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Autore: Cassandra Morgana    19/11/2008    1 recensioni
Un tiranno ed una città a un soffio dalla guerra civile.
Un gruppo di ragazzi improvvisati ribelli, persi nelle sfuggenti sfaccettature del loro essere e del loro ruolo, fra le trame di un complesso interagire nel mondo.
Una minaccia soffusa che aleggia nell'aria...
Un luogo immaginario e un momento storico immaginario, "riconducibile" al XVIII secolo europeo.
Benvenuti a Noir Trésor!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Noir Trésor ~'
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Capitolo 19

Brandelli di solitudine

 

 

 

Orrore e dubbio confondono i suoi pensieri affannati

E dal profondo l’Inferno gli si agita dentro

Poiché l’Inferno ha dentro di sé

L’Inferno attorno a sé

E non c’è passo che valga ad allontanarlo

Dall’Inferno che in lui alberga.

(Milton, Paradiso Perduto)

 

 

 

 

Nessun timore. Nessuna emozione, nessun riflusso di quel dolore disperato che l’aveva incatenato per due giorni e due notti, fino alla parziale conclusione, aveva percorso il cuore di Auguste, nell’istante in cui aveva allungato la mano dinnanzi a sé, sospingendo per l’ultima volta l’uscio appena accostato che riparava da sguardi indiscreti l’interno della dimora di Lucien, ingrato sepolcro aperto al pubblico.

Si morse nervosamente il labbro, avvertendo per un poco il sapore aspro ed acuto del proprio sangue.

 

Eppure, non vi è sangue che tenga, quando nelle proprie vene non scorre altro che veleno e rancore; non vi è sofferenza utile a espiare la colpa, alleviando la consapevolezza della propria bestialità.

Non vi è rimpianto nel cuore di chi ha consacrato la propria anima alla più cupa dannazione, spogliandosi di ogni residuo d’umanità e gettando in pasto ai cani la propria coscienza nell’attimo stesso in cui ha stretto l’arma in pugno con gli occhi iniettati di una follia che, indefessa, segue il proprio tragico corso senza conoscere vincoli né rimpianti.

Non può essere ricettacolo di un amore assoluto e libero da condizionamenti dettati dall’odio, l’animo di colui che maledice l’uccisore, per poi ripulire il sangue versato con altrettanto sangue.

E questo non cancellerà quel che è stato, non mi salverà dall’abisso trasudante fiele nel quale sto annegando, non mi dispenserà dal disprezzo e dall’odio che si deve all’assassino.

Ad Auguste de la Garde è stato risparmiato il paradossale sollievo che gli avrebbe arrecato piangere le lacrime del giusto dinnanzi alla salma della persona che porterà con sé nella tomba l’ultimo residuo d’umanità del suo amante, insieme a quell’irrazionale, dolce sentimento spezzato da un colpo di pugnale alla gola e corroso dal germe della follia.

Non sono l’angelo vendicatore, non sono l’eroe che vendica l’amato ucciso: sono la belva ferita che si pasce della distruzione dei propri stessi assassini; e non sarei degno neppure di pronunciare il nome di Lucien, se quell’atavica ipocrisia che regola il mio atteggiarmi fra altrettante maschere di circostanza non mi riempisse la bocca.

 

Auguste si osservò tutt’intorno, smarrito: lo sguardo assente non indugiò più di qualche breve istante sui volti che incrociava, non s’impresse abbastanza a lungo da identificare le ombre che fluttuavano dinnanzi a lui. Non gli importava.

In silenzio, contemplò la stanza per l’ultima volta; l’androne immerso nel buio, così ampio, ai suoi occhi, da infondergli un fatale senso d’instabilità. Seguì il triste tremolio della fiammella in cima al cero che ardeva nella penombra, dinnanzi alla bara aperta. Ma nessuna, nessuna delle sensazioni che l’avevano pervaso soltanto una sera prima, nel momento in cui aveva rimesso piede in quella casa, attraversava in quel momento la sua mente ormai svuotata, immobile, scevra da ogni implicazione; soltanto un brivido di freddo che gli attanagliava il petto in una morsa gelida e gli s’incuneava nelle ossa, diffondendosi nel resto del corpo in un fremito d’orrore che lo scuoteva fino alle estremità.

 

È così. Non vi è rimorso, non vi è rimpianto, non vi è in me la disperazione che mi spingerebbe a gettarmi ai piedi della cassa e darmi la morte con lo stesso pugnale attraverso cui ho creduto di poter se non altro placare la mia sterile, deleteria brama di vendetta. E questo, se possibile, è il tormento peggiore che possa patire.

 

L’amore per Lucien non ha bilanciato l’odio verso coloro che ti hanno privato di ciò che amavi più di ogni altra cosa al mondo.

