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Autore: Minuialwen    12/01/2015    6 recensioni
Ogni azione, assunzione, rituale che abbia un effettivo o presunto valore terapeutico implica delle aspettative di guarigione in grado di influenzare corpo e psiche.
È questo ciò che si intende per "effetto placebo": una serie di reazioni dell’organismo ad uno stimolo o terapia non derivante da veri e propri principi attivi, ma dalle attese dell’individuo.
Una falsa cura, se vogliamo, ma con gli stessi - e a volte più potenti – effetti benefici di una cura reale, anche se artificiali e ingannevoli.
Bilbo Baggins della Contea, Elrond di Gran Burrone e Thranduil di Bosco Atro avranno ognuno a che fare col proprio effetto placebo personale.
[Concepita inizialmente per essere una OS di media lunghezza, si è poi trasformata in una storia suddivisa in più capitoli. Pairing principale: Bilbo/Thorin, con consistenti accenni di Fìli/Kìli e Thorin/Thranduil. Vaghi accenni inoltre di Elrond?/?Elros, Legolas/Aragorn, Erestor/Glorfindel e Lanthir (OC by Enedhil)/Eldarion.
Oltre ai generi indicati in basso, c'è da aggiungere un po' di fluff e anche un bel po' di angst, in particolar modo verso la fine. Sarà riservato un certo spazio anche ai fratelli di Thorin: Dìs e Frerin.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bilbo, Fili, Kili, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: Incest, Spoiler!
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Nota dell’autrice: Ebbene sì, eccomi tornata dopo non si sa il tempo! Chiedo scusa a tutti i lettori per il lungo periodo di pausa intercorso tra l’ultimo capitolo pubblicato e questo…Ogni tanto, dirò la verità, necessito di periodi di pausa più o meno brevi o più o meno lunghi per riuscire a portare avanti una storia al meglio delle mie possibilità.
Anche questo capitolo, come gli altri, è piuttosto ricco e denso di contenuto: spero quindi di riuscire a farmi perdonare, anche questa volta, la lunga attesa.
Detto ciò, un sentito grazie va a tutti coloro che seguono, preferiscono e ricordano questa storia, in particolar modo un grazie di cuore a ewan91, leila91, Aliseia e Debbysmile per aver recensito il terzo capitolo.
 
Prima di augurarvi una buona lettura, approfitterò di questo spazio per sfogarmi con qualcuno che al di là di ogni ragionevole dubbio (lo dimostra il fatto che siete in questa sezione) sia interessato all’argomento…
Parliamo un attimo dell’ultimo film di Peter Jackson, vi va?!
A partire da La Battaglia delle Cinque Armate (anziché dei cinque eserciti) che non si può sentire!, anche se su questo, in fin dei conti, possiamo sorvolare: d’altronde non è attribuibile a lui!
Non nasconderò di essermi commossa fino alle lacrime mentre ero al cinema perché, alla fin fine si tratta pur sempre dei miei (…nostri? ^^’’’) adorati Fìli, Kìli e Thorin! Ma non nasconderò neanche di aver lanciato a PJ un numero spropositato di maledizioni per aver stravolto completamente il senso della scena originale (a proposito della loro dipartita) così come era stata immaginata da Tolkien!
Nel caso in cui tra di voi ci sia chi non ha letto il libro de “Lo Hobbit” e magari ha intenzione di farlo, non riporterò, adesso, le righe che specificano di come sono andati i fatti; concentrandomi piuttosto sulle scene del film. (Perciò la stessa cosa vale per chi ancora non lo ha visto: fermatevi qui e proseguite direttamente con la storia.)
Ci sta che per dare senso e continuità alla pseudo tresca amorosa con Tauriel (parlerò anche di lei tra qualche riga) PJ abbia improntato la morte di Kìli tutt’attorno a lei, ma…porca miseria! Fìli, colpito a morte, gli atterra praticamente davanti e l’unica reazione che abbiamo è un grugnito condito di un’espressione assassina che dura la bellezza di due secondi?!? Cioè, voglio dire, al di là del fatto che quello appena buttato di sotto sia il fratello con cui ha condiviso una vita intera, ma nel primo film, se ben ricordate, quando vengono separati dai golem di pietra pare che, non solo a Fìli, ma anche a Kìli stia per prendere un collasso!
Poi, Fìli cade di sotto, Thorin osserva la scena impotente, Kìli scatta incazzoso lungo la scalinata e Thorin cosa fa? Ovviamente (così come del resto in tutti e tre i film messi assieme) urla il suo nome! Con questo voglio dire che a quel povero disgraziato di Fìli non è stato data la giusta importanza, ma neanche un po’!
E ancora, a sottolineare la cosa: è bellissima la scena in cui Thorin e Kìli si mettono fronte contro fronte quando, prima della battaglia, Thorin finalmente rinsavisce, eppure, di nuovo…anche Fìli è suo nipote, per Durin! Per non parlare del fatto che quando tutto finisce, le scene indugiano su Thorin che è caduto (prima Bilbo – bellissima successione di immagini! – poi il resto dei Nani della compagnia a rendergli omaggio) su Kìli (con Tauriel che se ne esce con quella battuta infelice, a momenti più infelice del “io sto per salvarlo!” nel secondo film e Thranduil che le risponde “perché era reale!”…ma che è?!?) e il povero Fìli – ovviamente ormai verrebbe da dire, tanto il suo essere bistrattato è una costante – non se lo fila nessuno!
Infine, almeno per ciò che concerne i Nani, ho trovato la cavalcatura di Daìn piuttosto divertente, ma alquanto fuori luogo: un pony andava benissimo, non c’era bisogno di un cinghiale!, e la partenza di Bilbo (quando la telecamera ha indugiato sulla compagnia riunita, con le figure di Fìli, Kìli e Thorin che mancavano, mi sono sentita malissimo!) è stata troppo precipitosa! Mi sarei quantomeno aspettata di vedere la tumulazione di Thorin e dei nipoti…
A questo punto spero che nelle extended edition vedremo qualcosa in più, specialmente per quanto riguarda Fìli.
Infine (stavolta infine sul serio) ho trovato fichissimo come PJ abbia inserito all’interno della vicenda il richiamo ad Aragorn, quando Thranduil dice a Legolas di recarsi nelle Terre Selvagge, alla ricerca di un ramingo che si fa chiamare Grampasso.
Tolkien non ha mai specificato come i due si siano conosciuti (ne Il Signore degli Anelli, quando le loro strade si incrociano al consiglio di Elrond, i due personaggi vengono descritti come già amici) anche se è ipotizzabile che si siano conosciuti quando Aragorn, dopo aver dato la caccia a Gollum, lo porta a Bosco Atro, affinché venisse preso in custodia dagli Elfi Silvani.
Fatto sta che lo stratagemma inventato da PJ, anche se molto fico, è in disaccordo con la cronologia dei fatti: alla fine della battaglia dei cinque eserciti, Aragorn non era ancora diventato Grampasso. Il suo nome era Estel, viveva ancora alla corte di Elrond e aveva dieci anni!
Dimenticavo di Tauriel (poi, lo giuro: basta davvero!) Al contrario di altre persone, non ho provato per lei una così grande avversione. Molti pongono l’accento sul fatto che non sia un personaggio originale di Tolkien, ma io, ad esempio, giustifico semplicemente la sua esistenza come uno degli Elfi appartenenti a quei “gruppi di Elfi” o a quel “seguito di Elfi” di cui ha scritto il professore quando nominava genericamente le guardie di Thranduil o i sudditi di Thranduil ecc. ecc.
Un po’ mi è andata sulle balle perché non solo, volente o nolente, è stato un personaggio utilizzato in maniera tale da stravolgere il trapasso di Thorin, Fìli e Kìli, ma anche perché (a parte il discorso che fa a Legolas quando lui la raggiunge poco prima di arrivare ad Esgaroth) se ne esce più volte con battute del caxxo!
 
Detto ciò, scusate il lungo sfogo, e se vi va, ditemi: voi cosa ne pensate?
 
Intanto vi auguro una buona lettura, augurandomi che vi piaccia e che, magari, mi facciate sapere le vostre impressioni. Mi renderebbe davvero felice! ^_^
Un bacione e a presto,
vostra Minu
 
 
 
 
Effetto Placebo
**Quarta Parte**
 

La prima sensazione che avvertì non appena cercò di aprire gli occhi, fu una tremenda fitta di dolore alla testa. Emettendo un lamento strozzato e sbattendo le palpebre per cercare di mettere a fuoco il posto in cui si trovava, Bilbo iniziò anche a rendersi conto della fredda conformazione rocciosa su cui era malamente steso. Poco lontano, oltre al buio fitto e umido di quel luogo, una fioca luce riverberava su quella che appariva una pozza d’acqua o qualcosa di simile.
Facendosi coraggio e cercando di non imprecare per ogni nuova fitta che, ad ogni mossa, gli schizzava direttamente nel cervello, si tirò su a sedere, portandosi contemporaneamente una mano alla testa. Le dita gli si macchiarono del sangue rappreso di una ferita all’altezza di una delle tempie, ma, visto che ancora ragionava e, a parte il dolore, riusciva a muovere tutte le membra, ne dedusse che non doveva essere nulla di grave. D’altronde in quel punto sperduto di quel miserabile covo di orchi ci era giunto completamente solo, quindi, non potendo contare sull’aiuto di nessuno, tanto valeva farsi forza con dei pensieri positivi, piuttosto che disperarsi lasciandosi sopraffare dall’angoscia e dalla paura.
Facendo mente locale, ricordò di essere scivolato dalla schiena di Dori: le urla agghiaccianti e i versi animaleschi degli orchi e dei goblin nell’oscurità del cunicolo che stavano attraversando, l’impeto concitato del Nano nella lotta per la sopravvivenza, lui che in un secondo perdeva la presa sulle sue spalle e precipitava nel vuoto, un unico pensiero in testa prima di impattare violentemente contro la roccia – Thorin! - poi il buio.
 
Sforzandosi si tirò su a sedere, chiedendosi quanto tempo fosse trascorso da quando aveva perso i sensi. Per quanto ne sapeva potevano essere passati solo pochi minuti così come poteva essere trascorso anche un intero giorno. Aveva fame e freddo, si sentiva acciaccato come se gli fosse passata addosso un’intera mandria di buoi, il buio e la solitudine erano opprimenti, ma ciò che feriva più di ogni altra cosa era il pensiero che forse non avrebbe mai più rivisto il capo della loro compagnia…
Incredibile!’ si disse ‘Io sto praticamente rischiando la vita quaggiù, senza sapere né dove diamine mi trovi né che ne sarà di me, ma tutto ciò a cui riesco a pensare è quel Nano burbero, scontroso, antipatico e…e…bellissimo!...’
 
Aggrappandosi alla parete di roccia lungo la quale era volato giù si impose di cancellarsi dalla faccia l’espressione trasognata che, in barba alla situazione di pericolo in cui si trovava, aveva sicuramente assunto. Dandosi del mentecatto si alzò in piedi e con passo malfermo, spada alla mano – rassicurato anche dalla lama elfica che, fortunatamente rimasta al suo fianco, non segnalava orchi nelle vicinanze - si diresse verso la fievole luce che illuminava quelle che, a mano a mano che vi si accostava, si rivelavano piccole increspature sull’acqua. C’era qualcosa che si muoveva sinuosamente lì, nel mezzo della pozza, qualcosa o qualcuno che si spostava silenziosamente, ma la luce era davvero troppo debole affinché potesse capire di chi o cosa si trattasse. Poi, tutto ad un tratto, lo sguardo gli cadde su un luccichio ai propri piedi.
Accovacciandosi per vedere meglio, si ritrovò a soppesare nel palmo un anello d’oro, un piccolo e semplice cerchio dorato che a prima vista non rivelava nulla di eclatante; senonché, quando fece per rimetterlo in terra, si accorse del gesto della propria mano che, precedutolo, come mossa da una volontà indipendente dalla propria, se l’era già messo in tasca.
Vista l’intera situazione di pericolo che ancora incombeva, a Bilbo non sembrava affatto il caso, ora, di darsi pena per i gesti inconsulti delle proprie membra, liquidando la faccenda con un ‘perché no? In fondo anche la tasca della mia giacca è un luogo come un altro…’ e lì per lì proprio non si rese conto del sibilo sinistro che, improvvisamente, sembrò attraversargli la testa.
Un suono che sebbene si fosse manifestato dentro di sé, era stranamente slegato dal proprio flusso di pensieri; una peculiarità, quest’ultima, decisamente strana, ma tale considerazione Bilbo non fece neanche in tempo a formularla poiché, un altro sibilo, questa volta reale, lo fece girare di scatto.
 
