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Autore: Il Pavone e la Piantana    14/01/2015    2 recensioni
Junior e Willow sono i figli di una nuova Panem, nata sulle ceneri dei caduti e sulle cicatrici di una libertà pagata con il sangue. Sono i figli della rinascita e del dolore, della promessa di un nuovo futuro e dei fantasmi del passato, spesso talmente oscuri da adombrare perfino il giallo brillante della speranza.
«Credevo fosse normale...» Dico, in un sussurro. Mi sembra brutto dirlo a voce troppo alta, come se lo rendesse più reale.
«Ma è normale. Esattamente come te». Risponde, fredda, con un'espressione seria sul viso. Perché io sono come lei, sono il figlio di eroi di guerra che portano sulle loro spalle i dolori del passato, rendendo le nostre vite più difficili di quelle di chiunque altro.
[…]
Mi allungo nell'erba, strofinando lente le braccia lungo i fianchi, fingendo di essere di nuovo una bambina che disegna con il proprio calore una ghiandaia nella neve fresca. Ma non c'è neve da raccogliere, qui. Solo cocci, gusci vuoti di conchiglie e un listello di legno che ormai suona solo note stonate.

{Fa parte della serie Colors. || Fanfiction fortemente psicologica che tratta in modo esplicito alcune patologie psichiche}
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bimba Mellark, Bimbo Cresta-Odair, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Colors.'
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XV.




«Devo ucciderlo per te?» Rye guarda Junior trascinare le gemelle scalcianti fino al portico, strizzando gli occhi in due fessure.
La determinazione con cui lo sibila fa così paura che se fossi in Junior cambierei immediatamente nome e indirizzo, ma la sua premura mi commuove.
«Facciamo la prossima volta,» sorrido, scompigliandogli i ricci biondi «ma grazie per il pensiero.»
Rye si stringe nelle spalle, mortificato dall’omicidio sfumato sotto i suoi denti, precedendomi in casa.
Junior resta impalato sulla soglia. Ha ricominciato a sudare freddo e si studia i piedi.
Evidentemente non trova neanche il coraggio di dirmi ciò che ho – finalmente – capito da sola.
Ho la forte tentazione di richiamare Rye per dirgli che ucciderlo forse no, ma ferirlo gravemente sì può fare.
«Non entri?» mi sforzo di suonare neutra, posando la mano sulla maniglia per nasconderne il tremito.
«Devo passare a casa.» Incrocia le braccia al petto, cupo, senza smettere di fissarsi le scarpe con fastidioso interesse.
«Allora ciao.» Sbatto la porta così violentemente che mi aspetto di vederla cadere dai cardini. I vetri e i sonagli di conchiglie tintinnano e vibrano per un tempo che sembra infinito.
Spero di avertela data sugli alluci.
Mi strofino col bagnoschiuma finché la pelle non mi tira, bruciata dallo sfregamento. Sotto le unghie mi rimane un sottile strato di sangue e epitelio, che gratto via fino a farle sanguinare di più. I mie vestiti diventano cartavetrata, sfregiandomi le gambe e le spalle ad ogni movimento.
Per rendere ancora più memorabile questa bellissima giornata, l’espressione di zia Johanna, durante il pranzo, sottintende un enorme cartello retroilluminato con su scritto, a caratteri cubitali: io ve lo avevo detto, dementi.
Fortunatamente ha pietà della mia faccia da cucciolo abbandonato e non si pronuncia, lasciando parlare i suoi eloquenti occhi scuri.
Avrei solo voglia di raggomitolarmi nella profondità degli abissi e sparire per sempre, ma non posso: ci sono i piatti da lavare e le gemelle da tenere impegnate e Rye da staccare dall’affila coltelli e la mia vita, che mi fa improvvisamente schifo.
Sono così furiosa con me stessa da sbattere lentamente, ripetutamente la testa contro la parete, sperando di svenirne, primo o poi.
O almeno diventare un po’ meno illusa e deficiente, nel frattempo.
Tump. Tump. Tump.
«Non funziona.» Le mani ruvide di zia Jo mi staccano dal muro per le spalle, conducendomi seduta sul divano «Sono ventisette anni che ci provo. Parlo per esperienza.» Mi scosta i capelli dalla fronte, ghignando. La testa, senza il contatto ritmico col muro, mi pulsa e mi batte come se bussassero alla mia scatola cranica. «E se vuoi rompertela davvero devi sbattere più forte. Cosa sono quelle testatine da pappamolle?»