Non è un’equazione complessa, Auguste: lo slancio che ti porta ad impugnare le insegne dell’odio, semplicemente, agisce su di te con maggior intensità rispetto a tutto ciò che dovrebbe condurre le tue azioni ad un fine positivo. Desolatamente, è tutto qui, e prima ne prenderai coscienza, prima imparerai a convivere con ciò che sei diventato. O che sei sempre stato.

 

Auguste distolse bruscamente lo sguardo dalla fiammella che gli ardeva in fondo alle iridi e serrò le palpebre con vigore, impedendo al leggero madore impigliato fra le ciglia sottili di tramutarsi in una fragile lacrima sugli occhi che bruciavano.

E ciò che egli maggiormente avvertiva come un angosciante paradosso non era il dolore inafferrabile che gli ribolliva nel petto sotto una cappa d’indifferenza, smorzato dalla furia degli eventi ed occultato sotto il cono d’ombra del proprio straniamento, quanto il rimescolio di sensazioni ovattate che rifiutava di essere catalogato con semplicità sotto l’appellativo di “sentimento” o “sensazione”. Era di più: era una prospettiva, una patina che velava la realtà dinnanzi ai suoi occhi, un modo alienante di esistere.

Auguste deglutì a fatica, avvertendo la familiare consistenza di una stilla di pianto scorrere impercettibile lungo la guancia, granello di sabbia innocuo solo in apparenza e prossimo a divenire valanga. E, facendo appello al proprio coraggio, insinuò lo sguardo oltre il lungo cilindro di candida cera che si consumava con molle ed ineluttabile intensità, simile al lento stillicidio che scavava voragini di palpitante angoscia sul suo cuore, e si costrinse a proiettare la propria visuale sulla cassa lignea che ospitava ed avrebbe racchiuso per l’eternità il corpo senza vita di Lucien.

Arriveranno presto. Vengono, chiudono la bara, e poi

Auguste trasalì, il cuore scalfito in superficie dalle parole che percepiva confuse intorno a sé.

 

Nell’indifferenza. Tutto si consumerà nell’indifferenza, nell’ozioso, consolatorio distacco che lentamente sta trascinando anche me, seppure recalcitrante a riconoscerlo appieno.

È davvero così riduttivamente semplice? È la mia stoltezza a non permettermi di accettare serenamente che, non appena tutto sarà compiuto, ogni brandello che resta della mia coscienza non sarà che fumo negli occhi, ancora per un po’, prima di dissolversi nel progredire dei giorni? È… è normale. Tutto assurdamente, tragicamente “normale”. È forse così? Non vi è nient’altro.

La mia stella polare smette di brillare, cessa d’indicare la via, e il marinaio prosegue nel suo viaggio incurante di ciò, nell’ingenua consapevolezza a priori che nulla sia mutato nel cielo sopra di sé.

 

Deglutendo a fatica, Auguste calò lo sguardo su Lucien. Il volto candido, sfiorato appena dalla danza inquietante del pallido lume, gli apparve rischiarato da uno statuario splendore nel chiaroscuro di luminescenze ed ombre fuggevoli. Carezzò con il proprio sguardo le labbra delicate soffuse di un tenue barlume rosato, le dita morbidamente intrecciate sul petto, il bavero rialzato che, sorretto dalla voluminosa cravatta, celava con discrezione la ferita mortale che gli aveva perforato la gola.

 

Sei bello. Sei tanto bello che il pensiero di vederti deporre sotto la nuda terra da braccia sconosciute, protetto da un guscio gelido, e di non vederti mai più, potrebbe rendermi preda di una furia cieca e distruttrice, di una follia che mi spingerebbe a gettarmi su coloro che fra qualche istante ti strapperanno definitivamente anche alla mia vista.

I miei occhi si cullano e s’ingannano in questi ultimi istanti, ed io m’illudo di poter ininterrottamente accarezzare con le mie facoltà visive l’armonia del tuo viso d’avorio, di confondere in eterno realtà e sogno perdendomi nella curvatura impalpabile delle tue ciglia, nel velluto dei tuoi capelli corvini, nella tua immagine impressa dinnanzi a me, e mi sforzo d’ignorare che, tempo qualche istante, sarò privato anche della puerile, effimera, irragionevole illusione.

 

Il suo estatico torpore fu dissolto dal muto palesarsi dinnanzi a sé di due figure che lentamente si accostarono al suo fianco, di fronte al feretro scoperto: Monsieur e Madame Mirand, i genitori di Lucien.

 

E così, il momento è giunto. Il momento in cui… devo salutarti, Lou.