Voltandosi con la spada sguainata, e facendo sfoggio in un unico gesto di tutta la sua imbranataggine a maneggiare le armi, si ritrovò a fronteggiare una strana creatura, come mai ne aveva viste fino ad allora. A prima vista poteva sembrare una specie di goblin, ma seppur potesse risultare obbrobrioso come loro, con la pelle grigiastra, gli occhi sporgenti e in generale fetido e ripugnante a prima vista, quest’essere conservava nello sguardo e nella circospezione dei propri movimenti una qual sorta di…umanità. La lama elfica che teneva con entrambe le mani, inoltre, non segnalava con la propria luce l’alcuna presenza di un pericolo, motivo, questo, che almeno in parte servì a fargli mantenere una certa dose di calma.
 
“Benedici e aspergici, tesssssoro! Questo sì che è un bocconcino prelibato!” Fece la strana creatura in questione avvicinandosi di più, ma Bilbo fu lesto ad appoggiargli la punta della propria spada sul petto, a mo’ di monito.
 
Quello per tutta risposta iniziò a raschiarsi la gola, come tra sé e sé “Gollum, Gollum!”
 
Bilbo gli intimò di stargli lontano e tale Gollum – questo doveva essere il suo nome pensò Bilbo in quel momento – considerò che egli possedeva una lama elfica, benché egli, in effetti, fosse tutt’altro che un Elfo…
“Cosa ssssei tesssoro, cosssa seeei?!” Domandò con voce gutturale e stridula al tempo stesso, infilando tra una parola e l’altra quel termine - ‘tesoro’ - che, come poi Bilbo intuì, era il modo che Gollum aveva di rivolgersi a sé stesso.
 
“Il mio nome è Bilbo Baggins!” Dichiarò lui a metà tra il goffo e il deciso, continuando a tenere la propria spada sguainata di fronte a sé “E sono uno Hobbit della Contea!”
“Un hobbitisss?!” ribatté l’altro confuso, poi scoppiò a ridere affermando che gli piacevano i goblinsis, i pipistrelli e i pesci, ma che fino ad allora non gli era mai capitato di assaggiare un hobbitis “Esso è morbido…” ringhiò sinistramente cominciando nel contempo a farsi nuovamente più vicino “è succulento…”
 
Bilbo, per tutta risposta, menò fendenti nell’aria, al fine di tenerlo il più lontano possibile da sé, minacciandolo poi che l’avrebbe usata, la spada, se fosse stato costretto e concludendo quindi che non andava di certo cercando guai, ma soltanto il modo più veloce per uscire da lì.
 
Al che il suo interlocutore parve assumere un’espressione di giubilo, dichiarando che loro conoscevano sentieri sicuri che conducevano fuori da quella grotta sotterranea, ma subito dopo, lui stesso, con voce completamente diversa da quella usata poco prima, si intimò di tacere.
 
“Sta zitto!” disse.
 
“Non ho detto niente…” rispose Bilbo più che confuso, credendo che Gollum si fosse rivolto a lui.
 
“Non parlavamo con te!” gli ringhiò contro quello, distogliendo lo sguardo e assumendo un’espressione che lo faceva sembrare sprofondato in riflessioni tutte sue.
 
“Senti” iniziò allora Bilbo dopo qualche momento di sconcertato silenzio “non so a che gioco tu stia giocando, ma…”
 
Gollum però non lo fece finire perché, cambiando nuovamente espressione, tornò baldanzoso come poco prima, uscendosene carico di brio con un “giochi?! Oh, noi adoriamo i giochi! È così, è così, a noi piace giocare, non è vero tesssoro?” E prima ancora che Bilbo potesse dire qualunque cosa, già sottoponeva alla sua attenzione un indovinello.
 
Lo Hobbit lo risolse in quattro e quattr’otto e di fronte alla contentezza dimostrata da Gollum, la sua arguzia gli suggerì che se si fosse prestato a giocare, allora, forse, avrebbe potuto fare un patto con lui.
Con voce suadente gli disse di notare che era molto bravo in quel gioco e che sarebbe stato bello se entrambi ci si fossero prestati…ma solo loro due, aggiunse con scaltrezza.  
Bilbo, infatti, aveva capito che quella strana creatura doveva essere affetta da una doppia personalità o qualcosa di simile; così, prendendola con le moine, poté rivelare le proprie carte: “se vinco io” disse “allora tu mi mostri la via d’uscita.”
Gollum valutò la sua proposta e finì con l’accettare soltanto perché Bilbo, prima, accettò le sue di condizioni.
Se avesse vinto il Bagginsis – ribatté lui – allora sì, gli avrebbe mostrato come uscire da lì, ma se avesse vinto lui, allora loro se lo sarebbero mangiato tutto intero.
 
Mentre dichiarava “affare fatto!” era l’immagine di Thorin quella  che si dipingeva nella mente di Bilbo; un’immagine, un pensiero, un sentimento che in futuro lo avrebbero indotto a tirare fuori un coraggio che non aveva neanche mai sospettato di avere e che, in quel momento, lo avevano portato ad accettare una così infame condizione solo perché, sopra ogni altra cosa, oltre alla luce del sole, bramava di rivedere quel Nano burbero e scontroso il più in fretta possibile.
 
Dopo un paio d’indovinelli a testa però sembrava che nessuno dei due riuscisse a prevaricare sull’acume dell’altro, finché, casualmente, infilandosi le mani in tasca in un gesto di esasperazione, Bilbo sfiorò l’anello che aveva raccolto poco prima e di cui si era completamente dimenticato.
Parlando tra sé e sé farfugliò un “cos’ho in tasca?”, ma Gollum, che lo sentì, credette che si trattasse di un indovinello.
 
“Cosssì non vale!” gracchiò sconvolto “Cosssì è contro le regole!” piagnucolò gettando via una pietra che, di nascosto al suo interlocutore, teneva stretta in una mano.
Alla faccia delle regole!’ – pensò lo Hobbit in quel preciso istante – ‘voleva colpirmi e…mangiarmi qualunque fosse stato l’esito del gioco!’
Se fino a poco prima non sapeva se e quanto si sarebbe effettivamente potuto fidare di quella creatura, adesso Bilbo aveva la certezza di non potersi fidare in alcun modo perché – si disse - fidarsi degli infami era un comportamento da ingenui o da folli!
 
“Non vale! Non vale!” continuava a piagnucolare Gollum “Adesso facci un’altra domanda!”
Ma Bilbo, che, se in un primo momento aveva pensato di rivelargli che in realtà la domanda che aveva udito era stato solo un farfugliare tra sé e sé – lui, d’altronde, era sempre stato uno Hobbit onesto; una persona per bene che si era sempre attenuta alle regole del gioco – cogliendo in flagrante la slealtà di colui col quale, suo malgrado, stava avendo a che fare; insistette con la stessa domanda di prima.
 
“Cos’ho in tasca?” ripeté a voce più alta “In fondo mi hai detto di farti una domanda, no? Ebbene, questa è una domanda!”
 
Gollum, fuori di sé, finì col cedere, ma pretese di poter dare almeno tre risposte.
 
“Benissimo!” concesse Bilbo, ma dopo che quello, senza indovinare, le ebbe esaurite tutte quante, anziché attenersi ai patti e rivelare al Mezzuomo la strada che conduceva fuori da lì, fece per cercarsi qualcosa addosso.
Tra sé e sé bofonchiò qualcosa a proposito di un regalo di compleanno che gli era stato donato molto tempo prima, finché, tutto ad un tratto, i suoi gesti iniziarono a farsi inconsulti e frenetici.
Qualunque cosa Gollum stesse cercando era evidente che non la stava trovando, così, mentre quello si buttava per terra a rovistare convulsamente tra detriti lacustri ed ossa di orco – “dov’è, dov’è?!” – Bilbo si portava lentamente il più lontano possibile da lui, chiedendo, al contempo – e senza troppa convinzione – “cos’hai perso?”
 
“Non devi chiedercelo! Non sono affari tuoi!” Gli sbraitò contro l’altro, senonché, ad un certo punto, un lampo di consapevolezza improvvisa gli attraversò lo sguardo e voltandosi con un ghigno crudele stampato sul volto, sibilò “Cosssss’ha lui nelle sssue orribili tascacce?”
 
Da quel momento in poi Bilbo ebbe chiara solo una cosa: scappare. Correre il più velocemente possibile lontano da lì.
Stando attento a non scivolare sul pavimento sdrucciolevole, attraversò, correndo a perdifiato, gallerie e strettoie. In una ci si incastrò, ma, con la forza della disperazione riuscì a portarsi dall’altra parte della parete proprio quando Gollum stava ormai per acciuffarlo. I bottoni del panciotto gli schizzarono via e, cadendo dall’altra parte, l’anello gli si sfilò dalla tasca. Allungando la mano per acchiapparlo al volo, l’oggettino gli si infilò al dito con una naturalezza tale che quasi sembrava fosse animato di vita propria.
Gollum, con un salto, fece irruzione nel piccolo spiazzo.
Sono morto!’ pensò Bilbo in quel momento, eppure il suo inseguitore si guardava attorno senza vederlo. Ma era impossibile che non lo vedesse, perché gli stava praticamente steso davanti al naso! Ciononostante quello schizzò via, urlando “ladro! Ladro! Ridammelo!” cosicché Bilbo poté alzarsi e rendersi conto con sua grande meraviglia che, grazie a quell’anello, era appena diventato invisibile. Fu in quel momento che decise che non se ne sarebbe separato mai più.
 
Quando finalmente trovò l’uscita, trovò anche Gollum ad attenderlo al varco: chiaramente vi si era piazzato davanti con la speranza di non farlo passare.
Grazie alla sua acquisita invisibilità, affondargli la spada nel petto e sbarazzarsi per sempre di lui, sarebbe stato un gioco da ragazzi: d’altronde, Bilbo, la spada l’aveva anche sguainata ed ora la puntava alla gola di un ignaro Gollum…
Fu la pietà però a fermargli la mano; la pietà che gli ispirò l’espressione che quell’infelice creatura aveva negli occhi. Sembrava più solo e spaventato che mai in quel momento. Un essere corroso da una solitudine senza scampo che l’aveva indotto a creare un altro qualcuno con cui comunicare, con cui sopravvivere…
 
Poi, improvvisamente, dal fondo del buio corridoio che immetteva verso l’uscita, sentì una squadrone di orchi in avvicinamento, probabilmente diretti al di fuori di quel loro covo miserabile. Questo bastò a ricordargli che doveva assolutamente e immediatamente uscire da lì, prima che la soglia fosse raggiunta da quegli esseri ripugnanti.
Rinfoderò la spada e con un respiro profondo balzò sopra la testa di Gollum per poi gettarsi a rotta di collo nell’aria fresca della notte.
L’ultima cosa che si lasciò alle spalle furono le imprecazioni che quello gli lanciava e i giuramenti a proposito del fatto che prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare cara.
 
Ora che era finalmente riuscito ad evadere da quel posto maledetto, gli sovvenne che non aveva idea di dove dirigersi. Inoltre, si chiese, i suoi compagni erano davvero riusciti a fuggire o si trovavano ancora in qualche cunicolo alla mercé degli orchi?
Un mare di dubbi e di domande lo assalì impietosamente. Con le lacrime agli occhi cercò di fare mente locale e di non lasciarsi prendere dalla disperazione ché – si disse – sarebbe stato assolutamente controproducente.
Ciò che ricordava, prima che tutto divenisse buio e perdesse la cognizione del tempo, era un’uscita su cui si stagliava la luce del tramonto perciò, con ogni probabilità – o così almeno sperò con tutte le proprie forze – i Nani e Gandalf erano riusciti a scappare. Ma se erano riusciti a scappare, adesso, dove si trovavano? Se n’erano andati senza aspettarlo? L’avevano forse dato per spacciato e non si erano disturbati a tornare indietro per recuperare il suo cadavere? O magari l’avevano fatto e adesso erano sottoposti a terribili torture da parte degli orchi, maledicendo il giorno in cui erano andati a proporgli un contratto da scassinatore?
…E Thorin? Thorin a cui finalmente era riuscito a dichiararsi, l’avrebbe mai più rivisto o sarebbe stato privato per sempre dall’annegare nelle profondità di quei bellissimi occhi azzurri per cui era completamente uscito fuori di senno? E Fìli e Kìli? Avrebbe mai più goduto della loro spensieratezza? Dell’allegria di Bofur? Della dolcezza di Ori? Della faccia da schiaffi di Nori? Della saggezza di Balin? Dell’amicizia e del profondo affetto che ora sentiva di provare per ogni singolo membro della loro inusuale compagnia?
 