Ho la visione del mio cervello spiaccicato sotto le maglie della rete di zia Annie, insieme a pezzi del mio cuore e della mia dignità, e per qualche insano motivo lo trovo divertente.
Tanto da sorriderne. In modo così ebete che sento gli angoli della mia bocca incastrarsi ai padiglioni auricolari.
«Ma se lo fai per diventare demente funziona,» Johanna alza gli occhi al cielo, esasperata «peccato che per quello arrivi tardi.» Faccio per alzarmi, ma i suoi palmi bloccano le mie spalle. I suoi calli mi bruciano la pelle ustionata dalla spugna. «Stai con Annie, porto io i mostri al mare. Sei così idiota da tuffarti di testa da uno scoglio, tu. Ridendo.»
Impreca su come io sia – testuali parole – “peggio di quella tardona della madre” fino alla soglia, combattendo per strappare le mani di Rye dai cardini.
Tanto per ribadire il concetto che a lui il mare fa schifo, se qualcuno avesse dubbi in proposito.
Il problema è che a mio fratello fa schifo più o meno tutto. Tranne il suo arco, mia madre – solo nei giorni buoni, in quelli brutti anche lei – e i suoi canini, possibilmente stretti intorno alle dita di qualcuno. Se quel qualcuno è Junior anche meglio.
Riesco perfino a far sorridere la zia Annie, con questo riassunto delle passioni di Rye il sanguinario, raggomitolata sul dondolo ad annodare fazzoletti.
«Sei bella, bambina.» Lascio che le sue mani di lacrime e tempesta mi pettinino i capelli. Chiede se può intrecciarli e la lascio fare, seduta sul legno del portico, perché la cosa sembra renderla felice, e la sua felicità è rara come neve, qui. «Non mi sorprende che ti ami.»
Non ribatto. Non ho il coraggio di cogliere questa neve appena posata per lasciarla sciogliere e sgocciolare via, acqua sporca e inutile, fra le mie dita maldestre.
Non posso dirle che andrò via, presto, e qualsiasi cosa mi fossi illusa di avere tornerà al suo posto nel mare.
Le dita di vetro di Annie giocano fra le mie ciocche, combattendo per incastrarvi nastri e conchiglie. Sono il suo uccellino d’oro, adesso, e aspetto che si lasci distrarre dal mio canto.
«Io non ero bella come te, alla tua età.» Sospira, carezzandomi una spalla «La notte mi rubava gli occhi e la lingua e i miei capelli erano fuoco, impossibili da intrecciare di conchiglie. Ma ero una sirena, bambina, e il dio del mare mi amava e cantava per me come cantano gli uccelli.»
«Cosa è successo agli uccelli, Junior?»
«Mio padre non è più tornato.» Accomoda la mia testa sulla sua spalla in un sospiro. «E sono morti tutti.»

«Che fai ai capelli di Willow, mamma?» I polsi di zia Annie si tendono e io scatto al suono della sua voce.
È immobile, impalato a qualche passo da noi, intento a giocare coi polsini risvoltati della camicia. Il tessuto sottile gli fascia le spalle e la vita stretta, ed è così bello che fa male, il pensiero di essermi illusa che potesse essere mio.
Ed è stranamente elegante, senza le sue magliette mangiate dal sale.
Dovrà uscire con qualche bionda.
Gli dei del mare amano le sirene. E io sono solo una mocciosa.
L’idea mi torce le budella e mi riempie la bocca e i polmoni d’acqua salata.
Annego in quest’acquario di dolore, cercando una bolla d’aria per non farmi esplodere i polmoni.
Zia Annie mormora il nome del suo dio del mare, senza lasciare i miei capelli, e siamo tutti così rotti e rigidi e pieni di crepe e screpolature, che mi domando quanto a lungo i nostri cocci rimarranno insieme.
«Sono solo Junior, mamma.» Sospira, e un’altra delle luci che aveva acceso si spegne. «Sono venuto a prendere Willow.»
Mi lascio prendere per mano senza la forza di protestare, ansiosa di sfuggire all’aura di appiccicosa infelicità che ha ricoperto perfino il cielo di una trappola di putrescenti alghe verdi.
