, mentre veniva raggiunto da Ace e da un ragazzo che lei non aveva mai visto ed era certa di non conoscere. Li avrebbe salutati e si sarebbe presentata al nuovo arrivato, ma era davvero troppo infastidita da quei modi di fare altezzosi e spocchiosi che avevano la maggior parte dei francesi, compreso quell’idiota che stava vegetando a letto in quel momento, così li ignorò, superandoli e allontanandosi con un sottofondo di improperi.
-That silly brat. Fuck him!-
Thatch la fissò sbattendo le palpebre, non sapendo bene cosa dire, ma decidendo infine di scoprirlo da solo e di lasciarla sbollire la rabbia. Non voleva di certo incappare nelle sue ire e rischiare che il malumore della ragazza si riversasse su di lui. Era meglio se andava a sbraitare con Marco, o Izou, ancora meglio.
Così scosse il capo, liquidando la faccenda e facendo segno agli altri due di seguirlo nella tenda, trovando un Sabo silenzioso e pensieroso che guardava il vuoto di fronte a sé come se fosse stato in trance. Che Koala lo avesse preso a schiaffoni? Probabile, ma il volto non era arrossato. Forse, per quella volta, l’aveva scampata.
Il biondino, in realtà, si stava semplicemente chiedendo cosa aveva detto la ragazza prima di uscire. Lui, con l’inglese, non era molto bravo, e gli era rimasta la curiosità di conoscere il significato di alcune parole. Per esempio, little princess.
Ad ogni modo, tutto fu accantonato non appena scorse Ace entrare nella stanza, tutto affannato, con i capelli disastrati e, lo notava sempre, troppo lunghi, la giacca sgualcita e l’aria esausta, ma anche sollevata. E poi sorrideva e, quando lo faceva, voleva dire che tutto andava bene.
-Mon frère!- disse il corvino, raggiungendo il giaciglio dove era sdraiato e saltandoci praticamente sopra. –Comment ça va?-
-Très bien!- gli assicurò il biondo, assumendo un’espressione convincente. Non se la stava passando male, non del tutto, eccetto qualche fitta al fianco che gli continuava a dare un certo fastidio di tanto in tanto, ma era normale, si diceva.
-Ho trovato Law.- gli rese noto allora Ace e, proprio in quel momento, la figura del diretto interessato entrò nel campo visivo di Sabo con un’aria inquietante e vagamente curiosa.
-Hai fatto l’eroe vedo.- commentò, ma nel suo tono non c’era traccia di divertimento o sarcasmo. Era semplicemente piatto e disinteressato, come al solito d’altronde. Sabo, però, non si fece impressionare; conosceva Trafalgar da tempo e aveva imparato, un po’ come tutti gli altri, a come comportarsi con lui. Bastava ignorare quella sua aria intoccabile da uomo superiore perennemente scocciato ed essere se stessi. Il che, per la precisione, non era sempre facile perché il dottore aveva l’inconsueto potere di far sentire anche il più intelligente uno stupido.
-Solo un poco.- ammise, grattandosi la nuca con fare imbarazzato e lasciando che si avvicinasse per visitarlo. Ne avrebbe avuto per un po’ lo sapeva, Law era sempre molto attento e impeccabile nel suo lavoro e se doveva scegliere qualcuno a cui affidare la sua vita, beh, avrebbe fatto il suo nome senza esitazione.
Law esaminò con calma e attenzione la ferita che era stata ricucita e, a parte il fatto che erano stati applicati più punti del necessario, si ritrovò a constatare che, almeno, non era stato condotto un lavoro pessimo e le condizioni di Sabo non erano state messe a rischio, ma migliorate. Un problema in meno, restava solo da vedere come avrebbe superato la cosa. Doveva stare a riposo, disinfettare costantemente il fianco e cambiare le bende in modo da evitare infezioni. Era meglio essere previdenti, dato che era stato a contatto con i batteri presenti nella Senna e ritrovarsi con un virus in corpo di certo non era da prendere alla leggera come possibilità, anche se Law era quasi certo che il peggio fosse passato.
Alla fine della visita sospirò e finì di sistemare le bende nuove sotto lo sguardo impaziente di Sabo e quello preoccupato di Ace. Thatch, invece, se ne stava tranquillo e sorridente appoggiato all’ingresso, certo che la sua collega avesse fatto un ottimo lavoro.