 

Auguste sobbalzò impercettibilmente. Scorse Emmanuel Mirand, il volto sciupato atteggiato in un luttuoso contegno, abbandonare il braccio della moglie e muoversi verso di lui. Un lieve sfioramento sul gomito gli ricordò che il suo compito era concluso. Chinò il capo, mentre il cuore gli tormentava furiosamente il petto.

Emmanuel accennò al portone d’ingresso con un vago gesto del capo, ed Auguste annuì in una lieve scrollata di spalle, il volto pallido e smarrito, intercettando per un istante lo sguardo di Rose Mirand aleggiare alle spalle del marito con fare inquisitore, carico di un risentito disappunto, per poi addolcirsi con fare sottilmente complice nel posarsi su di lui.

 

Forse, posso ancora contare su un alleato.

La signora Mirand potrebbe rivelarsi l’unica persona in grado di tenere in scacco gli impulsi irragionevoli di suo marito ed alleviare gli effetti deleteri del dolore di un padre che non ha mai accettato le scelte di un figlio rivoluzionario fino alla morte. Ed ora che Lucien non c’è più, Rose è una donna infelice: amava suo figlio e desiderava fosse libero; ha anteposto la felicità di Lucien persino nel momento in cui vivere in accordo con la libertà del cuore ha significato per lui accogliere sulle proprie spalle il fardello del pericolo e di una posizione arrischiata. Rose è simile a Lou: conosceva bene suo figlio, certo sa degli accordi fra me ed Emmanuel e ha compreso tutto.

Ma che senso ha, ora?

 

Auguste attese una manciata di secondi, lo sguardo che schizzava nervoso dal portone semichiuso al volto impenetrabile della signora Mirand. Imboccò furtivamente l’uscita diretta sul viottolo che costeggiava l’abitazione.

- Che notizie mi porti, Auguste?

Il giovane sollevò lo sguardo privo d’espressione; senza indugio, le dita tremanti, cercò all’interno del mantello ed estrasse il pugnale.

- È vostro, Monsieur Mirand – mormorò con voce asciutta, controllando il fremito d’angoscia che gli stringeva la gola.

Il padre di Lucien spalancò gli occhi. Auguste non riuscì a cogliere nel suo sguardo nessuna sfumatura condiscendente nei suoi riguardi: nessun guizzo d’umanità per il pazzo che, nel momento in cui vi era in gioco la vita, aveva trascinato Lucien con sé nel baratro, fino al misero epilogo che, per un caso sciagurato, era toccato soltanto ad uno di loro.

 

Eppure, una volta mi voleva bene; era gentile con lo strano ragazzo che stravedeva Lucien.

Ma io non merito nulla di tutto ciò; non merito nessuna forma d’indulgenza. Perché si tratterebbe in ogni caso di una bugia.

 

- Cosa diavolo significa? – Emmanuel Mirand soppesò fra le mani l’arma che gli era stata restituita – Parla chiaro con me, Auguste, perché non ho alcuna intenzione di tollerare ancora a lungo le tue commedie.

- Significa che ho fatto come voi mi avete detto – Auguste lo fronteggiò con espressione dura – E, come finalmente avrete inteso, non è servito a nulla. A nulla, perché vendicarvi in contemporanea di chi fisicamente ha vibrato il colpo e di colui che, inconsapevolmente, ha condotto Lucien alla morte, non vi restituirà vostro figlio.

- Tu…?

Auguste serrò le palpebre: le sue parole sferzanti, della cui intrinseca indiscrezione si era avveduto soltanto un istante dopo averle pronunciate, avrebbero con ogni probabilità sortito in Emmanuel, di lì a poco, una reazione violenta. Era pronto ad incassare il colpo senza replicare.

- Proprio io – proseguì – Sono ciò che voi avete prodotto quando mi avete messo in mano un coltello. Ma non l’ho fatto per voi e neppure per Lucien. Lucien non mi avrebbe mai… Persuaso ad uccidere. Posso però dire… Che l’ho fatto per me stesso e nulla di più. Nessuno di noi lo desiderava veramente, ma io non ho considerato nulla di tutto ciò.

Auguste tacque, sconcertato dal gelido impatto delle parole che fluivano dalle sue stesse labbra, stille di veleno.

 

E non vi è nulla su cui vale la pena ragionare, Emmanuel, poiché significherebbe assumere con leggerezza su di sé la licenza d’impazzire dietro assurdi ripiegamenti, girare in tondo senza approdare a nulla.