Realizzo solo dopo qualche metro, percorso in una sorta di trance lungo il viale del villaggio dei vincitori, la presenza delle dita fredde di Junior intorno alle mie.
Che mi tiene per mano in pubblico.
Che mi trascina per mano in pubblico.
Punto i piedi, cercando di rimettere ordine nel marasma della mia testa.
Dopo qualche passo Junior si rende conto che la sua bambola di pezza si è animata e si decide a fermarsi. E voltarsi.
Mi guarda, interrogativo, facendo scorrere l’indice tra il pomo d’Adamo e il colletto.
Deve odiarla, quella camicia.
E ha ricominciato a sudare freddo.
«Ti sei messo elegante per lasciarmi?» La voce mi viene fuori più lamentosa di come vorrei.
In una certa ottica la cosa dovrebbe lusingarmi. Forse.
Peccato che abbia solo voglia di piangere.
Junior mette in scena il solito copione: sguardo da cane bastonato, spalle curve, occhi allacciati alle scarpe. Credo di poter prevedere la sequenza senza neppure guardarlo, ormai.
«Volevo portarti a cena…» Mormora, senza smettere di torturarsi il colletto.
Riformulo la domanda, accucciandomi con le mani sulle orecchie per proteggermi dalla detonazione.
«Volevi portarmi a cena per lasciarmi?» Il mio belato si frantuma in un piccolo singhiozzo, ferendomi il palato.
Stringo forte le palpebre e i denti, sperando di resistere all’onda d’urto.
«No.» Lo strazio palpabile nella sua voce mi spinge ad aprire un occhio, lentamente. Poi l’altro. È più verdognolo di stamattina e una goccia di sudore scivola dalle sue sopracciglia al dorso del suo naso. Non ha l’aria di sentirsi bene. Affatto.
«Junior…» gli tocco la fronte. È freddo e gelido insieme. E suda. «Ti senti bene?»
«No.» Scosta delicatamente il mio palmo per asciugarsi la fronte. «No. Non sto bene per niente.» Cerca di nuovo la mia mano e io stringo la sua d’istinto. Intreccia le dita alle mie tanto disperatamente da farmi male. Il mio cuore perde un battito.
Due.
Dita di ghiaccio mi avvolgono la nuca nel tepore serale. Rabbrividisco, terrorizzata all’idea che abbia qualcosa di serio che non va.
«Possiamo parlarne a casa?» Mi implora, e non ho più il coraggio di obiettare.
Mi lascio trascinare, il cuore pesante e le gambe di burro, immaginando scenari catastrofici che terminano inevitabilmente con me che poso fiori e conchiglie sulla sua lapide.
È orribile.
Mi rimangio tutto. Può anche lasciarmi, basta che stia bene.
Arriviamo su un portico identico a quello della casa delle zie e il rumore dei miei denti che sbattono fra loro copre quello dei nostri passi sulle scale.
Junior armeggia con le chiavi e io non resisto più.
Esplodo, tremando e sudando più di lui, attaccata al suo braccio.
«Vuoi lasciarmi perché sei malato?» Junior mi guarda dall’alto, sgranando gli occhi. Sento il rumore della sua mascella che precipita sul legno.
Richiude lentamente le labbra.
E ride.
A crepapelle. Continua a ridere, fino alle lacrime, tanto che si lascia cadere seduto sul portico, poggiando la schiena alle porta. Le chiavi tintinnano quando le sfiora con i capelli.
«Sono seria, cretino!» lo colpisco a un braccio, tentando di farlo rialzare. «Sei pallido e sudi e sei strano e mi dici ne parliamo a casa, cosa cavolo dovrei pensare?»
La mia rabbia ha l’effetto di farlo ridere più forte.
Mi siedo sul primo gradino, offesa, aspettando che la pianti.
Junior termina la sua sporta di risate a spese mie con tutta calma, poi si avvicina, gattoni, posando la sua pesantissima testa piena d’acqua sulla mia spalla.