-Sei stato fortunato,- disse appunto Trafalgar in quel momento, -Ti hanno operato bene. Ringrazia il dottore.- gli consigliò, battendogli con poca delicatezza una pacca sulla spalla e lasciandolo boccheggiante per il dolore che ancora sentiva, ovvero un continuo indolenzimento a tutti gli arti. Ma era normale, continuava a ripetersi, tutto normale.
Era normale sentirsi affaticati, stanchi e senza un polmone, dato che, per colpa dell’acqua ingerita e del freddo, sentiva gli organi bruciare ad ogni respiro; era normale avere i muscoli a pezzi e le palpebre pesanti; era anche normale sentirsi ignoranti e cretini quando non si capiva la lingua altrui; infine, ma non meno importante, era normale sentirsi in colpa per aver trattato male qualcuno che non lo aveva affatto meritato.
Ad esempio, il dottore in questione che gli aveva salvato la vita.
Sabo era stato così preso da se stesso e dai suoi problemi che si era lasciato prendere la mano, comportandosi in maniera scortese con chi gli aveva offerto aiuto, cibo e un posto dove dormire e non morire congelato. Cosa avrebbero pensato di lui i suoi fratelli? Cosa avrebbe detto Rufy, il quale lo vedeva come un esempio e lo lodava sempre davanti a tutti per il suo buon cuore e per l’altruismo che lo caratterizzava? Era stato proprio un moccioso, doveva ammetterlo per forza.
Mentre era ancora intento a riflettere, Law aveva raccolto le sue cose e si era preparato per tornare in città a svolgere il suo lavoro e a ricucire poveri esagitati francesi che credevano di poter entrare a palazzo senza un preciso piano d’azione.
-Io me ne vado. Vedi di non strafare.- ammonì Sabo, il annuì con un cenno del capo distratto. Poi si rivolse a Ace, sperando di venire ascoltato con più interesse. –Tienilo d’occhio.-
Detto ciò, fece per uscire, trovando il cammino sbarrato da quell’inglese sempliciotto che lo guardava con quell’incancellabile sorrisetto che gli conferiva un’aria da babbeo. Ciò Law glielo avrebbe detto con gusto, ma non voleva sprecare fiato con gli ignoranti.
-Dovrei passare.- dichiarò con una calma agghiacciante.
-Non crederai che ti lasci andare tanto facilmente. Devo prima bendarti per non farti riconoscere la strada e…-
-Senti, chiunque tu sia, ci troviamo nel bel mezzo delle paludi e all’andata non mi hai coperto gli occhi. Inoltre dovrò tornare per controllare le sue condizioni e preferisco farlo quando mi pare senza un invito scritto. A differenza di voi perditempo, io lavoro.- spiegò freddamente, lasciando il castano senza un valido argomento con cui ribattere e con la sensazione di essere appena stato fottuto alla grande. Ma cosa avevano tutti in quel periodo? Lui voleva solo giocare e scherzare, mentre gli altri erano scorbutici e schizzati. Forse era l’aria di guerra che si respirava in città ma, accidenti, un pochino potevano anche rilassarsi.
Si arrese comunque all’evidenza e alzò le mani in segno di resa, spostandosi per lasciar passare quel tizio dall’aria inquietante. –Fa come se fossi a casa tua.- ironizzò.
-Bene. Ci vediamo Ace.-
-Aspetta, vengo con te.- lo informò il giovane, affrettandosi per raggiungerlo.
-Cosa? Mi lasci qui?-
Solo allora Sabo si riscosse, concentrandosi sulle persone davanti a lui.
-Devo organizzare un giro di ricognizione per trovare Rufy, lo sai.- gli ricordò tetro; l’ansia ben visibile sul suo volto. Poi gli rivolse uno sguardo di scuse. –Tornerò presto con buone notizie.- gli promise, avvicinandosi al letto e porgendogli il pugno.
Sabo sospirò, conscio che il fratello aveva un compito importante da svolgere, perciò non insisté oltre e accettò la cosa, facendo cozzare la mano contro quella dell’altro in un segno di consenso.