Guardami: ciò che vedi dinnanzi a te, padre, non è nient’altro che ciò che tu stesso hai plasmato con le tue mani, ciò che deliberatamente hai voluto fare di me. Hai creato il mostro, Emmanuel, e la tua folle creatura è sfuggita alla tua supervisione. Volevi usarmi come un’arma priva di anima, e la tua sfortuna, contro ogni umana aspettativa, è che ce l’hai fatta per davvero. Hai voluto il sicario, l’assassino, il vendicatore: cosa puoi fare, ora, se non ingegnarti a convivere pacificamente con il rancore ed il debito crudele che ci lega a doppio filo?

 

Emmanuel lo misurò lentamente fino alla punta dei capelli, per poi proiettare il proprio sguardo oltre la sua persona, quasi fosse divenuto evanescente. Auguste arretrò di un passo.

- Dunque, l’hai fatto veramente – mormorò Emmanuel, ed Auguste fu certo di scorgere negli occhi del padre di Lucien il più cocente, spassionato disprezzo, disprezzo verso tutto ciò che era: cospiratore, assassino, vigliacco.

- Volete forse denunciarmi?

- Se avessi voluto farlo, credimi, avrei agito tempo addietro. Sarebbe stato meglio se mi fossi liberato di te prima che attirassi la disgrazia su mio figlio.

Auguste strinse le palpebre in un impulso di dolore e di collera impotente. Va’ all’inferno, avrebbe voluto gridargli, va’ all’inferno e restaci, maledetto bastardo! Perché non sei meno responsabile di me della morte di Lucien. Perché mi avresti estromesso dalla sua vita, fosse dipeso da te, con i suoi sogni, per quanto ingannevole e deleterio fosse ciò che io incarnavo per lui, e ti saresti battuto per impedire a tuo figlio di vivere come desiderava, in nome delle vostre fottute paure.

- Eppure, non farò nulla di tutto ciò. Non l’ho fatto prima, non lo farò in futuro – Emmanuel gli si fece più vicino – Non posso impedirti di entrare in chiesa e partecipare al suo funerale, ma, dopo stasera, desidero che tu sparisca dalla nostra esistenza e non ti ripresenti più. Mia moglie insiste nel voler scoprire cosa veramente sia accaduto a nostro figlio, capisci, ma tu terrai la bocca chiusa, e con questo spero vivamente che non mi faccia pentire di aver desistito dal proposito di gettarti a marcire in prigione. È tutto.

Auguste annuì con cieca rassegnazione, scosso dal repentino, violento impulso di allontanarsi da quella strada, da quel luogo, da quella gente: era tutto ciò che gli restava di lui, insieme ai ricordi che ogni istante di più gli facevano pesare il mero fatto di essere ancora vivo. Era la gabbia di lacrime che l’avrebbe inseguito dovunque egli si fosse recato.

- Ora vattene, Auguste de la Garde. Sparisci.

 

Sparisci.

 

Ed io me ne andrò, monsieur Mirand, come desiderate voi. Ma in me non svanirà il ricordo straziante, né in voi la consapevolezza.

 

Senza aggiungere altro, Auguste imboccò la stretta via che l’avrebbe condotto fisicamente lontano dal suo incubo, il volto allucinato, i pensieri impigliati in qualche remoto angolo della sua mente svuotata e confusa. La strada, umida e fangosa per le ultime tracce di pioggia, irriducibili dinnanzi al calore del sole, scorreva sotto i suoi passi quasi senza che egli ne avvertisse l’impatto.

Il rimpianto, unico ed infido compagno, solitario residuo del suo amore disperato, avrebbe circoscritto le trame della sua esistenza, scolpito nella sua mente con la forza erosiva dello scalpello che intacca la resistenza del marmo, come il nome di Lucien sulla candida pietra sepolcrale.

Auguste socchiuse mestamente gli occhi, fessure gravide di languore che luccicavano sul volto livido, per poi portare tristemente i propri passi oltre l’angolo della via.

Era finita. Tutto era compiuto, eppure la consapevolezza non aveva arrecato in lui un solo spiraglio di sollievo.

 

Un impatto violento lo fece trasalire bruscamente, e la repentina intensità dell’urto gli serpeggiò addosso, arrestando i suoi passi in un precario equilibrio, mentre la mano cercava tentoni una rientranza sulla parete cui potersi provvisoriamente appigliare per non incespicare sui suoi stessi passi e ritrovarsi con la faccia nella polvere. Auguste sospirò flebilmente, il respiro affannoso, portando distrattamente la mano a sfiorare il petto dolorante nel punto in cui quel qualcosa o qualcuno l’aveva urtato con forza. Fissò lo sguardo dinnanzi a sé.

Che diavolo

- Perché non guardi dove vai? – proruppe collericamente l’incauta figura che gli era piombata addosso, un istante dopo aver ripreso stabilità sulle proprie gambe facendo leva sul suo soprabito.