Quando stava quasi per cedere all’amarezza e allo sconforto per crollare in terra e piangere tutte le lacrime che aveva in corpo, un luccichio, nella notte, attirò nuovamente la sua attenzione. Frenò la propria corsa e prese a muoversi guardingo verso quella direzione dove, il bagliore che aveva scorto, si faceva ora più intenso. Aggirando completamente la roccia al di là della quale proveniva il debole bagliore e mantenendosi comunque a una certa distanza di sicurezza - benché il mantello dell’invisibilità lo proteggesse da occhi indiscreti - si ritrovò a fissare la schiena di Thorin che, spada alla mano, avanzava silenzioso nella direzione opposta a quella verso la quale si stava dirigendo lui.
Evidentemente – pensò - lo stava andando a cercare e tale fu la contentezza non solo di rivederlo, ma anche di sapere che stava rischiando la vita e l’impresa per riprenderselo che, messo da parte ogni buon senso, si sfilò l’anello dal dito e felice come una pasqua si mosse verso di lui…
 
“Thorin…” lo chiamò, ma prima ancora che riuscisse a muovere un altro passo, si ritrovò schiena a terra e sormontato da un peso decisamente considerevole. La prima cosa di cui si rese conto dopo il per niente gradevole impatto, fu il proprio cuore che batteva all’impazzata, poi si rese conto delle ciocche bionde che lo sovrastavano e, infine, anche del pugnale che aveva alla gola…
Proprio mentre, al di là della chioma leonina del suo assalitore, si accorgeva di Kìli che lo teneva sotto tiro con l’arco puntato e del resto dei membri della compagnia seminascosti dietro ai tronchi degli alberi; avvertì la risata divertita di Fìli e subito dopo le sue mani che lo rimettevano in piedi come fosse stato nient’altro che un esile fuscello. “Bilbo!” esordì quello, spolverandogli alla bell’è e meglio le maniche della giacca “stavamo venendo a cercarti! Temevamo di averti perso per sempre!”
 
“Signor Boggins!” si fece avanti Kìli mettendo via l’arco, per poi abbracciarlo e sollevarlo da terra, appellandosi a lui col nome con cui ormai era solito chiamarlo “Non sai che piacere ci fa rivederti tutto intero e…alla faccia del ‘io non sono uno scassinatore!’…sei arrivato qui quatto quatto! Nessuno di noi ti ha visto o sentito arrivare! Ci siamo accorti di te solo all’ultimo momento e poco ci è mancato che ti scambiassimo per un orco…” – certo: l’espressione assunta da Kìli in quel preciso istante era tutta da ridere perché il solo cercare di immaginarsi Bilbo come un orco o un goblin di caverna gli riusciva alquanto difficile! – “ma tutto è bene quel che finisce bene!” dichiarò con brio rimettendolo finalmente giù “E chissà di quante altre doti nascoste ci hai tenuto all’oscuro!”
 
“Già!” s’intromise Dwalin, il quale, poco prima che tutti loro precipitassero nella tana degli orchi, si era svegliato in tempo per udire gli ultimi stralci della conversazione tra Bilbo e Bofur. La sua voce, solitamente noncurante e velata di una sottile ironia – almeno nelle rare occasioni in cui era occupato a parlare, piuttosto che a spaccar crani di orco con la sua ascia – era ora velata di una sottile nota d’accusa “Pensavamo che fossi morto o che, comunque, avessi colto al volo l’occasione per filartela!...Perché sei tornato da noi?”
 
Bilbo, che in quel momento si sentiva estremamente felice per aver ritrovato tutti i suoi compagni e, sebbene i suoi occhi continuassero a cercare quelli di Thorin che, per tutto quel tempo non aveva fatto altro che fissarlo con espressione indecifrabile; non volle che quella gioia potesse essere rovinata dal dubbio latente nelle parole di Dwalin.
 
“Lo so che molti di voi hanno dubitato di me e che, magari, ancora continuano a farlo. Anch’io lo avrei fatto, di certo non vi biasimo per questo. Quando pensate che magari possa mancarmi la mia poltrona…bè, è vero: mi manca la mia poltrona. E mi mancano i miei libri, il mio giardino e la mia cucina. Mi manca casa Baggins ed è proprio per questo che voglio aiutarvi: perché voi, una casa, non ce l’avete…e voglio aiutarvi a riprendervela se posso.”
 
Bilbo ancora non lo sapeva, ma dalla fine di quel discorso si era guadagnato eterna amicizia e rispetto senza remore da parte di ogni singolo Nano presente.
Il cuore di Thorin, al suono di quelle parole, fremette con talmente tanto slancio che quasi ne fu sopraffatto. Ancora incredulo, eppure, adesso, infinitamente grato di riuscire a provare per la prima volta in centonovantacinque anni, l’amore che per la sua gente era il più profondo di tutti gli amori.
 
Di certo, il mancato Re Sotto la Montagna, ancora non aveva idea di come gestire al meglio la scoperta di un sentimento con cui non aveva dimestichezza alcuna. Era lì, quasi impacciato nella sua immobilità, a dispetto di quella che era sempre stata una fiera e granitica postura. Si sentiva ridicolo per le domande che gli stavano passando per la mente e a disagio per il fatto di non saper fare altro che assecondarle, anziché scacciarle come si fa con un insetto molesto.
Si chiedeva se magari era il caso di sorridergli, di andargli incontro ed abbracciarlo infischiandosene di quelle che avrebbero potuto essere le reazioni dei suoi compagni o se, piuttosto, fosse meglio rimandare tutto a dopo, a quando avrebbero avuto un momento più tranquillo per parlare…
Parlare? - Ripeté inaspettata e improvvisa la voce della sua coscienza senza poter fare a meno di arrossire come un sbarbatello inesperto – Altro che parlare!
Fu grato, in quel momento, di avere il velo della notte a celarlo da occhi indiscreti.
Tuttavia, al di là di quelli che potevano essere pensieri poco casti, ciò che più lo turbava non era il proprio impaccio né l’indecisione inerente le mosse che sarebbe stato più appropriato compiere o non compiere, ma il pensiero ben più sconvolgente riguardo a come, lui e Bilbo, si sarebbero dovuti comportare una volta riconquistata Erebor!
In pratica, al di là dell’impresa di arrivare sani e salvi alla meta e a quella forse più ardua di riconquistare la patria perduta, la sua mente già si perdeva in congetture ben più lungimiranti, indugiando su cosa avrebbero fatto e cosa ne sarebbe stato di loro una volta che tutto fosse finito.
Bilbo avrebbe fatto ritorno alla Contea o, piuttosto, avrebbe accettato di vivere con lui Sotto la Montagna? Uno Hobbit sarebbe mai stato capace di vivere in un ambiente così diverso dai verdi colli in cui la sua gente era solita dimorare? E, ponendo il caso che la risposta a tali domande fosse stata un sì, sotto quale veste avrebbero dovuto far passare la spiegazione che giustificasse la sua permanenza in quel luogo?
Sebbene, in quel preciso istante, non riuscisse neanche a muoversi pietrificato com’era dallo stesso amore che provava, la mente di Thorin rimaneva come prigioniera in un mondo fatto di interrogativi, tergiversando addirittura sul fatto che un legittimo erede al trono in grado di prendere il suo posto già esisteva e che quindi, di conseguenza, a lui non sarebbe stato neanche imposto l’obbligo di prender moglie per avere degli eredi. Dìs era la figlia femmina e la più piccola dei figli di Thrain, ma, ciò che contava in quel caso era la discendenza sanguinea di Durin il Senzamorte, motivo, questo, che bastava a rendere la successione di Fìli più che legittima. D’altronde, sin da quando era piccolo, Fìli era stato appositamente educato da Thorin stesso affinché gli succedesse alla guida del regno e, sia lui che suo fratello Kìli, erano per il quasi Re Sotto la Montagna eredi al suo cuore ancor prima che al trono. Sangue del suo sangue come fossero stati figli suoi e, per tanti anni, l’unica fonte di gioia che era stata in grado di smussare almeno una parte della sua corazza.
Per via della loro esistenza, Thorin avrebbe potuto governare senza l’obbligo di avere una regina al proprio fianco e, come re scapolo – pur tuttavia con la dovuta discrezione – sarebbe stato molto più libero di vivere una sua eventuale relazione con Bilbo.
 
Scoprì, con suo grande disappunto, che, in quel caso, il suono della parola eventuale non gli piaceva affatto, ma, all’improvviso, a strapparlo dai propri pensieri, fu un sinistro ululato che proveniva dalle alture che si erano appena lasciati alle spalle. Nessuno dei Nani, o Gandalf, ebbe bisogno di udirne degli altri per riconoscere in quel verso i mannari di Gundabad, evidentemente gli stessi che avevano dato loro la caccia prima di giungere a Granburrone.
 
“Dalla padella alla brace!” Commentò lo stregone e prima ancora che potesse gridare di darsela nuovamente a gambe, Bilbo lo interruppe con “Ehm…scusate se non ve lo ho detto prima, ma…sapete, ero troppo rintronato da Fìli che mi era saltato addosso e…no! Cioè, non fraintendetemi: non intendevo saltato addosso in quel modo, ma…”
 
“Mastro Baggins!” Gli mise fretta Balin.
 
“Ah si, scusatemi!” Fece Bilbo davanti a quattordici facce – quelle dei Nani e quella di Gandalf - che lo guardavano sconcertate “Prima di raggiungere questa radura, in fondo al cunicolo dal quale sono scappato, ho udito uno squadrone di orchi in avvicinamento e, bè…ecco, magari…hanno già varcato l’uscita?...”
 
Non ci fu bisogno di aggiungere altro che, girati i tacchi, l’intera compagnia si rimise a correre giù per i pendii delle Montagne Nebbiose.
 
Adesso, oltre all’inconfondibile suono di zampe lanciate di corsa assieme a quello più agghiacciante degli ululati e dei ringhi sempre più vicini, si udiva, in lontananza, anche il passo di marcia degli orchi e dei goblin usciti da quel loro miserabile covo.
 
Ben presto i Nani, Bilbo e lo stregone si ritrovarono senza una via di scampo: la piana su cui stavano correndo si restringeva fino ad una stretta altura che si tuffava a precipizio nel vuoto.
 
“Presto! Arrampicatevi sugli alberi!” Tuonò Gandalf e fu proprio in quel momento, mentre ognuno dei presenti tentava di arrampicarsi sui rami degli alti abeti il più in fretta possibile, che i primi mannari apparvero in tutto il loro orrore, cercando, a fauci spalancate, di ghermire chi ancora, tra i Nani, s’attardava sui rami più bassi.
 
La situazione era dir poco disperata, eppure il picco di terrore venne raggiunto nel momento in cui un bianco mannaro si fece avanti tra gli altri, avanzando con lentezza studiata.
Né Fìli, né Kìli, né Ori lo avevano mai visto. Fino ad allora Azog era rimasto uno dei personaggi delle storie che Thorin, ma ancor più spesso Balin, erano soventi raccontare. Il grande orco pallido era il cattivo che, da bambini, tramite le voci dei loro tutori, li faceva sobbalzare sulla poltrona. Era il mostro che si prestava ad antagonista dei loro schieramenti, sotto forma di soldatino intagliato nel legno quando, nei loro giochi, tutti loro erano i piccoli eroi che vincevano sempre: contro il drago, contro gli orchi, contro Azog…contro la morte.
Adesso, invece, l’orco pallido era reale ed era tutt’altro che morto!
A cavallo del suo bianco mannaro avanzava verso di loro, con un ghigno di crudele divertimento stampato sull’orribile volto…
Eppure, come una nota stonata che si prendesse gioco di tutta la malvagità che emanava, il braccio sinistro, dal gomito in giù, gli mancava. Tagliato di netto dalla spada di Thorin davanti ai cancelli di Moria, quando quest’ultimo era diventato Scudodiquercia, e adesso sostituito da un lungo moncherino di metallo affilato.
Bastò quel dettaglio ad instillare nuovamente in loro un po’ dell’audacia persa alla sua vista; ancora più fieri, adesso, di appartenere alla stirpe di Durin.
 