«Credevo volessi lasciarmi tu, Will.» Posa un bacio leggero fra i miei capelli carichi di nastri e conchiglie «Perché sono un’idiota terrorizzato dall’idea che tu parta.» Sospira, piano, e il suo fiato mi solletica l’orecchio. Ecco perché era così strano, quindi. «E sono così in ansia all’idea che sono stato male di stomaco tutto il giorno.» Ed ecco il perché dei sudori freddi e del colorito verdognolo. Che deficiente. E io che credevo che fosse sul letto di morte. Ridacchio, lasciandomi accarezzare la nuca dalle sue labbra. «Volevo portarti a cena fuori, ma il mio intestino non era d’accordo.» Un sorriso mi si dipinge lentamente sul viso, mentre mi racconta delle due pentole che ha bruciato, nel tentativo di prepararmi la cena.
«Ma come fai a sopravvivere senza saper cucinare neanche un uovo sodo?» Reclino il capo sul suo, allungando le gambe.
E il sole tramonta, arancione e magnifico, sulla mia rabbia che si disperde nel vento in una moltitudine di soffioni.
«Esistono le scatolette.» Sbuffa, mordicchiandomi il collo. «E il cibo d’asporto e i ristoranti e l’orribile cucina di zia Johanna…» elenca all’infinito le anime pie che gli consentono di non morire di fame. Ad ogni nome mi deposita un piccolo bacio sulla pelle. Quando arriva al collo mugola qualcosa che non afferro e sento il suo sorriso allargarsi sulla mia clavicola. «Mi sono comportato da demente, oggi. Perdonami.»
Annuisco piano, glissando sul fatto che il perdono sia arrivato da un pezzo, da qualche parte tra la clavicola e la nuca.
«Possiamo entrare in casa, ora?» Chiede, sorridendo sulla mia pelle, tra un bacio e l’altro. Annuisco di nuovo, porgendogli le mani per farmi aiutare a issarmi in piedi. Riemergo e mi sembra di riuscire a respirare davvero, di nuovo, quando il mio corpo incontra il suo per la forza della spinta che mi sono data per tirarmi su. Urto contro il suo petto, abbracciandolo immediatamente, come se, lontana dal suo abbraccio, mi mancasse una pezzo di cuore o le braccia o i polmoni e tornassi intera solo stringendolo.
Lui non vacilla. Mi stringe, inspirando e mormorando qualcosa tra un nastro e una conchiglia, e divento spuma che impatta contro la vela, perdendo qualsiasi consistenza a contatto della sua pelle.
«Hai fame?» Mormora, abbassandosi per baciarmi, armeggiando con le chiavi. Che io faccio cadere continuamente, catturando le sue labbra e il suo viso ogni volta che si allontano da me. «Perché io non ce l’ho.» Alzo gli occhi al cielo, senza smettere di baciarlo neanche per lasciarlo ridere della mia espressione buffa.
Voglio baciarti per sempre.
La serratura cede con un piccolo schiocco secco da qualche parte tra la destra del mio fianco e le mani di Junior sulla mia pelle.
Lo scricchiolio sotto le mie scarpe mi sussurra che casa di Junior sarà esattamente identica a casa delle zie – stesso ingresso, stesso portico, stesso numero di stanze, stessa cucina angusta – e profondamente diversa, ma non vedo niente, né il colore dei soffitti, del pavimento e delle pareti.
Tutto ciò che vedo, e devo sbattere gli occhi per essere certa di non avere un’allucinazione, è il tremolare fioco di minuscole fiammelle.
Candele.
Ovunque.
Fioriscono nelle loro corolle di fiamme dall’angolo delle scale, sul tavolo del soggiorno, sui davanzali delle finestre, danzando e bruciando nei loro letti di cera e corallo e conchiglie.
Bagnano ogni cosa di una tremolante luce dorata, identica alla luce del tramonto che bacia la schiena di Junior attraverso le tende della mia camera.
Le mani di Junior scivolano intorno alla mia vita e il suo mento vicino al mio orecchio.
«Ti piace?» Il suo respiro mi accarezza il collo, caldo, e riesce a liquefare ogni osso del mio corpo.
«Cerco qualcosa da regalarti, mocciosa prepotente…»
È un’altra corona di fiori, un’impronta sulla tela, un fiore strappato sulla riva del lago. Junior apre squarci dentro di me e cerca di rattopparli con cose che crede che io voglia, sperando di cancellare le lacrime con un sorriso dedicato a qualcos’altro.
Sguscio dalla sua stretta, muovendo qualche passo traballante.
