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Autore: KittyPryde    19/11/2008    2 recensioni
« Sarò la sua spada, i suoi occhi durante la battaglia, le sue mani nell’affondo con cui colpirà il nemico» Da sola, la mano scattò alla fronte. « Sarò sempre ai suoi ordini colonnello, è questa la mia strada. »
[Nagisa Chiba, Kyoshiro Tohdoh]
Genere: Romantico, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lost At Uno
ovvero il pagamento per un gioco d'azzardo estremamente elementare: il vincitore assoluito in una partita di UNO ha il diritto di estorcere al perdente una produzione fanwork di cui stabilisce il soggetto e il tema e che il perdente è tenuto a portare a termine in un lasso di tempo che va dal minuto successivo alla fine dei suoi giorni

Personaggio richiesto: Nagisa Chiba
Tema richiesto: taglio dei capelli, divisa, quattordici volte.

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Accettai con umiltà l’affondo geniale e impietoso del suo shinai, affrontando la minaccia della lama di legno impugnata dal sensei con la rispettosa consapevolezza di essere soltanto un’allieva, come tanti altri nel dōjō; eppure, nonostante la mia schiena rivolta alle nude assi del pavimento decretasse la mia plateale e imbarazzante sconfitta, percepii chiaramente e per la prima volta quel sentimento d’estasi e riverenza che avrebbe condizionato la mia vita da allora in poi, l’euforia di chi, nonostante il fallimento, non disconosce il proprio valore, la determinazione di chi non avrebbe desistito in seguito ad un insuccesso.
« Chiba. » Tohdoh-sensei spostò la spada con un gesto solenne e a lama si mosse perfettamente tagliando l’aria « se questa fosse stata un vera katana, ora saresti morta. »
Quel giorno mi alzai educatamente, incassando la vergogna e l’entusiasmo di quella prima sconfitta senza una parola, ma continuando a domandarmi come mai una ragazza di diciotto anni appena avrebbe dovuto preoccuparsi di scontrarsi con la il pericolo di una vera spada, anziché con i bokken che eravamo soliti usare al dōjō durante gli allenamenti. Soltanto diversi anni più tardi fui in grado di comprendere il significato nascosto dietro alle parole con le quali Tohdoh-sensei ci istruiva, considerando ognuno dei suoi allievi come uno dei suoi soldati; che ci stesse insegnando l’arte della spada con armi intagliate nel legno o lame affilate non importava, per onorare la sacra arte dei samurai dovevamo imparare a temere la morte nello stesso modo.
Eppure, nonostante i dubbi e la vergogna, quella prima sconfitta fu la motivazione che cercavo per fare del dōjō la mia seconda casa e impegnarmi sempre di più negli allenamenti, migliorando i miei affondi, perfezionando le tecniche con cui parare i colpi dell’avversario, abituandomi lentamente alla fine arte della strategia, fondamentale in una grande battaglia così come in un duello. Con il passare dei mesi correggevo i movimenti delle gambe potenziandone l’agilità e l’elasticità dei muscoli, brandivo il bokken contro gli alberi del giardino o le lenzuola stese da mia madre, sfidando gli allievi del dōjō uno dopo l’altro, ma senza mai arrivare a strappare una vittoria all’uomo che, sconfitta dopo sconfitta, colpo su colpo, era diventato per me l’unica voce da seguire, l’unico di cui studiare i movimenti eleganti, l’ingegno, l’astuzia e l’esperienza, accarezzando con sguardi indiscreti la forma delle gambe e delle braccia celate dalla stoffa dell’hakama e dall’armatura, osservandone l’espressione fiera e brillante, mentre mi gettava di nuovo a terra, con le guance schiacciate contro il freddo pavimento del dōjō.
La terza volta in cui Tohdoh-sensei riuscì a battermi rinunciai alla mia femminilità, orgogliosa come un samurai, coraggiosa davanti allo specchio, tagliai i miei lunghi capelli castani con le forbici rubate dalla cucina, ciocca dopo ciocca, finché della graziosa e risoluta adolescente che rendeva mia madre tanto fiera, non rimase che un pulcino spettinato, meno avvenente e femminile, ma molto più sicura di se.
Non si trattava né di ribellione né tantomeno del bisogno di attenzione che suggerivano le amiche di mie madre quando lei si lamentava con loro di ciò che sua figlia era diventata; i capelli lunghi sarebbero stati un intralcio per la vita che desideravo, dovevo dimostrare di avere rispetto di me, delle mie numerose sconfitte passate e di tutte le volte in cui la mia schiena avrebbe ancora sbattuto contro il pavimento impietoso del dōjō, dovevo dimostrare quanto forti e intimamente autentiche fossero le mie intenzioni.
Continuai a combattere e ad allenarmi con violenza, come se nella mia vita non fosse rimasto altro che la disciplina del kendō , il desiderio di sentirmi davvero un samurai, di continuare a seguire gli insegnamenti dell’uomo che era per me l’unica guida e l’unico esempio, l’unica persona ad avere idee che mi interessavano o ideali che condividevo, l’unica persona dalla quale avrei accettato di farmi battere.
Tohdoh non parlava quasi mai, nemmeno per rimproverarci o lodarci; soltanto raramente le pupille scintillanti del condottiero si alzavano sopra le nostre teste, cercando un punto malinconico oltre le mura del dōjō e parlava brevemente del Giappone come di una nazione che vedeva lentamente scivolare via dalle sue mani, senza che lui potesse fare nulla per arrestare quell’irrimediabile processo, ma eravamo soltanto io e pochi altri a leggere, nel suo tono di voce, quel senso di perdita, quella ferma, irrisolta paura che sembrava ancor più spaventosa ai nostri occhi perché reale e inesorabile.