“Lo sentite quest’odore?” Esordì Azog rivolto ai suoi, nella loro orribile lingua nera “È l’odore della paura!” Disse inspirando a fondo, beandosi di ciò che avvertiva.
“Quello è mio!” Decretò riferendosi a Thorin che, fin da quando il suo antico nemico aveva fatto la propria comparsa, non aveva mai smesso di fissarlo. All’inizio come se non riuscisse a credere ai propri occhi perché, per tutto quel tempo, era davvero stato convinto del fatto che Azog fosse morto a causa delle ferite che, una dopo l’altra, gli aveva inferto in battaglia, anni prima. Poi l’iniziale sconcerto era stato sostituito da una consapevolezza crescente riguardo a chi, sin dall’inizio della loro impresa, aveva dato avvio a quella caccia che, a tutti gli effetti, non era sembrata un semplice e casuale imbattersi in un gruppo di orchi. Azog, vivo e vegeto, doveva essersi messo sulle sue tracce per placare il folle malanimo che più di ogni altro gli si agitava dentro: estirpare dal mondo la progenie di Durin.
L’odio di Thorin cresceva. Più guardava quell’essere immondo e più il suo odio aumentava. Impossibile da attenuare, impossibile da contenere.
Poi, il grande orco parlò di nuovo “Uccidete tutti gli altri!”
 
I mannari avevano ricominciato ad attaccare, saltando con le potenti zampe addosso ai tronchi degli alberi.
Gandalf, nel frattempo, tramite il suo bastone aveva dato fuoco ad alcune pigne: i Nani e Bilbo cominciavano a passarsele tra di loro e, con quelle, ad accenderne delle altre. Poi iniziarono a scagliarle contro ai loro assalitori finché, ben presto, a terra, a contatto con le sterpaglie e gli aghi di pino, si sprigionò un rogo che li fece indietreggiare.
Per un attimo, la compagnia, si lasciò avvolgere dall’entusiasmo, ma durò ben poco, giusto il tempo di una brevissima esultanza. Le fiamme, infatti, avevano iniziato a lambire anche i tronchi degli alberi su cui sostavano tutti loro, ed uno degli abeti era cascato addosso a quello che gli stava vicino. Quello, a sua volta, era crollato e adesso, l’intera compagnia, si teneva disperatamente aggrappata ai rami dell’ultimo albero rimasto in piedi, esattamente quello che si ergeva sull’ultimo sperone di terra e roccia a picco sul vuoto.
 
Quello che successe dopo avvenne in un lampo. Ancor prima che qualcuno potesse capacitarsene e, magari, intervenire per fermarlo, Thorin si era scagliato contro Azog: Orcrist impugnata saldamente nella mano destra e lo scudo di quercia sull’avambraccio sinistro…
Il solo rendersi conto, infine, che sì: quella che stava vedendo non era solo un’illusione uscita fuori dal suo peggior incubo, ma la figura reale ed autentica del suo antico nemico; gli aveva mandato il sangue dritto al cervello. In un attimo aveva rivissuto i momenti più atroci della battaglia davanti ai cancelli di Moria e, ancora una volta, il suo cuore si era contratto come il vetro prima di un’esplosione. Schegge di odio velenoso gli avevano invaso la mente e ogni singola particella di tessuto corporeo aveva preso a gridare il nome di suo fratello.
A ogni passo che muoveva verso il comandante di quella legione maledetta, un particolare del carattere di Frerin e della loro vita passata insieme gli si dipingeva sempre più nitido davanti agli occhi. Il suono limpido della sua risata che riverberava sulle pareti dei grandi saloni di Erebor. Il suo scoppiare a piangere senza saperne esattamente il motivo, ma solo perché il suo fratellone era entrato in camera piangendo…
Ogni volta che per un motivo o per un altro Frerin gli ritornava alla mente, Thorin ricordava che era esistito anche per lui un tempo in cui piangere, semplicemente, era la cosa più naturale del mondo.
Suo fratello aveva fatto parte di quella vita, di un’esistenza forse più autentica rispetto a ruoli ed etichette da rispettare, rispetto da pretendere e soggezione da incutere.
Nei frequenti momenti di solitudine che si ritrovava a vivere, un po’ per carattere, un po’ per condizione necessaria alla guida del regno in esilio; il pensiero di Frerin veniva a bussargli con regolarità. Lui non riusciva a scacciarlo, ma anzi, mentre la sua anima moriva ogni volta sempre un po’ di più, si ritrovava, assurdamente, a volersi cullare nelle illusioni rievocate dal passato…ogni giorno che passava, sempre un po’ più a lungo.
E così affogava e al contempo traeva respiro dal ricordo della sua allegria contagiosa che, sin da quando era venuto al mondo, aveva finito col fare da contrappeso a quello che, invece, era sempre stato un animo fondamentalmente malinconico. Si torturava e si beava di due occhi azzurri come gli zaffiri che, emanando orgoglio e contentezza, si agganciavano ai suoi mentre esibiva con sfacciataggine quanto adesso, i suoi abiti, stessero bene anche a lui.
Guarda qua fratellone!” gli aveva detto un giorno di tantissimi anni prima, mentre faceva la sua apparizione nelle scuderie reali “Sono o non sono un figurino con questo indosso?”
Thorin, che lo aspettava in quel luogo già da un po’ e che, innervosito, aveva iniziato a chiedersi dove diamine fosse andato a finire suo fratello, al solo vederlo comparire con uno dei suoi abiti da cerimonia indosso, non poté fare a meno di sbottare a ridere divertito.
Bè? Cosa ci trovi di così tanto divertente?” Aveva chiesto Frerin improvvisamente stizzito, mentre sulla sua bella fronte compariva una linea di disappunto.
Niente, niente!” Aveva tentato di dire Thorin tra una risata e l’altra.
Oh, ma davvero?” Gli aveva risposto lui sempre più piccato, mentre incrociava le braccia al petto e attendeva che suo fratello la smettesse di reggersi la pancia con entrambe le mani per via delle risate che la sua vista gli aveva suscitato “A me non sembra affatto! Ora, ti spiacerebbe piantarla di ridere e dirmi una buona volta cosa ci trovi di così tanto divertente?”
Tu, fratellino!”
Io?!? Ma…ma come sarebbe a dire?!”
Magari è vero che non ci navighi più dentro…” Aveva infine risposto Thorin mentre le sue risate andavano scemando “anche se, sul petto, se permetti, ancora non ci siamo!” – l’espressione irritata di Frerin, a quell’osservazione, era diventata ancora più impagabile – “ma…non è questo il punto e se proprio vuoi sapere la verità è che…con quell’abito da cerimonia sei più adatto a presenziare ad una riunione in pompa magna con gli Elfi piuttosto che a bere birra in incognito in un’osteria di Dale!”
A quel punto Frerin si era guardato, basito, poi aveva guardato nuovamente lui ed era sbottato a ridere a sua volta.
A quel ricordo, impietosamente, nei flutti dolceamari in cui il cuore di Thorin, come un naufrago alla deriva, si lasciava sballottolare da una parte e dall’altra; sembravano sovrapporsi tutti gli altri, senza un ordine cronologico, né un filo logico, se non quello derivato dal dolore e dallo smarrimento ancora tangibile dinanzi al fatto, tanto semplice da risultare quasi banale, che il suo Frerin non sarebbe tornato più. Qualunque cosa lui avesse potuto fare, la Nera Signora non gliel’avrebbe mai restituito e tutto questo perché lei, semplicemente, non restituiva mai nessuno. Indipendentemente dall’angoscia, dalla rabbia, dalla disperazione, Frerin sarebbe rimasto per sempre soltanto il ricordo di una voce che osava levarsi sopra quella di loro nonno Thror per difenderlo.
Nessuno ci ha mai insegnato che soccorrere qualcuno in difficoltà sia un crimine! Nemmeno se questo qualcuno appartiene al popolo degli Elfi!”
Thorin aveva soccorso un piccolo Elfo che si era imprudentemente allontanato dai confini di Bosco Atro e non sapeva più come ritrovare la strada di casa. Lui, allora, l’aveva prima rifocillato e poi aveva ordinato a due guardie di scortarlo entro i confini della foresta affinché potesse ricongiungersi al suo popolo. Thror, venutolo a sapere, era andato su tutte le furie perché, diceva, aveva sguarnito il palazzo - e la ricchezza contenuta al suo interno - di due guardie giurate a prestar servizio Sotto la Montagna e che niente avevano a che fare con le disavventure di uno sconsiderato, miserabile, piccolo Elfo!
Né gli sguardi ammonitori di Thrain, né la stizza rabbiosa di Thror erano valsi ad intimargli di tenere la bocca chiusa, finendo, di conseguenza, con l’essere punito assieme a Thorin.
E così Frerin sarebbe rimasto per sempre il ricordo di una mano che si intrecciava alla sua mentre, legati uno di fronte all’altro, sulla stessa colonna di uno dei saloni più interni del palazzo, venivano presi a vergate per aver osato mancare di rispetto al Re.
Suo fratello sarebbe rimasto per sempre la particella vitale che faceva vibrare di emozione ogni singolo ricordo custodito nel suo cuore e nella sua mente. Come il ricordo del suo sguardo smarrito quando, troppo tardi si era accorto che l’aveva seguito fino ad una radura dentro i confini di Bosco Atro, assistendo, interdetto, allo scambio di un bacio con il Re degli Elfi Silvani…un bacio, il loro, talmente passionale da lasciare ben poco spazio all’interpretazione…
Frerin era ancora e sarebbe sempre stato la delusione che aveva letto nei suoi occhi per non avergli detto nulla in proposito – “Non ti fidavi di me?”, “Avevi paura che io ti giudicassi?”, “Rispondimi, fratello! È la prima volta che decidi di tacermi un segreto di così vasta portata o sono io lo sciocco che ancora crede che ci saremmo confidati sempre tutto?”
Ed era il vago ricordo di un risveglio doloroso perché, durante la notte, quando aveva quattro anni, si era intrufolato nella sua camera e piano piano aveva preso ad intrecciare una ciocca dei suoi capelli coi propri, addormentandoglisi poi addosso. Al mattino, quando si era destato dal sonno, Thorin aveva fatto per alzarsi e prepararsi per la giornata, senonché un forte dolore all’altezza della nuca lo aveva scosso e si era resa conto che non era stato il solo, in quel momento, a sbraitare oscenità in Khuzdul.
Girandosi cautamente, per non rischiare di strapparsi i capelli, aveva intravisto Frerin accovacciato dietro di sé, con una ciocca della sua folta chioma scura intrecciata ad una delle sue.
Per Mahal, Frerin! E questo si può sapere cosa starebbe a significare?”
Suo fratello, per tutta risposta, aveva afferrato la treccia incriminata e facendogliela ondeggiare davanti al viso girato per metà, aveva asserito, col candore di cui solo un bambino di quell’età poteva essere dotato “In questo modo non potranno più separarci, fratellone!”
Qualche giorno prima, infatti, Thrain aveva deciso che, almeno per un po’, Frerin andava separato da Thorin. L’affetto viscerale che il suo secondogenito provava nei confronti di suo fratello maggiore, stava minando la sua autorità di padre e di superiore perché, indipendentemente da ciò che gli venisse ordinato di fare o di non fare, Frerin sottostava a quelle regole solo ed esclusivamente se con lui c’era anche Thorin. Se suo fratello, più grande di cinque anni, si trovava da qualche altra parte per svolgere mansioni differenti da quelle che potevano essere svolte da un nanetto di appena quattro anni, lui riusciva sempre a trovare il modo di eludere la sorveglianza di balie, servitori e persino quella di Eleaìs, la loro madre; il tutto per andare alla sua ricerca.
Così, Thrain, si era visto costretto a relegarli nelle due ali opposte del palazzo, costringendoli ad orari, pasti ed attività differenti.
La cosa era andata avanti per un bel po’, ma ciò che Thrain non sapeva era che i suoi figli, all’insaputa di chiunque, avevano preso a dormire insieme la notte, nella camera di uno o dell’altro, sgattaiolando poi, alle prime luci dell’alba, ciascuno nella propria stanza.
 