Sollevò lo sguardo. La massa disordinata di setosi capelli biondo scuro celava parzialmente alla vista un viso minuto dai tratti gradevolmente irregolari. I grandi occhi affilati dalle iridi di cobalto luccicavano orgogliosi, incorniciati da lunghe ciglia mirabilmente scure.

Per un istante, i due si squadrarono in volto con fare interrogativo.

- … Auguste?! – sussultò il più giovane.

L’interpellato inarcò impercettibilmente il sopracciglio.

 

In persona. E… Potrei dire di te le stesse identiche cose, Fernand.

 

Tacquero. Il velo opaco del silenzio era calato come un gelido sipario sul volto di Fernand, adombrato dalle tracce inconfondibili di una notte insonne, la fronte corrugata che tradiva l’ineffabile processo logico in atto nella mente: restare fermo e ancorato in quel misero riquadro lastricato all’incrocio fra le due vie deserte ed affrontare lucidamente lo spettro delle proprie incertezze, oppure allontanarsi con fare sdegnoso?

In silenzio, Auguste fissò il proprio sguardo alle spalle del ragazzo, verso un breve scorcio di cielo mattutino impregnato di uno slavato chiarore e inquadrato fra le sagome delle abitazioni svettanti. Nubi d’organza sottile filtravano i fievoli raggi dorati che si frantumavano dinnanzi ai suoi occhi in un pulviscolo luccicante, producendo un curioso contrasto con la figura in ombra di Fernand, muta ed indecifrabile di fronte a lui. L’espressione altera del bel volto era stemperata dalla venatura di lieve estenuazione che gli circondava le orbite e dal tremore che gli impacciava le labbra.

- Auguste, io…

Il giovane mosse qualche passo confuso, le sopracciglia aggrottate in una ragnatela di fulminei, convulsi pensieri, tanto che Auguste fu sfiorato per un istante dall’idea che egli non desiderasse altro se non allontanarsi al più presto dall’uomo che soltanto una sera prima aveva approfittato di un semplice pretesto per rivoltarglisi contro come un gatto selvatico sorpreso a pochi palmi dal suo potenziale assalitore.

Non ebbe il tempo necessario a addurre improvvisate scusanti, che la mano di Auguste, tempestiva, gli attanagliò il polso sottile in una presa che di certo non sortì in lui l’effetto rassicurante che avrebbe desiderato infondervi.

Un raggio improvviso riversò uno spiraglio di luce oltre il largo cornicione aggettante di un palazzo, facendosi largo oltre l’intrico di nubi olivastre che percorrevano l’aria satura di vapore ed illuminando i capelli arruffati di Fernand di una tenue aureola in controluce.

Auguste non avvertì la brezza pungente fustigargli il viso accaldato e dissipare il gelido madore che gli aveva inumidito la fronte durante la patetica resa dei conti con Emmanuel Mirand. Percepì soltanto il battito sostenuto di Fernand infuriare nelle vene dei polsi, la pelle fredda sotto le sue dita. Corrugò la fronte. L’avrebbe abbracciato, forse, l’avrebbe pregato di dimenticare quanto era accaduto, se questo fosse stato utile a farlo stare meglio e se soltanto egli stesso non difettasse a tal punto nella volontà di porre rimedio ai propri errori.

- Sei freddo – mormorò assorto, sciogliendolo dolcemente dalla sua morsa.

Lo vide buttare distrattamente lo sguardo sull’impronta bianca e rossa che, per un istante, gli spiccò netta sul polso, le labbra percorse da un fugace sorriso, prima che le sopracciglia scure gli si contraessero in una piega angosciata. Il suo volto s’irrigidì nuovamente in un’espressione tesa.

Fernand sembrava smarrito, turbato, la mente che arrancava nel sintetizzare repentinamente nuove informazioni, fin quando non realizzò di poter accantonare, per il momento, il timore assillante che Auguste avesse davvero posto a repentaglio la propria vita.

- Stai bene, Auguste? – esordì, la voce malferma.

Auguste trasalì. Il ragazzo gli artigliò le spalle, cingendolo in una stretta spasmodica colma d’inquietudine e malcelato sollievo.

- Fernand… – le braccia di Auguste ricaddero rigide lungo i fianchi.

Serrò le palpebre, un impulso doloroso e indecifrabile che no, non voleva saperne di tramutarsi in sollievo.

Fernand non lo odiava per quel che gli aveva fatto: non aveva fuggito irosamente il suo sguardo, non gli aveva rinfacciato l’offesa. Fernand aveva temuto in silenzio per lui, quando Emilie gli si era precipitata in casa mettendolo convulsamente al corrente di com’era scomparso nella notte in compagnia di due sconosciuti ai quali lo univano ignote trame, e una pistola stretta nel pugno – lui! Auguste, che feriva piuttosto con le parole e con la dura, spiazzante razionalità dei gelidi occhi grigi; il cui solo pensiero della fredda impugnatura dell’arma stretta fra le dita era in grado di farlo trasalire, di fargli franare la terra sotto i piedi, di trasmettergli quell’alienante sensazione di capogiro.