Per molto tempo ancora continuai a insistere, con la voce profonda del sensei che mi ripeteva di temere sempre la morte, con il suo rimpianto silenzioso per il Giappone che conosceva e che si allontanava sempre di più; ostinata, sulla rapidità dei miei movimenti, sull’energica, marziale eleganza delle braccia e quando, per la settima volta, la mia nuca e i capelli corti del samurai toccarono le assi lisce del pavimento del dōjō, Tohdoh attese che mi fossi rialzata, immobile e muta di fronte a lui e alla mia ennesima sconfitta, poi fece sfrecciare la lama di legno verso di me, ma senza minaccia.
« Chiba. » Anche quella volta ero pronta ad accettare qualsiasi verdetto. « Segui sempre la tua strada. »
Indicò la spada a terra con uno scatto potente della sua ed io mi sentii autorizzata a qualsiasi follia.
Quel giorno ripensai alle parole che Tohdoh mi aveva rivolto in seguito al nostro primo combattimento e mi convinsi, presuntuosamente che già da allora mi considerasse come uno dei suoi uomini. Avevo vent’anni, pochi giorni dopo Tohdoh annunciò ai suoi allievi che avrebbe abbandonato il dōjō definitivamente per rientrare nelle fila dell’esercito e contrastare in prima persona la minaccia Britanna che si stava facendo di giorno in giorno più concreta; parlava con lo stesso tono fermo e polveroso di sempre e io decisi di spezzare il cuore di mia madre per seguire il mio, arruolandomi nell’esercito.
Il sensei non disse nulla né per incoraggiarmi né per complimentarsi.
« Sei sicura che sia davvero questa la tua strada? » Domandò sfidando il mio sguardo e io non avrei mai immaginato di poter essere così entusiasta nel rispondere.
« Assolutamente si, signore. »
« Continuerò ad allenarti. » Scattai sull’attenti; non desideravo altro che essere ancora sconfitta da lui e poter seguire le sue parole come ordini.
« Sarà un onore. » Tohdoh si voltò dandomi le spalle prima di concludere; la divisa aveva preso il posto dell’hakama, ma potevo ancora intuire la forma autorevole della sua schiena attraverso la tuta mimetica.
« D’ora in avanti, mi chiamerai colonnello. »
Non potevo negare di essere una donna, ma mi sentivo prima di tutto un soldato, non potevo rifiutare l’amore che provavo per lui, ma lui sarebbe stato prima di ogni altra cosa, il mio colonnello.
Per altre sette volte Tohdoh riuscì a sconfiggermi senza fatica, temprando il mio spirito, il mio orgoglio e la mia devozione durante i tre anni del mio addestramento, abituandomi alla lotta, alle battaglie che si combattono sul campo e alla guerra ormai imminente.