Ogni passo, adesso, verso quell’intollerabile ghigno d’arroganza stampato sull’odiato volto del suo antico nemico, era un ricordo che andava ad aggiungersi a tutti gli altri, alimentando la sua audacia, dando forza alle sue gambe…stritolandogli il cuore in una morsa di nefasta sofferenza.
Il suo cervello mandava ai suoi piedi l’impulso di velocizzare i propri passi e il ricordo di Frerin si faceva vivo, trasfigurandosi in emozione, assumendo i contorni di una stanza, ad Erebor, dove per il suo diciannovesimo compleanno, una nanetta di sei anni e uno di quattordici, gli erano saltati addosso chiudendogli un bracciale sul polso, grossolanamente intagliato nel mithril. Era il dono a cui sua sorella Dìs e suo fratello Frerin avevano lavorato per più di un mese, in gran segreto, ottenendo quello che poteva forse essere uno scarso risultato alla vista, ma un valore affettivo decisamente inestimabile.
Non si era mai più separato da quel gioiello decorato da rune naniche tutte storte, incise da mani indiscutibilmente inesperte, ma che, con altrettanto indiscutibile amore, avevano inciso sulla superficie esterna i nomi di tutti e tre, in ordine di nascita, ognuno dei quali congiunto all’altro dal simbolo dell’infinito.
 
Mentre spiccava, di corsa, l’ultimo balzo verso il suo obiettivo, Thorin aveva portato Orcrist, la Fendiorchi, a levarsi fieramente sopra la sua testa. La voce, possente, gli usciva dai polmoni in un urlo furente di rabbia mentre suo fratello, di nuovo, con la schiena squarciata da un’ascia, chiudeva per sempre i suoi occhi al mondo. La sua risata, la sua allegria, il suo affetto, la semplicità del suo candore, gli zaffiri incastonati nel suo sguardo celeste e i folti capelli del colore dell’ebano…mai più; e mentre veniva come posseduto da questa consapevolezza a cui, tutte le volte, non poteva far altro che sottostare - uscendone, ogni volta, sempre un po’ più disincantato, cinico, indurito come granito - le voci dei suoi nipoti, chissà come, riuscirono a penetrare oltre la barriera di collera che lo animava, annidandosi fin dentro al luogo in cui risiede il raziocinio…
 
“ZIO!! NOOOO!!”
 
Ciononostante non si fermò. Avrebbe epurato il mondo da quella feccia una volta per tutte e lo avrebbe fatto anche per loro, per Fìli e per Kìli.
 
“THORIN!!”
 
…E sì: oramai non poteva più negare a sé stesso che avrebbe fatto di tutto pur di proteggere anche Bilbo. Avrebbe eliminato Azog anche per lui. Non avrebbe mai permesso a quel mostro di arrivare entro dieci metri dal corpo del Mezzuomo.
 
Poi, tutto, avvenne in maniera così veloce che, ironicamente, l’esatta scena di ciò che era appena successo, iniziò a ripetersi come al rallentatore davanti agli occhi di chi non aveva potuto far altro che assistere incredulo, sbigottito e impotente.
 
La follia omicida di cui Thorin era preda in quel momento, aveva fatto sì che il suo attacco fosse lanciato in un modo del tutto avventato, come quello di un giovane inesperto mosso unicamente dalla collera. Anni e anni di esperienza sul campo di battaglia e custode di una tecnica tra le più letali che i Nani ricordassero, ma aveva, nonostante tutto, abbassato la guardia dinanzi all’emblema di ciò che per lui era l’odio impersonificato.
Azog, miserabile essere senza onore, ne aveva approfittato facendo fare il lavoro sporco al suo mannaro. Con quello si era avventato contro l’odiato erede della stirpe di Durin e prima che quest’ultimo potesse calare la spada su di lui, l’aveva colpito con due violenti colpi di mazza allo sterno e alla schiena. Il mannaro, poi, aveva ghermito il suo corpo tra le fauci e, schioccando la mandibola e affondando i canini nelle sue carni, l’aveva prima squassato e poi l’aveva scaraventato a terra.
 
“Portami la sua testa…”
 
Forse – si ritrovò a pensare il capo della compagnia – sarebbe stato quello, inaspettatamente, il giorno in cui si sarebbe ricongiunto a suo fratello…
 
Non appena alle sue orecchie era giunto il suono di quella frase tanto intollerabile – portami la sua testa - l’iniziale smarrimento che l’aveva colto e il terrore che sembrava essersi impossessato della sua intera persona, portò Bilbo ad afferrare con mano salda e determinazione un coraggio che non aveva mai sospettato neanche di avere.
L’amore è composto di tante sfaccettature e Bilbo, sollecitato dalla piega degli eventi, ne sperimentò una buona parte quasi tutte insieme. Praticamente non faceva in tempo ad assimilarne una che, nel giro di poche ore, già ne saggiava un’altra.
Lanciandosi contro al mannaro appartenente al sottoposto cui Azog aveva comandato di prendere la testa di Thorin, e conficcandogli la spada nel collo; Bilbo si ritrovò a constatare che – al di là delle gambe che gli tremavano – l’amore era anche istinto. Lo stesso che, mentre fendeva l’aria di fronte a sé, dopo essersi parato davanti al corpo inerme del quasi Re Sotto la Montagna e cercando di apparire il più minaccioso possibile; gli veniva da associare a quello di una volpe che aveva visto anni prima, davanti alla propria nidiata. Un giorno, da bambino, durante una delle sue escursioni nel bosco, aveva scoperto una cucciolata di volpi appena nate dentro ad un buco cavo nel terreno. Entusiasta della cosa aveva cercato di intrufolarvi un braccio all’interno, ma tempo qualche secondo e mamma volpe, sbucata all’improvviso da chissà dove, gli si era avventata addosso. Lui, spaventato, si era ritratto immediatamente e arrancando col cuore in gola, teneva gli occhi fissi sulla neomamma che, di rimando, si era piazzata davanti all’ingresso della sua tana. Ricordò il modo in cui dal fondo della gola le uscissero versi minacciosi e gutturali mentre, come una fiera, lo fissava a sua volta, pronta a lanciarglisi nuovamente contro alla prima mossa falsa…
In quel momento Bilbo sperò con tutte le proprie forze di apparire minaccioso almeno la metà di quanto, per lui, lo fosse stata mamma volpe a suo tempo…
Ma un urlo di battaglia, all’improvviso, aveva poi riempito l’aria e la sua visuale era stata attraversata dalle figure di Dwalin, Fìli e Kìli che, armi in pugno, si avventavano contro ai loro aggressori finché, le grandi aquile richiamate dalla magia di Gandalf, erano giunte in loro aiuto; proprio nel momento in cui, in lontananza, si poteva già scorgere lo squadrone di orchi che Bilbo aveva udito poco prima della sua evasione.
Lesti e magnifici, i grandi rapaci avevano tratto in salvo ciascun componente della compagnia, cingendoli tra i propri artigli o trasportandoli sul dorso.
 
Lassù, tra le immense distese di nuvole, il cuore di Bilbo era stato attraversato da una miriade di sensazioni diverse. Era passato dalla soddisfazione impagabile nel prender atto dell’espressione sbigottita stampata sull’orrido volto di Azog mentre tutti loro si allontanavano, alla preoccupazione viscerale riguardo alle condizioni di un Thorin svenuto dal dolore fino all’emozione, unica nel suo genere, di volare sulle ali del vento. Le aquile lanciavano i loro gridi di libertà, cavalcando l’aria come le signore incontrastate dell’etere. Bilbo si era aggrappato forte al piumaggio di quella che lo trasportava, ma, dentro di sé, a dispetto di quanto avrebbe potuto pensare tempo prima, quando ancora non era incappato in nessun Nano, non provava alcuna paura. Solo un forte senso di libertà e di leggerezza che sarebbe stato totale se non fosse stato macchiato dall’angoscia che nutriva per la sorte di colui che amava.
Il paesaggio, in basso, era di una bellezza indescrivibile, ma, di picchi innevati, boschi del colore dorato dell’autunno e potenti cascate che si gettavano in gole profonde, ciò che arrivò agli occhi di Bilbo furono soltanto sprazzi di panorami che facevano da sfondo alla figura di Thorin. Eppure bastò per chiedersi, nel fondo della sua anima, come fosse possibile che al mondo esistessero individui votati a distruggere un creato così perfetto…
 
Furono lasciati sulla cima di un alto Carrock, proprio all’inizio della vasta prateria ai piedi del versante est delle Montagne Nebbiose, nel cuore delle Terre Selvagge. Il Signore delle Aquile - riferì Gandalf - non avrebbe messo a repentaglio l’incolumità dei suoi per andare oltre perché, molte delle creature che vivevano a valle, erano solite dar loro la caccia. Dopodiché, una volta ringraziati e congedati i loro salvatori, mentre Balin, in vece di Thorin, prometteva al loro capo che, se mai ne avessero avuto bisogno, il popolo di Durin avrebbe trovato il modo di sdebitarsi; lo stregone si occupò di Scudodiquercia.
Si chinò su di lui e, passatagli una mano sul viso, prese a mormorare un’antica formula magica con parole incomprensibili. I secondi che seguirono sembrarono lunghi come un’eternità. Tutti trattennero il fiato; Fìli dovette reggere suo fratello per impedirgli di gettarsi, ansioso com’era, sul corpo dello zio.
Anche per i due giovani Durin l’esperienza del volo era stata esaltante e magnifica, ma il loro entusiasmo, come quello di Bilbo, era stato irrimediabilmente smorzato dalla preoccupazione per Thorin.
 
Alla fine tutto si era risolto per il meglio: Thorin, un po’ ammaccato, aveva ripreso conoscenza e scrollandosi di dosso i nipoti che tentavano di sorreggerlo come fosse stato un invalido, si rivolse, per primo, a Bilbo. Né Fìli né Kìli se ne ebbero a male davanti a quel gesto brusco, ma anzi, con un sospiro di sollievo risero di sottecchi poiché vi riconobbero il Thorin di sempre.
 
Prima di svenire, l’ultima cosa che il capo della compagnia aveva visto, era stata l’avventatezza di Bilbo nel gettarsi sul mannaro che avrebbe dovuto ucciderlo. Poi l’intero mondo circostante s’era oscurato del buio dell’incoscienza.
Ormai, dopo tutto ciò che era successo in quel breve lasso di tempo, Thorin aveva accettato di buon grado l’amore che, dentro di sé, aveva iniziato a nutrire nei confronti del Mezzuomo. Nei cunicoli delle Montagne Nebbiose, dinanzi alla sua dichiarazione, gli aveva sbraitato che, sebbene così non dovesse essere, la reale possibilità di ricambiare il suo amore esisteva eccome; eppure, ancora non aveva trovato il modo di scusarsi per ciò che gli aveva detto prima che tutti loro finissero nella trappola degli orchi.
Lui si è perso! Fin da quando ha lasciato casa sua!...Non sarebbe mai dovuto venire, non c’è posto per lui tra noi!”
 
“Tu!” sbraitò non appena si fu rimesso  in piedi “Cosa credevi di fare?...Ti sei quasi fatto uccidere!...Non ti avevo detto che saresti stato un peso? Che non saresti sopravvissuto alle Terre Selvagge?...”
 
Cosa stava succedendo? Perché Thorin gli si rivolgeva ancora con quel tono così burbero?, come se tutto ciò che era successo nei cunicoli degli orchi l’avesse solo sognato?
Poteva essere possibile? Poteva aver battuto la testa così forte da essersi soltanto immaginato tutto quanto?
 
“…Che non c’è posto per te tra noi?...”
 
No! Non poteva accettarlo! Si rifiutava di credere che la spasmodica necessità che gli si agitava in petto e che, guidando le sue azioni, l’aveva portato a proteggere ad ogni costo quell’amore appena sbocciato; potesse essere solo il frutto di un’illusione!
 
Ma poi l’oggetto dei suoi desideri l’aveva abbracciato e…
 
“Non mi sono mai sbagliato tanto in vita mia!”
 
…esattamente come era avvenuto durante la rocambolesca fuga dal regno sotterraneo degli orchi, Bilbo si ritrovò a perdere la cognizione della realtà circostante. Qualunque cosa fosse avvenuta o fosse stata detta precedentemente a quel momento, aveva completamente perso d’importanza dinanzi al fatto – tanto tangibile da far risultare l’emozione che ne era scaturita quasi dolorosa – di essere avvolto dalle forti braccia di Thorin.
 