-Trovalo e riportalo a casa.- disse, guardando Ace negli occhi e sorridendo nel trovarli determinati e fermi, brucianti di coraggio e iniziativa.
-Ci puoi scommettere!-
 
*
 
Tashiji stava osservando il baracchino del fornaio situato sulla via principale brulicante di persone da un buon quarto d’ora ormai, deglutendo ogni volta che qualcuno comperava una pagnotta o mezza baguette, perché a quei tempi la tassa sul pane era salita a dismisura, e ascoltando il sonoro concerto che stava facendo il suo stomaco vuoto e affamato. Non mangiava qualcosa da quasi due giorni e le forze la stavano abbandonando, se lo sentiva, perciò voleva essere certa che nessuno potesse riconoscerla quando si sarebbe azzardata a rubare. Si, perché le persone si erano ridotte a dover ricorrere a inutili sotterfugi per sopravvivere.
Non le piaceva comportarsi male, da sempre era stata abituata a seguire le regole e ad essere onesta, ma i tempi erano duri ed era stata quindi costretta a scendere a patti con lati di se stessa che non credeva di avere. Lei, la ragazza che avrebbe dato la vita per un mondo giusto ed equo stava per sputare in faccia alle sue convinzioni.
Strinse i pugni e scosse il capo per evitare dei ripensamenti. Aveva fame e doveva mangiare qualcosa per forza, o non sarebbe arrivata alla fine della settimana.
Così, calcandosi bene il cappuccio in testa e lanciando occhiate a destra e a sinistra, uscì dal vicolo e si confuse tra la folla presente quel giorno di mercato, avvicinandosi sempre di più alla bancarella con il pane caldo e profumato che le faceva gorgogliare lo stomaco. Silenziosamente raggiunse il banco e finse di guardare altro fino a che il fornaio non si impegnò in una trattativa che comprendeva un cesto di pane in cambio di due polli. Fu allora che agì, facendo uscire lesta una mano dalla mantella e afferrando una pagnotta appena sfornata, facendola poi scomparire velocemente sotto all’abito, allontanandosi a passo svelto.
Il cuore le batteva all’impazzata e aveva rubato solo un misero pezzo di pane! Anche se pensava che c’era gente che per disperazione si infiltrava nelle case altrui non si sentiva meno colpevole, ma decise che si sarebbe crogiolata nella vergogna più tardi, quando avrebbe pranzato.
Si allontanò solo di qualche passo, però, prima di rallentare fino a fermarsi in mezzo alla strada, mentre la gente continuava a passarle accanto, urtandola di tanto in tanto.
Ma cosa sto facendo?, si chiese, sospirando amareggiata e schifata dalle sue stesse azioni. Non erano quelli i comportamenti che le aveva insegnato la sua famiglia, non erano quelli i gesti altruisti e rispettosi che sognava di fare, non era quello un giusto ideale di lealtà e giustizia e, di sicuro, non era la via migliore per essere un giorno una persona corretta e ammirata.
Si strinse nel mantello e si voltò per tornare sui suoi passi, disposta a rinunciare al primo pezzo di cibo che vedeva da giorni. Dopotutto, non era così affamata e lo stomaco le si era chiuso dopo quello che aveva fatto. Raggiunse allora la bancarella e, invisibile come quando lo aveva rubato, ripose il pane al suo posto.
Tornò nel suo vicolo e ci si infilò dentro, schivando dei bancali di legno e raggiungendo il suo angolino buio e poco illuminato dove si era trasferita da qualche settimana, costretta a nascondersi per non venire identificata e catturata. Dopo il casino che aveva combinato suo padre nelle forze dell’ordine era meglio non farsi vedere in giro.
Si permise di sospirare sollevata, stanca, ma felice di non aver ceduto a quello che sarebbe potuta diventare, ovvero una ladruncola di strada, quando qualcuno si schiarì la voce, facendola sussultare, tanto che si schiacciò contro la parete in ombra per non farsi vedere.
Una figura si staccò da uno dei fasci di legno che rendevano il vicolo una via impraticabile e si avvicinò per mostrarsi a lei, facendole rivoltare le budella e salire l’angoscia e la disperazione. Sentì l’aria mancarle quando si rese conto che si trattava di un ufficiale.
Merde!