Ci volle un mese soltanto perché il Giappone si piegasse al dominio Britanno, ci vollero sangue, fatica e campi di battaglia bruciati, famiglie dilaniate dai lutti, vedove e orfani; un anno durante il quale seppi dimostrare la mia totale e cieca fedeltà al colonnello Tohdoh, la mia completa devozione, la fermezza dei miei obbiettivi, la forza di un samurai e la determinazione di voler vivere ancora in un Giappone libero. Ci vollero sudore e speranza per non chinare la testa dinanzi ai giganti di metallo che devastavano le strade e gli eserciti nipponici senza pietà.
La quattordicesima volta fu la vigilia della resa, il giorno successivo ogni disperato sforzo con cui ci eravamo opposti al dominio straniero, sarebbe risultato vano e non ci sarebbero stati altri miracoli a salvare il nostro paese. La guerra era finita e il crepuscolo ammiccava ironicamente dal cielo d’agosto; Tohdoh guardava il sole tramontare, assieme al cerchio rosso dipinto sulla bandiera che non avremmo più visto sventolare e parlò a voce alta.
«Io non mi arrenderò. »
Avrei voluto dirgli che anche io non mi volevo arrendere, che lo avrei seguito ovunque, ma sentivo di non aver più alcun diritto di considerarmi una prescelta e attesi con disperato silenzio il suo verdetto; sarei stata felice di morire sul campo di battaglia sotto il suo comando, i suoi ordini erano il mio verbo, non potevo nulla contro le sue parole.
« Tu cosa farai, Chiba? »
Senza esitare, decisa come quando a diciotto anni mi ero tagliata i capelli davanti allo specchio per sentirmi degna del cammino che mi accingevo a compiere; sentii chiaramente il rumore delle mie parole cadere sulla terra rossa del tramonto come cinque anni prima avevo sentito il tonfo sordo delle ciocche sul pavimento.
« Seguirò la mia strada, colonnello. » Tohdoh non ebbe bisogno di altre conferme.
« Non continuerò ad allenarti, sai già tutto ciò che ti potevo insegnare. » Dichiarò voltandosi verso di me per guardare i miei occhi che sarebbero stati più sinceri di qualsiasi parola. « Ma dimmi, qual’è la tua strada, Chiba? »
« Resistere. »
Ed era la forza del samurai quella con la quale alzai la testa e risposi allo sguardo del colonnello, quella che mi sentivo scorrere nelle vene mentre decidevo il mio futuro nell’ultimo tramonto del Giappone libero.
« Sarò la sua spada, i suoi occhi durante la battaglia, le sue mani nell’affondo con cui colpirà il nemico, metterò al suo servizio l’arte e la disciplina che da lei ho appreso in tutti questi anni e saprò usare ognuno dei suoi insegnamenti. » Da sola, la mano scattò alla fronte. « Sarò sempre ai suoi ordini colonnello, è questa la mia strada. »
Annuì, perché lui lo sapeva, sapeva fin dall’inizio quale sarebbe stata la mia scelta, da quando mi aveva puntato loshinai alla gola la prima volta; Tohdoh aveva istruito tutti noi che eravamo stati allievi del suo dōjō con le stesse tecniche e la stessa disciplina, ma soltanto alcuni avevano compreso appieno la profondità dei suoi insegnamenti.
« La seguiremo fino in fondo, Chiba. » Si voltò di nuovo verso il cielo crepuscolare, stringendo la katana nel pugno.
« Ormai, il nostro sole sta tramontando. »



Note: shinai: spada di bambù da combattimento utilizzata nel kendo, sensei: termine giapponese per maestro, insegnante, figura guida; dōjō : palestra tradizionale giapponese in cui si praticano le arti marziali; bokken: katana di legno utilizzata in allenamento; kendo: arte marziale giapponese, letteralmente ‘la via della spada’; hakama: kimono provvisto di pantaloni larghi, utilizzato tradizionalmente nella pratica delle discipline sportive.
   
 
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