L’aveva percosso e umiliato, eppure in quel momento a Fernand pareva non importare altro che l’esserselo ritrovato integro dinnanzi agli occhi.

 

Cosa diavolo aveva fatto, quella notte? Quale spirale autodistruttiva lo induceva a fuggire qualunque conforto?

 

Non fu un abbraccio affettuoso, circonfuso di calore. Le mani di Fernand erano rigide, strenuamente aggrappate alle sue spalle, il corpo tremante, i nervi a fior di pelle.

Il volto di Auguste si rilassò in un sorriso stanco, le dita corsero a sfiorare istintivamente lo zigomo di Fernand percorso da una leggera escoriazione nel punto in cui l’aveva colpito.

Fernand

Auguste serrò le palpebre, le membra pervase da un fervido languore che la mente si sforzava d’incanalare in ogni fibra del suo corpo, alla ricerca di un fragile appiglio da contrapporre alla disperazione; ogni sua percezione era concentrata su quei soffici capelli irrimediabilmente scompigliati che gli accarezzavano il collo.

- Fernand, io… Mi dispiace – sussurrò.

- Ti dispiace…?

La reazione lucida di Fernand esplose fulminea. Per un istante, Auguste si ritrovò costretto, suo malgrado, ad indietreggiare di qualche passo, preso alla sprovvista dal violento strattone per mezzo del quale il giovane l’aveva allontanato da sé. Immobile, fissò il volto di Fernand contorto in un’espressione accigliata, le guance chiazzate di rosso, i frementi occhi azzurri che bruciavano su di lui come spilli arroventati. La mano chiusa a pugno vibrava stretta contro il petto.

 

Vuoi colpirmi di nuovo, Fernand? Fallo ancora, se è ciò che desideri, ma poi dimentica. Per favore.

 

Il ragazzo dischiuse appena le labbra per dire qualcosa, i tratti del viso percorsi da una profonda agitazione, le narici dilatate come un giovane levriero pronto a lanciarsi sulla preda. Poi, inaspettatamente, il risentimento e l’apprensione sfumarono sul suo volto sotto il tepore rasserenante di un crescente sollievo.

- Sei proprio stronzo – gli soffiò.

Auguste sollevò gli occhi al cielo, l’angolo della bocca incurvato in un mezzo sorriso sbilenco.

- Preferirei passare direttamente alle novità, se non ti dispiace.

- Le novità? – Fernand gli scoccò uno sguardo eloquente – Queste, dovresti riferirmele tu. Puoi spiegarmi almeno che cosa diavolo ti sta passando per la testa?

Come da copione.

Auguste deglutì nervosamente. Distolse lo sguardo, cercando di guadagnare tempo alla ricerca di una risposta che giustificasse in maniera quanto più esauriente le sue mosse. Sospirò, contrito: non voleva parlarne, non voleva ritrovarsi con le spalle al muro, com’era avvenuto nell’alienante, patetico confronto che aveva visto Raphäel e Dorian coalizzati e decisi a strappargli di bocca rivelazioni dalla portata insidiosa di un’arma a doppio taglio. Dorian, già: quel piccolo serpente l’aveva messo alle strette nel momento in cui era più vulnerabile, e solo per miracolo era riuscito a non tradirsi. Dorian si era limitato a rivelare ai propri occhi l’altro volto di Auguste: un angosciante labirinto i cui meandri vorticosi da altro non erano costituiti se non da miriadi di cassetti che al loro interno celavano ad occhiate indagatrici nuove maschere, bugie, mezze rivelazioni, segreti rivestiti da barriere di carta, un altro e un altro ancora.

Non Fernand, ora, non di nuovo, essere sorpreso in quello stato, oltre la coltre nebbiosa che occultava i suoi passi, il suo mal architettato teatrino ed i suoi schermi fuorvianti. Non in quel modo e non in quel momento.

- Cos’è successo stanotte, Auguste? – incalzò il più giovane.

I denti candidi scintillarono fra le labbra tirate di Auguste, dischiuse in un sorriso forzato e sofferto. Allungò una mano sulla spalla di Fernand in una presa falsamente rassicurante. Il ragazzo trasalì al suo tocco come punto da uno strale arroventato.

 

Resisti, Auguste: resisti ora, e potrai farlo in qualunque momento.

 

- È tutto a posto ora, Fernand – tagliò corto – Ho sistemato tutto: non vi è nulla da temere; non nell’immediato, se non altro.