-Lo sai che rubare è un reato?- le chiese l’uomo, portandosi con due dita un sigaro alla bocca per prenderne una lunga boccata e soffiarla poi verso di lei, facendole bruciare le narici per via dell’odore acre e pesante.
Tashiji deglutì a fatica, ma non si azzardò a rispondere, impegnata com’era a controllare i tremiti che le percorrevano violentemente il corpo. Si era fatta beccare come una stupida, avrebbe dovuto saperlo che durante il mercato le guardie giravano anonime per la città con il fine di evitare o placare rivolte sul nascere visti gli avvenimenti degli ultimi giorni. E lei si era fidata di se stessa e si era azzardata a rubare senza assicurarsi di non dover poi finire nei guai.
Ormai era tardi per colpevolizzarsi, così decise che, prima di infastidire ulteriormente la guardia continuando a sperare di diventare un tutt’uno con la parete e scomparire, era meglio dimostrarsi collaborativi e pronti a subire il meritato castigo. Sperava solo che non le avrebbe amputato il braccio.
Così si fece avanti mestamente a capo chino, torturandosi le mani e infossando la testa nelle spalle, nascondendo parte del viso nel mantello rosa antico e logoro, ma ancora abbastanza pesante da tenerle un po’ di caldo durante la notte.
Tirò su col naso, aveva un po’ di raffreddore, e prese coraggio per non parlare con voce tremante o balbettante. –Mi assumo le mie responsabilità, Signore.- sussurrò.
Avrebbe potuto fare di meglio, ma era soddisfatta, almeno non era risultata impaurita o scontrosa. Sperò solo che l’uomo apprezzasse il suo temperamento.
-Potresti finire in prigione per una cosa del genere.- continuò il diretto interessato, incrociando le braccia al petto e fronteggiandola con tutta la sua stazza. Le aveva tolto ogni via di fuga in quel modo, ma più la guardava e più si rendeva conto che la ragazza non avrebbe fatto assolutamente niente per non perdere la sua libertà, a differenza dei tanti topi di fogna con cui si trovava ad avere a che fare tutti gli stramaledetti giorni della sua vita.
La vide annuire con il capo facendosi, se possibile, ancora più piccola.
Chiuse gli occhi stancamente e prese il sigaro tra le dita, passandosi una mano sul volto e premendo alla base del naso per riordinare i pensieri. Era veramente stufo di quella situazione, praticamente esasperato. La Rivoluzione era in corso e le cose non stavano andando per niente bene. Ancora non avevano scovato chi stava dietro a quella massa di ignoranti, animati solo dal desiderio di un futuro migliore ed equo; il Re di certo non faceva del suo meglio per farsi amare e le leggi ingiuste che continuavano ad essere emanate non aiutavano a calmare gli animi. Per non parlare dei coprifuochi, delle tasse, delle prigioni e di tutto il corpo di guardia corrotto. In che merda di mondo stava vivendo?
Guardò di nuovo quella ragazzina, troppo indifesa e forse troppo piccola per poter sopportare di venire rinchiusa in una cella dove, sicuramente, avrebbe subito i peggiori trattamenti immaginabili e si chiese se valesse veramente la pena applicare la legge anche in quel frangente. Dopotutto, lei non aveva esattamente rubato. Certo, si era impossessata di una pagnotta, piccola ed insignificante, tanto che nessuno se ne era accorto, ma l’aveva anche rimessa al suo posto. Non sapeva per quale diavolo di motivo, ma era certo che, anche se non conosceva la ragione, la ragazza non fosse un pericolo. Anzi, forse era lei stessa a dover temere quello che la circondava. Per esempio, vivere in quelle condizioni non era ne salutare, ne sicuro, anche se sembrava non avere nient’altro con sé. Forse era una dei vagabondi che spopolavano per i vari quartieri, o semplicemente era finita sul lastrico a causa delle ingenti somme di denaro che i cittadini erano costretti a versare alla Corte, ad ogni modo, a Smoker non interessava la sua storia e non voleva neppure sapere come avrebbe fatto a tirare avanti. L’unica cosa che contava per lui era che si era comportata correttamente e, per quel motivo, non meritava di essere punita. Non c’era bisogno di fare giustizia.
Riprese il sigaro tra le labbra, affondando le mani nelle tasche e cercando qualche spicciolo da lasciarle.