“...Scusa se ho dubitato di te…”
 
A stento Bilbo udì quelle parole. A stento si accorse del resto dei loro compagni che, in parte meravigliati, in parte baldanzosi, seguivano la scena lanciando versi di assenso.
Ogni sua più piccola percezione era rivolta ad imprimersi nella memoria il suo odore: quello dei suoi capelli e quello più intenso della sua pelle, al di sotto della cotta di maglia e degli strati di abiti che Thorin – il suo Thorin – aveva indosso.
Con difficoltà si accorse della fibbia che, agganciata al petto di lui per assicurarsi le armi sulle spalle, gli premeva fastidiosa sulla clavicola perché…era troppo intento a riempirsi i polmoni di quell’odore che sapeva di roccia, di pendii montagnosi sferzati dal vento.
In quell’abbraccio Bilbo stava inesorabilmente perdendo sé stesso. In quell’abbraccio stava consegnando nelle mani dell’erede di Durin il potere insindacabile di decidere della sua vita o della sua morte perché – si disse – che senso avrebbe avuto, ormai, continuare ad esistere lontano da lui?
 
Finiti gli sguardi d’approvazione e il momento di giubilo collettivo, l’abbraccio in cui Thorin stava cingendo a sé lo Hobbit non era ancora terminato. Nel velo di silenzio che era improvvisamente calato si compendiava lo sbigottimento graduale che prese a serpeggiare tra gli involontari spettatori. Fìli e Kìli si lanciarono un’occhiata furtiva che, a ben vedere, la diceva parecchia lunga su ciò che, entrambi, avessero potuto intuire dal comportamento dello zio da quando quel loro viaggio aveva fatto tappa a casa Baggins…
Thorin non era mai stato un Nano facile ad abbracci o a smancerie di qualunque tipo; tutt’altro! E non era neanche solito chiedere scusa, sebbene, in passato, ci fossero state occasioni in cui lui per primo avesse ammesso il proprio torto.
Vero era che quando ancora erano entrambi due nanetti senza peli, sia Fìli che Kìli erano soliti dormire nel suo letto, ma solo perché erano loro, in piena notte, ad intrufolarvisi furtivamente, e Thorin, la maggior parte delle volte, non aveva cuore di scacciarli, specialmente nel periodo a ridosso della scomparsa di Raìli.
Dìs, chiusa nel suo dolore, aveva lasciato la propria camera soltanto per presenziare al funerale del marito, poi vi si era barricata dentro per lunghi giorni. Thorin aveva fatto venire dall’esterno una balia che si occupasse della casa e dei suoi nipoti, in particolar modo di Fìli che, tra i due, era quello che più aveva accusato la mancanza del padre. Kìli, infatti, nel candore dei suoi due anni, non poteva recepire a fondo la gravità della situazione: sul suo volto paffuto i sorrisi non erano venuti a mancare e le lacrime che lo bagnavano erano più che altro una reazione a quelle che, da un po’ di tempo a quelle parte, sempre più spesso vedeva rigare le guance di suo fratello.
Ma, al di là delle cure e delle attenzioni che poteva elargire una persona estranea, seppur l’anziana Nana fosse stata una balia molto esperta, erano le braccia di Thorin quelle che Fìli e Kìli andavano cercando; e la porta di Dìs, ancora, rimaneva chiusa.
Poi, dopo mesi e mesi che quella situazione andava avanti, facendolo temere per la vita della sorella, Kìli aveva iniziato a chiamarlo con l’appellativo di “papà.”
Solo a quel punto, finalmente, si era deciso a mettere da parte i blandi tentativi con cui, fino ad allora, aveva cercato di convincere Dìs a mettersi a tavola tutti insieme o anche solo a prendere una boccata d’aria. Inizialmente temeva che usare la propria autorità di re e di fratello maggiore per costringerla a reagire al vuoto che la stava divorando, potesse soltanto peggiorare la situazione. Così, complice il rispetto che provava nei confronti del suo lutto e il terrore che provava dinanzi alla prospettiva di perderla, l’aveva lasciata fare.
Giorno per giorno, però, si rendeva conto di quanto quel suo dolore la stesse facendo precipitare nell’inerzia e nella depressione, trasformandola, lentamente, nello spettro di ciò che era stata un tempo: una Nana fiera e ribelle, che trasudava da ogni poro la nobile appartenenza alla stirpe regale di Durin.
Come tutti i Nani appartenenti a quella progenie infatti, anche Dìs, crescendo, aveva dimostrato di possedere un carattere forte e tenace: durante l’esilio, a soli quindici anni, aveva sottratto delle piccole asce da tiro dall’armeria – sempre se così si poteva definire un carro contenente le poche armi in esubero che, cinque anni prima, erano riusciti a salvare dalla furia del drago – e aveva preteso di ricevere anch’ella un’educazione militare.
Le era stato risposto che le armi non erano competenza delle femmine, ma lei, testarda, aveva ribattuto che neanche vagare di terra in terra, nella veste di esuli, era mai stata competenza del popolo nanico. Ciò che un tempo si dava per scontato – aveva detto – veniva plasmato e trasformato in qualcosa di diverso dall’evoluzione degli avvenimenti. Se una volta non era mai stata presa in considerazione l’idea che anche le femmine potessero essere addestrate all’uso delle armi; ebbene, la venuta di Smaug aveva cambiato molte cose e sapersi difendere, in tempi così difficili, di certo non avrebbe guastato.
Ovviamente l’ebbe vinta lei, in barba alle rimostranze di Thrain, nei suoi, ormai, rari momenti di lucidità. A quelle si aggiungevano i borbottii di disappunto di Thorin, il quale, tutto sommato, l’aveva a sua volta lasciata fare, permettendo a Frerin, l’unico membro della famiglia a dichiararsi completamente entusiasta della cosa, di occuparsi del suo addestramento.
Dìs aveva così rivelato di possedere una mira micidiale, adottando di conseguenza a proprie armi, un intero equipaggiamento da lancio, ma, benché si fosse espressa in tal senso, Thorin – stavolta appoggiato pienamente da Frerin – non le permise mai di prender parte alle varie battaglie in cui, nel loro costante peregrinare, si ritrovarono a combattere.
Ciononostante, durante i lunghi anni dell’esilio ci si sarebbe stupiti di vedere una Nana così graziosa indossare costantemente, sopra gli abiti femminili – e che continuava ad indossare solo perché su quello non le era mai riuscito di scendere a patti, né con il padre, né con i fratelli – la custodia di quattro piccole asce che poggiava sulla schiena, chiusa, davanti, da una vistosa fibbia all’altezza del seno.
Quando poi, al popolo di Durin, avevano iniziato ad aggiungersi alcuni tra i clan che da parecchie generazioni avevano scelto di vivere isolati nelle vaste lande del nord - ma ormai divenute distese di terra inospitale per il proliferare incontrollato degli orchi – era stato quel particolare, per primo, a catturare lo sguardo di Raìli. Si poteva dire che per il biondo guerriero dei Fulgifiamma – chiamati così per via del colore dorato delle loro barbe e dei loro capelli – era stato amore a prima vista, ma, al di là delle asce da tiro sulla schiena, degli occhi turchesi, dei lunghi capelli color ebano chiusi in una treccia che, ad ogni passo che Dìs faceva le ondeggiava sensualmente sui lombi; ciò che lo fece capitolare del tutto fu una peculiarità che, potenzialmente, avrebbe potuto mandarlo prematuramente al Creatore!
A notte inoltrata, in uno degli innumerevoli accampamenti che, da anni, erano ormai divenuti la loro casa, Dìs si era recata fuori dalla tenda reale con l’intenzione di esercitarsi in un piccolo spiazzo alberato, a poca distanza dalle palizzate del campo. Suo nonno e suo padre dormivano del solito sonno disturbato: una condizione, la loro, che da quando Erebor era caduta, era divenuta una costante. I fratelli, invece, con un manipolo di soldati al seguito si erano recati in avanscoperta, ad ovest, a tastare il terreno prima di condurvi il resto della popolazione; ed era già passata una settimana da quando si erano allontanati. Bande di orchi incontrollate, inoltre, erano state viste aggirarsi tra le steppe di Colle Vento, l’area dove si trovavano in quel momento, tanto che, anche loro – con tutto che si trovavano entro bastioni fortificati – s’erano dovuti difendere da un paio di attacchi notturni.
 
Contando sulla complicità delle sentinelle di guardia presso il portone d’ingresso e sugli spalti rialzati, Dìs poté dirigersi indisturbata al di fuori. D’altronde lo spiazzo che intendeva raggiungere si trovava proprio lì di fronte, in un punto in cui chiunque avrebbe potuto tenerla d’occhio. Da non sottovalutare inoltre il potere del fascino che i suoi vent’anni, i suoi modi inconsapevolmente seducenti e la sua bellezza felina esercitavano su ogni Nano presente. Potere che a volte si rivelava superiore a quello del timore di incombere nelle ire di Thorin e di Frerin.
Respirando profondamente e stirando tutti i muscoli del corpo, iniziò a lanciare le sue asce contro i tronchi degli alberi che le stavano innanzi, avvertendo l’apprensione che nutriva nei confronti dei fratelli e che le impediva di dormire, sciogliersi immediatamente.
Raìli, che era di guardia sul versante opposto degli spalti, attirato da quei rumori si diresse nel punto da cui provenivano e affacciandosi verso il basso, non poté impedire ad un ampio sorriso di allargarglisi sulle labbra.
Facendosi sostituire da un amico, abbandonò il proprio posto di guardia per raggiungerla. I soldati scampati da Erebor e che erano praticamente da sempre al servizio dei Durin, lo lasciarono dirigersi verso la principessa, pur avendolo osservato in cagnesco e tenendolo costantemente sott’occhio.
Dìs lanciò per l’ennesima volta l’ultima delle piccole asce appartenenti al proprio armamentario da tiro, ma quando fece per andarle a recuperare, un rumore alle sue spalle la fece trasalire.
Rapida come un fulmine si chinò su sé stessa, sollevò la gonna del vestito su una coscia e afferrando un pugnale fermato da una giarrettiera si torse col busto all’indietro, scagliando la lama ad un soffio dal collo del suo avversario.
Raìli, senza fare una piega, ma con tutti i muscoli del corpo pronti a schivare altri colpi se necessario, aveva afferrato al volo il pugnale, fermandolo con le dita all’altezza dell’impugnatura.
 
Avete sbagliato mira, principessa…”
 
Se solo avessi voluto, adesso saresti morto stecchito. Quello era soltanto un avvertimento.”
 
A quelle parole, i suoi begli occhi castani scesero sulla coscia nuda di lei, e Raìli fu colto da un brivido che dai lombi prese a serpeggiargli fino al cuore, annodandogli le viscere ed impedendogli di deglutire per bene. Non seppe mai dire con certezza se, quel fremito, vista la mano di Dìs – ferma sull’impugnatura di un secondo pugnale tenuto fermo dalla stessa giarrettiera, nell’interno coscia - fosse dovuto al rendersi conto di essersi trovato, effettivamente, ad un passo dalla morte o, piuttosto, alla provocante sensualità dell’immagine che aveva di fronte.
Forse - si disse più in là nel tempo – per entrambe le cose insieme perché, la bella figlia di Thrain, colei che anni dopo era diventata sua moglie, era esattamente un concentrato scoppiettante di pericolo e sensualità che lui aveva iniziato ad amare follemente a partire da quella notte stessa.
 