- Non tergiversare.

- Se davvero vuoi i particolari – sul volto teso di Auguste comparve un breve luccichio di spazientita indignazione – puoi sempre interpellare il tuo amico Raphäel: sono certo che saprà ragguagliarti al meglio.

- Non è mio amico – si affrettò a ribattere Fernand con voce gelida.

- Eppure avete tanti di quei punti in comune che una vostra eventuale collaborazione mi fa quasi paura – lo sguardo di Auguste assunse un’impronta duramente sarcastica – Volete agire, volete la rivoluzione, volete il sangue del tiranno e dei suoi cani da guardia: volete tutto e lo volete subito. È tutto per voi. Ed io ho persino seguito i tuoi accalorati suggerimenti - pensavo proprio a te, Ferdinand, alla linea di lotta da te a lungo propugnata, quando ho disposto la fornitura di fucili e munizioni commissionando il furto. Ho accettato, perché sono una fottuta testa calda.

Ferdinand: l’aveva volutamente apostrofato con il suo nome di battesimo, quasi a voler sancire la gravità delle proprie affermazioni.

Il ragazzo sbatté le palpebre, trafitto dall’impeto delle parole di Auguste, ma la sua attenzione fu subito riscossa da una risata tagliente.

- Sarebbe stato divertente, Fernand, se tutto fosse andato a buon fine, non credi anche tu? Rivoltare contro il duca le sue stesse armi, quelle che in origine erano destinate a lui!

- Ed ora? – Fernand lo fissò in volto, disorientato.

- Nulla – Auguste si ricompose – Non se n’è fatto nulla.

Lentamente, Auguste portò la mano a sollevare delicatamente il volto di Fernand fino a dirigere il suo sguardo su di sé, le dita che indugiavano distratte in un impercettibile sfioramento lungo il contorno fragile della mandibola. La sua espressione si addolcì.

- Non sono arrabbiato con te, Fernand – gli sussurrò gentilmente, modellando il proprio viso in un’espressione che potesse apparire vagamente serena.

Fernand sembrava confuso, stordito, la mente annebbiata dinnanzi all’andirivieni incessante di caotiche sensazioni che gli era stato riversato addosso con fare convulso, fumo negli occhi.

- Auguste… – il giovane annuì debolmente, l’ombra di un sorriso vagamente accennata sul viso delicato.

Auguste lo fissò senza dire nulla, assorto, il volto privo d’espressione, un grumo di tristezza ancorato al petto che si scioglieva gradualmente, allentando la sua morsa man mano che lo sguardo di Fernand indugiava benevolo su di lui, privo di asperità, per la prima volta, di sfumature ostili, indecifrabili o diffidenti. Lo vide allungare cautamente una mano verso di lui.

- Stai piangendo – mormorò Fernand, sfiorandogli il viso nel punto in cui una lacrima rovente gli rigava la pelle.

Auguste scosse la testa, come a volersi liberare in un fulmineo battito di ciglia di quell’effetto improvviso.

- Dici? – sottrasse di scatto il proprio volto al tocco di Fernand.

Serrò dolorosamente le mascelle, prima di chinare il capo ed abbattersi sconfitto sul ragazzo.

Scosso da sussulti, le braccia allacciate intorno a Fernand, la fronte premuta contro la consistenza ruvida della giacca. Il viso sprofondato nell’incavo della spalla, perché no, non gli avrebbe offerto uno spettacolo tanto patetico.

Fissò distratto l’alone biancastro che le sue lacrime avevano lasciato sulla stoffa scura, insieme alla cipria con la quale aveva tentato, con pessimi risultati, di occultare il livido bluastro sul proprio volto.

Un damerino dal viso ben rasato e incipriato che con fredda noncuranza si reca al funerale della persona che egli stesso ha contribuito a portare alla tomba, il volto duro ed impassibile dinnanzi a chi, non del tutto a torto, lo addita quale vero responsabile: il ritratto dell’ipocrisia.

Scrutò interrogativo il viso di Fernand oltre il velo caliginoso che gli ottenebrava la vista, i lineamenti affilati che si confondevano dinnanzi a lui in un caleidoscopio di lacrime e mutevoli luminescenze. L’ovale pallido gli apparve come lo schizzo appena abbozzato di un ritrattista frettoloso che con rapide pennellate ne aveva descritto i contorni. E Fernand sembrava tanto piccolo ed esile, stretto contro il suo corpo, benché egli, Auguste, non lo sovrastasse eccessivamente.