Non è scappando, né facendo l’amore, né con le offerte di pace che voglio che riempia i buchi che lascia. Perché la sabbia continua a filtrare dalle ferite e non ci sono candele né fiori che possano fermarla.
«È per me?» La mia voce trema dello stesso baluginio delle fiammelle e lui non mi guarda negli occhi, abbassando lo sguardo. Armeggia con il colletto della camicia, slacciando il primo bottone.
Non aveva nessuna intenzione di parlare del futuro, non ce l’ha tuttora.
«Certo che è per te, Will.» Biascica «Volevo fare qualcosa di bello per te, perché è…» esita, iniziando a torturare i polsini.
Qualcosa si rompe, dentro il mio petto, e io mi sento improvvisamente disgregata in minuscoli frammenti che faticano a restare insieme.
E fa un caldo mostruoso, con tutte queste candele accese.
Il fuoco divampa da qualche parte tra lo stomaco e i polmoni, rendendomi difficile respirare.
«Perché è l’ultima sera, Junior.» Mi stringo le braccia al petto finché non sento le costole premere contro i miei avambracci. Lui fa un passo indietro, sbilanciato dalle mie parole. Le sue mani scattano verso l’alto, tremanti, mentre solleva lo sguardo, per un battito d’ali, per sgranare i suoi occhi di mare verso di me. «Ecco perché. E perché sono andata via pensando che volessi lasciarmi.» Qualcosa mi bagna il viso, ma brucio troppo per preoccuparmene. Il mare evaporerà, diventando pioggia, e per allora sarò un guscio vuoto, incapace di tenere insieme la moltitudine dei miei squarci. «E perché continui a non voler affrontare il problema, e credi che cose come questa…» smetto di schiacciarmi le costole per fare un ampio gesto che abbracci le fiamme e le conchiglie «…lo risolvano per te.»
Junior mi fissa a bocca aperta per un lungo istante, scattando indietro come se l’avessi schiaffeggiato. La delusione nei suoi occhi mi pugnala, ripetutamente, e sparge sale nelle ferite aperte.
Fa il giro del tavolo, spegnendo ogni candela. E il buio infetta ogni cosa, dentro e fuori di me, scoprendo i suoi mostri, spaventosi, che ci inghiottiranno, fagocitando qualsiasi alba i suoi occhi possano aver fatto sorgere in me.
«La notte mi rubava gli occhi e la lingua e i miei capelli erano fuoco.»
«Non hai capito niente, Willow.» Dice, piano, e io potrei spegnere ogni fiamma con le mie lacrime, se me ne desse la possibilità. Gira a passi sempre più lunghi e nervosi per l’ingresso, senza guardarmi. Mi sento così male che vorrei scappare, ma le mie gambe sono fuse al pavimento. Junior sparisce in cucina, di tanto in tanto. Sento l’acqua scorrere, sovrastata dal rumore di cocci che cozzano contro il metallo e vetri che si spaccano, seminando frammenti taglienti sul piano cottura.
Crack. Cling.
I vetri mi tagliano i timpani e la gola, impedendomi di parlare. Boccheggio, i polmoni pieni di sangue e sale, combattendo contro le mie gambe che non vogliono collaborare.
«C'è qualcosa che ti sta bene?» Lo urla, dalla cucina, mentre vado in pezzi in un grumo di terraglie annerite e cera molle. «Qualsiasi cosa faccia non va bene, vero?» La sua voce si crepa, vetro rotto su altro vetro, ridotta in schegge di dolore sotto le mie unghie, i denti, dietro le palpebre. Mi mordo l’interno delle guance finché il sapore del sangue mi invade la bocca, spazzando via quello delle lacrime. E io perdo tutte le parole: scuse, rimproveri, giustificazioni. Ci sono solo frantumi e cera e il dolore nella sua voce, che mi strappa gli occhi e le mani e il cuore, lasciandomi immobile e impotente a sanguinare e piangere e soffocare. «Allora dimmi tu come mi vuoi.»
Allora dimmi tu come mi vuoi, perché evidentemente non mi vedi. E non mi accetti per ciò che sono.
Tutto si rompe e appassisce e muore, ripiegato in brandelli su sé stesso.
L’ossigeno prende fuoco nella mia gola, la mia pelle crepita e si spacca, coprendosi di bolle.
E io non sono più niente.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il sedicesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

   
 
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