Fìli e Kìli erano stati messi al mondo da una madre che, una volta, per difenderli da un agguato di orchi solitari nei boschi dell’Ered Luin, sulle Montagne Azzurre, aveva steso da sola sei orchi tutti insieme…
 
Era facile imbattersi, in quel periodo, in bande di quei disgustosi esseri che non facevano capo a nessuno e che come cani sciolti razziavano in lungo e in largo tutto ciò che trovavano.
La maggior parte dei Nani si trovava impegnata al fronte, nell’ennesima battaglia che, dalla caduta di Erebor, il loro popolo si era ritrovato ad affrontare; e tra questi erano presenti sia Thorin che suo marito Raìli.
Durante il giorno, Kìli - che all’epoca dei fatti ancora non aveva compiuto neanche un anno - aveva manifestato qualche linea di febbre, ma durante la notte, questa si era alzata di parecchio: troppo perché un nanetto di quell’età potesse uscirne indenne senza cure.
A Dìs occorreva una medicina che, suo malgrado, svuotando i cassetti di tutta la casa e buttandone all’aria il contenuto, si era resa conto di non avere. La sua unica speranza era correre in paese, da Oìn, ma per farlo doveva attraversare una parte di bosco. Il problema, però, non consisteva tanto in questo – per i suoi bambini sarebbe stata capace di passare attraverso il fuoco di Smaug se fosse stato necessario – quanto nella consapevolezza di non poterli lasciare soli e incustoditi visti i tempi che correvano. Che li avesse portati con sé o li avesse lasciati tra le quattro mura di casa, sia Fìli che Kìli correvano un grave pericolo: tanto valeva – si disse – portarseli dietro, ché, se proprio il pericolo avesse deciso di coglierli, almeno ci sarebbe stata lei a far loro da scudo.
Quindi avvolse Kìli con una pelliccia strappata via dal bordo di una delle giubbe di suo marito e se lo assicurò al petto fermandolo con delle fasce che si legò attorno al torace. Prese le proprie armi, le asce e i coltelli da lancio, più una spada forgiata apposta per lei – più piccola rispetto alla stazza delle tipiche lame naniche – fermandosela al fianco. Infilò il cappotto a Fìli e prendendolo per mano uscì di casa.
A circa metà del tragitto, dopo un quarto d’ora che camminava spedita come un’indemoniata – e prendendosi, per questo, anche Fìli in braccio – avvertì rumori di passi avanzare parallelamente a lei, nella stessa direzione.
Kìli scottava, nonostante il freddo pungente. Chiunque fosse stato, avrebbe dovuto agire in fretta; e chiunque fosse stato – si disse – di certo non aveva idea di quanto pericolosa possa diventare una mamma quando in gioco c’è l’incolumità dei suoi bambini.
 
Rallentando l’andatura e facendosi tutto d’un tratto guardinga, la prima cosa che fece fu individuare il grande tronco di un albero affinché potesse depositarvi davanti i suoi piccoli. Lei, a sua volta, si sarebbe piazzata davanti a loro cosicché entrambi potessero avere fronte e spalle protette.
Quando mise Fìli a terra e gli consegnò Kìli tra le braccia gli disse che la mamma doveva sbrigare un lavoro di coltello – come quando la vedeva affilare le sue asce e scagliarle contro i tronchi degli alberi – e che, nel frattempo, lui avrebbe dovuto prendersi cura del suo fratellino. “Per nessuna ragione al mondo dovrai lasciarlo. La mamma si fida di te e sa che sei un nanetto forte e coraggioso. Non piangere e non avere paura, tesoro mio: qualunque cosa vedrai, sappi che la mamma è più forte.”
 
I passi, adesso, erano più vicini. Dìs, con una mano dietro alla schiena, ferma su una delle asce da tiro, attendeva pronta all’attacco.
 
Gli orchi non si fecero attendere: il primo del gruppo, sbucato fuori all’improvviso dalla boscaglia davanti a lei, finì stecchito a terra con un’ascia piantata in mezzo agli occhi. I suoi compagni balzarono nella radura circostante tutti assieme, ma prima ancora che i due più esterni, a destra e a sinistra, potessero capire di stare stramazzando al suolo, si beccarono due coltelli in gola, contemporaneamente. Ne rimanevano tre che, ancor più avvelenati di rabbia, si gettarono su di lei in simultanea. Dìs afferrò due delle tre asce da tiro che gli erano rimaste sulla schiena e con quelle ingaggiò un corpo a corpo stando ben attenta a rimanere davanti ai suoi bambini. Gettando una veloce occhiata dietro di sé, si sentì molto fiera di Fìli che, in quel momento, stringendo convulsamente a sé il fratello, seguiva la scena ad occhi sgranati, lanciando di tanto in tanto qualche gridolino, ma, come s’era fatta promettere, senza lasciarsi andare ad alcun pianto.
Chinandosi e volteggiando su sé stessa, piantò una delle asce nella pancia di uno dei suoi tre avversari, uccidendolo all’istante; con l’altra riuscì a ferirne gravemente un secondo, aprendogli uno squarcio sul fianco. L’ultimo la buttò a terra e montandole addosso cercò di infilarle un rozzo coltello nel collo. Lei però, prima di cadere, aveva prontamente estratto la spada dal fodero e con quella, lama contro lama, adesso cercava di respingere quel sudicio mostro lontano da sé.
La situazione stava precipitando rovinosamente, in particolare quando si accorse, con la coda dell’occhio, che l’orco ferito si stava trascinando verso Fìli e Kìli…
Colta dal panico, impresse nelle braccia tutta la forza che le era rimasta, ma quell’essere miserabile aveva indiscutibilmente più forza di lei. Con un ghigno già trionfante la fissava con occhi simili a pozzi senza fondo, investendola con zaffate dell’odore schifoso che emanava.
Poi, improvvisamente, una pietra gli atterrò dritta sulla tempia e fu proprio quello a decretarne la fine perché, buttandosi all’indietro per portare le mani a tastarsi la ferita che lì gli si era aperta, permise a Dìs di trinciargli di netto la testa dal collo, con un unico, furente colpo di spada.
Fìli, appena dietro di loro, aveva un braccio che ancora stringeva a sé il fratello, mentre l’altro ancora si trovava alzato a mezz’aria, dopo aver raccolto e scagliato con quanta più forza aveva in corpo, quel sasso contro il mostro che stava per fare del male alla sua mamma; ma l’orco ferito, intanto, gli era arrivato a due passi dalla schiena senza che lui se ne rendesse conto…
Ebbe però solo il tempo di alzare le braccia su di loro che, un rozzo coltello forgiato dagli stessi orchi – lo stesso con cui il suo compare aveva tentato di uccidere Dìs e che lei aveva immediatamente raccolto dalle sordide mani che ancora si muovevano a scatti per le scariche del sistema nervoso trinciato di netto – gli si conficcò in profondità nel cranio deforme.
 
Quando il silenzio calò nuovamente nella radura, rotto soltanto dai suoi respiri accelerati, Dìs si riprese immediatamente in braccio entrambi i suoi piccoli e senza darsi un attimo di tregua, raccolse le proprie armi e continuò a correre il più velocemente possibile verso il paese. Nel tragitto continuò a tastare febbrilmente la fronte di Kìli e non mancò, nel contempo, di elogiare il suo coraggiosissimo primogenito.
Al sangue nero che le imbrattava i vestiti, al grave pericolo che tutti loro avevano corso, a quello che sarebbe potuto succedere se Fìli non avesse avuto l’ardire e la prontezza di aiutarla…a suo fratello Frerin che, uscito per andare a combattere contro gli orchi non era più tornato; non si fermò a pensare, almeno non in quel momento perché, se l’avesse fatto – si diceva – le gambe le avrebbero ceduto.
 
Nella memoria di Fìli – benché al tempo avesse solo cinque anni - quel giorno rimase impresso in maniera indelebile non solo per il gran spavento che si era preso, ma soprattutto per la straordinaria prodezza della propria genitrice.
La passione per le lame che sviluppò in seguito – e anche quella di averne indosso un numero decisamente considerevole – l’aveva senza dubbio ereditata dalla madre, così come Kìli doveva indiscutibilmente a lei la mira infallibile che si ritrovava.
 
Non solo un miscuglio di pericolo e sensualità dunque, ma anche di grande coraggio e formidabile tenacia. Questo era ciò che soleva essere Dìs della stirpe di Durin, ma, di quella Nana, da quando il suo azyungel se n’era andato tra i caduti valorosi dell’ennesima battaglia per porre un freno – se non una fine – alle persecuzioni degli orchi, era rimasto soltanto un lontano riflesso sbiadito.
 
I sette anni che aveva a quel tempo permettevano a Fìli di ricordarsi a sufficienza parecchi dei fatti che vide susseguirsi in casa propria durante quel periodo e, sopra ogni altra cosa, ricordava del cambio d’atteggiamento che, di punto in bianco, Thorin aveva avuto nei confronti della sorella.
Per lunghe settimane e poi per mesi e mesi, il primogenito di Thrain era stato parecchio tollerante e comprensivo nei confronti di Dìs, lasciandola in pace così come lei mormorava di fare. Mormorava sì, perché “mormorare”, in quel caso, era esattamente il verbo giusto da usare. Dìs non supplicava, non strepitava, non inveiva, non stringeva i pugni urlando. Dìs mormorava, sussurrava, bisbigliava con gli occhi spenti e lo sguardo perso nel vuoto di lasciarla stare e - rivolta a Thorin, ma senza vederlo realmente - di tornare ad occuparsi delle proprie incombenze, qualunque esse fossero state.
Lui, fin dal giorno in cui le aveva portato la tremenda notizia della morte di Raìli, non aveva fatto altro che assecondare il suo dolore fino a quando, una sera, entrando per l’ennesima volta nella sua stanza, anziché uscirne a testa bassa e con un espressione di profondo sconforto sul viso, aveva iniziato ad urlare…
 
Le mie incombenze, dici? Vuoi sapere quali sono le mie incombenze al momento, oltre a quelle che da mesi mi vedono impegnato a spiegare a Fìli come mai, oltre ad un padre, lui e suo fratello non hanno più neanche una madre? …Eccotele qui, sorella, le mie incombenze del momento, visto che da quando ti sei seppellita qui dentro sei diventata troppo sorda e cieca – troppo egoista! - per curarti di qualcos’altro che non sia il tuo dolore! Kìli – te lo ricordi ancora il tuo Kìli? – ha iniziato a confondermi con suo padre, ma te lo dico fin da adesso: non sarò io a spiegargli che non è così! Pretendo che sia tu a farlo e bada bene, Dìs, che se le mie parole di fratello maggiore non basteranno, allora te lo ordinerò in qualità di tuo re!”
 
Piazzatosi davanti alla porta della camera da letto della madre, Fìli ricordava di come per un attimo, dopo quella sfuriata, l’aria dell’intera casa si fosse riempita di un silenzio carico di tensione. Poi, a poco a poco, aveva iniziato ad avvertire dei singhiozzi farsi sempre più intensi con l’inesorabile passare dei secondi...
Lui, in apprensione, si era accostato più vicino all’uscio socchiuso e sbirciando all’interno aveva visto la figura spettrale di sua madre, tendere improvvisamente le braccia verso Thorin e trasformare il suo pianto in urla disperate, contro al petto di lui, una volta che lui l’aveva raggiunta e avvolta tra le proprie braccia…
 
Dacché era venuto al mondo, Fìli non ricordava di aver mai sentito sua madre lasciarsi andare alla disperazione in quel modo, nemmeno quando tra i soldati rientranti dall’ultima battaglia né lui, né lei avevano scorto la figura di Raìli, e nemmeno pochi giorni dopo, in occasione del suo funerale.
Adesso, dopo mesi e mesi di una totale, apatica indolenza; mesi in cui sua madre sembrava trascinarsi avanti a stento, per inerzia, aveva sentito il furore della vita tornare a rianimarla, benché quell’impeto si stesse manifestando sotto forma di un lacerante dolore.
 
Dopo quella sera le cose avevano iniziato a migliorare. Tutti loro avevano lasciato quella casa che, alla luce dei ricordi, si stava inesorabilmente trasformando in un santuario e si erano trasferiti da Thorin. Sua madre, a poco a poco, aveva ripreso ad occuparsi di lui e di suo fratello Kìli, fino a quando, infine, aveva trovato il coraggio di uscire di nuovo all’aria aperta…
Non si illuse mai, Fìli, che quel qualcosa che era andato perso, negli occhi azzurri di Dìs, potesse mai tornare indietro. Sapeva, nonostante i suoi sette anni, che di qualunque cosa si fosse trattata era stata chiusa per sempre assieme a suo padre, sotto la pietra che ne portava scolpita l’effige affinché la sua immagine potesse pervenire intatta e in gloria fino alla fine dei tempi.
 
Il primo periodo, chiaramente, era stato il più complicato da affrontare: se non era accompagnata da Thorin, Dìs non riusciva neanche a mettere il naso fuori dalla porta di casa. Con suo fratello accanto, invece, si sentiva più forte e, d’altronde, costantemente aggrappata al suo braccio, Thorin la lasciava fare di buon grado.
 