-Tieni.-le disse, porgendole tre monete con una mano guantata, ritrovandosi in quel modo un paio di occhi sgranati su di sé.
Tashiji sbatté le palpebre più volte prima di rendersi conto di quello che stava effettivamente succedendo. Un ufficiale le stava offrendo del denaro dopo che l’aveva colta in flagrante. Tutto ciò era assurdo e aveva dell’incredibile per lei. Perché non la arrestava o non la ammoniva? Perché non la guardava con ribrezzo o con minaccia, ma mostrava pietà e compiva un gesto magnanimo nei suoi confronti? Non riusciva a trovare una risposta adatta alle sue domande, anche se una vaga idea poteva avercela. Che si fosse comportato in quel modo solo perché era una donna e si sentiva impietosito per la sua condizione?
Subito, il disagio che aveva provato per la paura di un arresto venne sostituito da un senso bruciante di fastidio e orgoglio ferito. Lei non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno e tantomeno voleva essere trattata con favoritismi solo perché non era considerata alla pari di un fottuto uomo.
-Non so perché lo stiate facendo,- mormorò freddamente, scandendo bene le parole, -Ma non accetterò il vostro denaro.-
Stronzo, avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne dal farlo.
-Il mio era un ordine.- le rese noto allora l’ufficiale con una smorfia poco amichevole, ma, vedendo che lei non accennava a muoversi per obbedire, continuando invece a fissarlo apertamente in viso con una determinazione disarmante e che aveva visto solo in poche persone, decise che non avrebbe perso altro tempo.
Aprì il pugno e lasciò che le monete cadessero a terra, dedicandole un ultimo sguardo ambiguo prima di darle le spalle e andarsene come era venuto.
-Con chi devo ritenermi in debito, Signore?- sbottò allora Tashiji, stringendo i denti e i pugni, ferita nell’orgoglio e umiliata fin dentro nell’animo onesto che si ritrovava.
Senza fermarsi, l’uomo continuò ad avanzare seguito da una leggera nuvoletta di fumo grigio e denso. –Capitano Smoker.- rispose atono e disinteressato, come se non credesse più nel valore del suo nome e del suo grado. –E non sei in debito con nessuno.-
 
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Buongiorno a tutti! Mi stavo completamente dimenticando che oggi è sabato, LOL, ma alla fine ho fatto mente locale, per cui eccomi qua ^^
Questo capitolo mi è sembrato infinito, anzi no, aspettate di vedere il prossimo D: la verità è che mi sono data una specie di limite, ovvero circa dodici pagine alla volta… Si, sono troppe, ma la prima volta che ho iniziato questa storia mi sentivo come un fiume in piena e non riuscivo a smettere, per cui portate pazienza, sarà che a me i capitoli infiniti piacciono.
Allora, oggi vediamo un po’ la panoramica riguardante le vicende della ciurma di Barbabianca e dei vari stati d’animo, per esempio Marco, diffidente come sempre, Thatch, allegro e spavaldo, Newgate che si esalta con poco, eccetera. Nella mia testa Marco ha come fratelli di sangue Thatch (perché, andiamo, con quei capelli stanno benissimo nella stessa famiglia) e Vista, perché mi sta simpatico. Gli altri sono stati raccattati nel tempo, ecco. Anche Koala è stata adottata, quindi svelato il mistero del perché sta con loro, ma più avanti vedrò di dare un’inquadrata anche alla sua storia.
Poi, beh, tra Law e Kidd le cose sembrano andare di male in peggio. Molto bene direi ^^ a differenza di Sabo e Ace che credo di amare.
Yep, ho aggiunto anche Tashiji e Smoker. Si, insomma, mi piacciono assieme. Certo, lei non rientra per niente nelle mie preferenze femminili, ma assieme al modernissimo Smokah-san mi piace.
Che altro dire, ringrazio tutti, vecchi e nuovi lettori, e anche in particolar modo coloro che mi lasciano da leggere le recensioni. Sono contenta che vi piaccia, spero di fare un buon lavoro!
 
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Anche per oggi è tutto ^^ alla prossima settimana con il quarto capitolo che, sinceramente, spero vi strappi qualche risata ^^
 
See ya,
Ace.
  
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