Era crollato per la seconda volta, la seconda dacché Lucien era morto, una muta resa fra le braccia di una persona nella quale aveva intuito un flebile anelito di comprensione. Com’era avvenuto con Ambrosie, quell’orribile notte, sulla soglia della stanza in cui l’unica persona che egli amava era stata uccisa. Ambrosie, fiera e labirintica razionalità che si sforzava di celare al proprio interno gli impulsi più irrazionali della passionalità; e Fernand, orgoglio disperato che si dibatteva fra passioni imperscrutabili e discordanti, opponendo un fervore dirompente, quasi sconsiderato, al gelo che irradiava dentro di lui un cuore ferito.

Auguste allentò la propria stretta, costringendosi a non fuggire lo sguardo. Tirò su col naso.

- Il padre di Lucien ha acconsentito a malapena che io assista al funerale, nonostante detesti la mia presenza. Non poteva impedirmelo – sibilò con voce atona – Implicitamente, mi ritiene responsabile della sua morte. Hanno compreso, Fernand. Hanno compreso tutti; ed io sono l’unico che si sforza… Di non capire.

Tacque, prima che le sue stesse parole lo spingessero a barcamenarsi in direzioni in cui non desiderava addentrarsi. Per quanto ancora sarebbe rimasto un segreto, il fatto che lui e Lucien erano amanti? Forse non era ancora il momento. E se Emmanuel Mirand avesse già subodorato qualcosa, con ogni probabilità, non si sarebbe limitato a scacciarlo. O forse, a suo tempo poteva aver quanto meno sospettato, preferendo poi tacere fino alla fine nel timore che tutto ciò potesse gettare discredito su suo figlio, sedotto dal demonio che l’aveva lasciato affondare con sé nell’abisso.

- Che cosa, Auguste? – Fernand parve alterarsi – Chi può nutrire un’idea simile?

Auguste scosse il capo, strofinandosi gli occhi congestionati col dorso della mano.

- Non servirà parlare, stavolta. È tutto finito.

Il giovane lo stringeva ancora a sé, le dita che scorrevano fra i capelli arruffati. Nella sottile penombra che il bavero rialzato proiettava sul suo volto, Auguste intravide lo sguardo di Fernand luccicare fremente, la scura gradazione cobalto dell’iride vibrare imperiosa sul volto arrossato.

- Non è finita. Abbiamo bisogno di te.

Auguste sgranò gli occhi per un istante, interdetto: era l’ultima affermazione che avrebbe giurato potesse fuoriuscire dalla bocca di Fernand.

- Ricordi… La sera dell’ultimo dell’anno – riprese il ragazzo con voce pacata, perso nei propri pensieri, mutando drasticamente discorso non appena ebbe compreso che non sarebbe riuscito a cavare da Auguste una parola di più – Ancora non saprei dire, quella sera, chi fosse più ubriaco fra me e Dorian. Hai pensato tu a trascinarci fuori di lì, quando ormai non ero nemmeno in grado di reggermi sulle mie gambe. È logico pensare che tu fossi l’unico sobrio, là dentro?

Auguste sorrise sbigottito: Fernand aveva troncato improvvisamente la discussione e stava certamente cercando di confonderlo nel momento in cui proseguire su quella scia avrebbe comportato sempre più il rischio d’inoltrarsi per sentieri pericolosi.

 

Dove ha deciso di colpire, stavolta? Dove vuole arrivare?

Che voglia soltanto… Distrarmi, almeno per qualche istante, con ricordi inoffensivi?

 

- Ricordo, Fernand – la mano di Auguste scivolò distrattamente su una ciocca ondulata dell’amico.

Poi, un groppo improvviso gli strinse la gola, spezzandogli il respiro. Arrestò il flusso dei propri pensieri.

 

Possibile che…

 

- Io… – biascicò il ragazzo – Non credevo…

Auguste riprese il controllo. Beffardo, considerò in tutta tranquillità di poter accarezzare con mano, in un ineffabile gioco di sguardi, la confusione e il turbamento che affioravano sul volto di Fernand.

Pensò a quanto sarebbe stato bello, in quel momento, relegare le proprie azioni in una sorta di paradosso onirico, una prospettiva in cui, eccezionalmente, un gesto avventato da parte sua non avrebbe compromesso i precari equilibri fra lui e Fernand, ripercuotendosi negativamente su eventi futuri.

 

Sarebbe tanto, troppo semplice…

 

- Hai capito, Fernand – gli prese dolcemente il mento fra due dita – Se è quel che intendo. Un ricordo sfumato di labbra sconosciute. Questo – sussurrò.

Auguste sentì il tremore delle sue membra, le palpebre spalancate per la sorpresa, le gote che avvampavano. Percepì il respiro fresco di Fernand accarezzare dolcemente le proprie labbra fino a morire in un soffuso sfioramento.

   
 
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