A vederli così vicini e affiatati, a Fìli non poté non tornare in mente un episodio - accaduto poco tempo prima che le lame di due orchi decidessero di strappargli via suo padre – in cui aveva chiesto a sua madre come mai lo zio Thorin fosse così scorbutico, taciturno e fondamentalmente poco bendisposto nei confronti dei baci e degli abbracci.
Sua madre, prima di rispondergli, aveva sorriso con uno di quei sorrisi che appaiono sulle labbra quando, alla mente, si richiamano ricordi malinconici che nulla hanno a che vedere con una gioia o un’allegria del momento quanto, piuttosto, con una gioia o un’allegria destinate a non tornare mai più.
Andandosi a cercare, senza neanche accorgersene, la treccia nascosta dietro la nuca – quella che Fìli sapeva essere chiusa da uno dei fermagli appartenuti allo zio Frerin; lo zio che né lui, né Kìli avevano mai conosciuto e in onore del quale il suo nome iniziava con la stessa iniziale – sua madre iniziò a raccontargli di un tempo in cui si sarebbe tanto stupito di vedere lo zio Thorin molto diverso da come era adesso.
 
Sebbene sia vero che tuo zio Thorin abbia sempre avuto un’indole marcatamente malinconica, è altrettanto vero che è esistito un tempo in cui dare o ricevere un abbraccio non gli rimaneva così difficile. Tuo zio Frerin è sempre stato quello più solare dei tre e non era raro che il suo carattere allegro riuscisse a trascinare e a coinvolgere anche nelle situazioni più impensate la compostezza fatta Nano che è sempre stato nostro fratello maggiore!” Per un attimo, mentre raccontava, Fìli poté vedere lo sguardo di sua madre perdersi nel tempo della sua infanzia e riempirsi di immagini di luoghi che lui non aveva mai visto. Poi, continuando a passarsi tra le dita la treccia con il fermaglio che era stato di Frerin, Dìs riprese come se nulla fosse “A quel tempo, le sue labbra, erano più inclini a sorridere…a quel tempo, tuo zio, non aveva tutti gli affanni che ha ora. La caduta di Erebor, per lui, non ha rappresentato soltanto un trono usurpato e la scomparsa atroce, tra indicibili sofferenze, di parenti e amici. Quel giorno, per Thorin, ha significato soprattutto la perdita della propria fanciullezza. Da un giorno all’altro si è ritrovato a dover crescere in fretta…troppo in fretta, e a rinunciare a tutto ciò che la giovinezza comporta…ma quando poi tuo zio Frerin gli è spirato tra le braccia…” A quel punto Dìs si era interrotta. Aveva chiuso gli occhi per ricacciare indietro le lacrime e si era stretta Fìli al petto un po’ più forte. Lui allora le aveva accarezzato il viso e, come per indurla ad aprirli, con la manina si era soffermato proprio su di essi…
 
Se raccontare ti rende triste: non ti preoccupare, mamma, ché io mica voglio saperlo per forza!”
 
Lei allora aveva sorriso e posandogli un bacio tra i soffici capelli biondi aveva detto “Sei ancora troppo piccolo per capire in pieno quello che sto cercando di dirti, amore mio…per adesso sappi solo che se lo zio Thorin si comporta come un grande orso irascibile non è di certo perché sia cattivo. Lo zio, anzi, vuole molto bene sia a te che al tuo fratellino Kìli! Di questo non devi dubitare mai.”
 
Era vero che, data la tenera età, di tutto quel discorso Fìli non ci aveva capito granché, eppure, nonostante l’ingenuità dei suoi anni, fu forse proprio quella a fargli centrare sin da subito gran parte del nocciolo della questione “se mi portassero via Kee, anch’io sarei molto triste…sai, mamma, che lo zio Thorin ha proprio ragione! Neanch’io vorrei più abbracciare o baciare nessuno!”
 
Molti inverni e molte primavere si erano susseguiti da quella conversazione con sua madre e crescendo, Fìli aveva potuto infondere nuova linfa e una consapevolezza indubbiamente più marcata all’affermazione che aveva fatto a quel tempo.
Non credeva che il tipo di rapporto esistito tra Thorin e Frerin potesse mai aver varcato, come per lui e Kìli, i confini del rapporto fraterno; ciononostante anche solo immaginare di vedersi morire il proprio fratello tra le braccia, era qualcosa che gli riempiva il cuore di strazio…uno strazio al quale, lui personalmente, non sarebbe mai stato in grado di sopravvivere.
Suo zio e sua madre lo avevano fatto, ma, se pur era vero che Dìs era sopravvissuta alla perdita del suo azyungel per amore dei suoi figli, Thorin, da quanto ne sapeva, il proprio azyungel non l’aveva mai trovato.
Sopravvivere al dolore, per lui, era stata più che altro una responsabilità che aveva nei confronti di ciò che era rimasto del popolo di Durin; responsabilità che il destino gli aveva imposto già a partire dal grembo materno, nel momento in cui il suo stesso concepimento era stato designato con una corona sul capo.
 
A volte – si chiedeva Fìli – ora che non solo sapeva di essere lui stesso il secondo in successione all’eredità del trono, ma che sapeva, soprattutto, che cosa significasse; non poteva fare a meno di domandarsi se sarebbe mai stato in grado anche solo di eguagliare suo zio Thorin.
Crescendo al suo fianco, sotto la sua ala protettiva, sia lui che Kìli avevano sviluppato nei suoi confronti un amore viscerale, come e quanto avrebbero potuto fare dei figli devoti e dei sudditi fedeli. Ma lui, in particolare, guardava a quel Nano dal portamento maestoso e dall’animo apparentemente imperturbabile, come ad una guida, un esempio da prendere a modello di vita.
Sin da quando aveva acquisito giudizio, una volta lasciatisi gli anni spensierati dell’infanzia alle spalle, aveva cercato di comportarsi in maniera tale da renderlo fiero di lui. Abile con le armi, capace negli studi, di mente perspicace e di animo nobile, eppure…con un enorme segreto a gravargli sulla coscienza. Il rapporto incestuoso e clandestino che condivideva con Kìli, da anni, ormai, non era più materia che né l’uno, né l’altro sottoponessero ancora a scrupoli morali…e anzi, a ben vedere, Kìli non l’aveva neanche mai fatto! Ciononostante – al di là dell’aver sempre sospettato che in realtà, suo zio, la sapesse molto più lunga di quanto aveva sempre dato ad intendere - era proprio il fatto di tenergli nascosto un segreto di tale portata che, a suo modo di vedere le cose - un modo che secondo Kìli a volte rasentava quasi il fanatismo tanto era scrupoloso - era come un’onta sulla propria condotta perché gli sembrava di ingannarlo. Inoltre, più d’ogni altra cosa, se per un qualunque motivo il suo Kee, il suo azyungel gli fosse mai stato strappato via, non ci sarebbero stati guida, regno o responsabilità che avrebbero mai potuto giustificare la sua sopravvivenza a un tale dolore.
Fìli sapeva che se mai un giorno fosse arrivato a sedersi sul trono di Erebor, sarebbe stato un re più vulnerabile di altri perché, seppur da una parte il suo amore verso Kìli aveva sempre rappresentato una grande fonte di forza, dall’altra rimaneva il suo più grande punto debole. E pur tuttavia per niente al mondo vi avrebbe mai rinunciato: piuttosto – e sapeva che per Kìli valeva esattamente la stessa cosa – avrebbe preferito gettarsi vivo tra le fiamme di Smaug!
 
Chissà se anche per Thorin le cose avrebbero potuto trovare un epilogo simile al loro se soltanto avesse avuto affianco il proprio azyungel durante la caduta di Erebor? Chissà come avrebbe reagito se malauguratamente gli fosse stato strappato via? Sarebbe riuscito comunque a guidare il popolo attraverso i duri anni dell’esilio?
 
Domande, quelle di Fìli, destinate a non trovare mai risposta: cambiate le circostanze, gli epiloghi potevano essere innumerevoli e tutti diversi tra di loro.
La verità – si disse - era che ognuno doveva fare la propria parte nei tempi e nelle circostanze stabiliti dal caso e nelle modalità stabilite dal proprio animo e dalle proprie capacità. Nessuno al mondo poteva costituire un’eccezione e per quanto riguardava Thorin, Fìli considerò a quel punto che doveva farsi bastare la storia che conosceva: quella di uno degli eredi di Durin che mai più – escludendo quella volta in cui aveva solo sette anni - si permise di biasimare per la sua nota e apparente avversione nei confronti degli abbracci.
 
Vero era che dopo la scomparsa di Raìli, per necessità, suo zio si era un po’ ammorbidito in quel senso, ritrovando il piacere di ricevere e di scambiare gesti affettuosi con sua sorella e coi suoi nipoti. Al loro bisogno di premure, Thorin aveva risposto adeguandosi alle circostanze, ma i suoi abbracci, i suoi baci, le sue parole di incoraggiamento e di conforto, spesso non uscivano dalle pareti di casa; eccezion fatta per il primo periodo a ridosso della morte di suo cognato.
 
Adesso, vederlo elargire nei confronti di Bilbo quel lungo abbraccio che sembrava non voler trovare una conclusione, per di più di fronte ad un pubblico così numericamente ben nutrito, era quanto di più surreale, in ottantadue anni, Fìli si fosse mai imbattuto.
Kìli, al suo fianco, pareva pensarla esattamente nello stesso modo…
 
Possibile che?...
 
E sì che lo zio Thorin aveva iniziato a comportarsi in maniera strana proprio da quando aveva messo piede nella Contea!, e per la precisione: oltre la soglia di casa Baggins!...
 
A stroncare le perplessità dei due giovani Durin, tutto ad un tratto, fu lo sciogliersi improvviso, quasi brusco di quell’abbraccio.
Come se nulla fosse, Thorin diede improvvisamente le spalle al Mezzuomo e raccolte le proprie armi s’avviò giù per la scalinata del Carrock – entrambi costruiti, come vennero a sapere da Gandalf, da un certo Beorn – imperando al resto dei compagni di fare lo stesso.
Poi si fermò, come se si fosse accorto solo in quell’istante che nel suo equipaggiamento mancava qualcosa “dov’è il mio scudo?” sbraitò.
 
“Ti si è sfilato dal braccio quando una delle grandi aquile ti ha avvolto tra i propri artigli” si fece avanti Dwalin “mi dispiace, cugino.”
 
“Vorrà dire che lo prenderò come un auspicio: io non sarò più soltanto Scudodiquercia.”
 
“Penso di poter parlare a nome di tutti, Thorin, quando dico che per ognuno dei presenti tu sei sempre stato molto più che questo” intervenne Balin “la presenza o l’assenza di un trono su cui sederti non cambia il fatto che tu sia sempre stato il nostro re!”
 
Ciascuno dei Nani assentì energicamente a quelle parole e Thorin li guardò riservando loro una sincera riconoscenza. Non sembrava affatto curarsi di aver perso un cimelio che per così tanto tempo aveva caratterizzato la sua persona, talmente tanto da divenire una parte integrante della sua identità. A ben vedere, invece, quelli più dispiaciuti da tale perdita parevano essere Fìli e Kìli che, attorno a quello scudo, avevano campeggiato orgogliosi molte delle loro battaglie immaginarie, durante i lunghi pomeriggi di gioco negli anni dell’infanzia.
Ma quel che era fatto, era fatto e piangere sul latte versato sarebbe stato del tutto inutile. Piuttosto - si dissero – avrebbero dovuto rendere grazie a Mahal per essere ancora tutti interi!
 
Bilbo, dopo Gandalf, fu l’ultimo a seguire i compagni. S’avviò giù per le scale ancora piacevolmente stordito dalle sensazioni inebrianti dell’abbraccio di Thorin e con, su un angolo delle labbra, un mezzo sorriso inebetito che proprio non voleva saperne di andarsene.
 
Poco oltre il Carrock scorreva l’Iridato, uno degli affluenti del grande fiume Anduin.
Unanimemente i Nani decisero che una breve sosta per rilassarsi potevano anche concedersela e che, nonostante i primi freddi autunnali, un bagno rigenerante nel fiume sarebbe stato ottimale per scrollarsi via di dosso la puzza dell’orribile tugurio dal quale erano scampati.
Mentre Gandalf si metteva di guardia accendendosi la pipa e mettendosi seduto con la schiena contro un masso lì vicino, i Nani si toglievano armi e vestiti di dosso per tuffarsi nelle acque cristalline del fiume.
Tutti tranne uno…
Bilbo pensava che anche per lui ritemprarsi nell’acqua assieme al resto dei suoi compagni sarebbe stato alquanto piacevole e stava proprio per accingersi a farlo quando, improvvisamente, si sentì chiamare da Thorin…
 
“Vieni un attimo con me Mastro Scassinatore, io e te dobbiamo parlare…”
 
 
 
  
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