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Autore: Sylence Hill    14/01/2015    1 recensioni
Londra, 1835
Rachel Williams è un topo di biblioteca, sempre china con il naso infilato tra i libri. Ragazza di buona famiglia, con un padre fatto da sé e una madre che insiste sul matrimonio, ha un cuore buono e gentile, che ama incondizionatamente.
Ma è anche caparbia e testarda, che vuole affermare a quel mondo che tiene conto solo le apparenze che una donna può essere più che una semplice decorazione per la casa del futuro marito.
Non ha fatto i conti, però, con quello che il destino - al quale non crede - ha deciso per lei. 
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Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Nono
 
Sapeva che era quella. La catapecchia racchiusa tra gli alberi ormai scheletrici che punteggiavano qua e là quel bosco sommerso dalla neve. Gli sembrava che un alone di malvagità circondasse la struttura fatiscente, oscurando ancora di più le assi di legno marcio e tarato.
Gabriel e Alarik smontarono da cavallo prima di avvicinarsi ulteriormente, nel modo più silenziosa possibile, cosa alquanto semplice per i due uomini che avevano imparato a essere invisibili agli occhi dei loro nemici. Più di una volta avevano dovuto nascondersi e evitare di farsi notare.
Legarono i cavalli al ramo ritorno di un albero. Bastò loro guardarsi negli occhi per comprendere l’uno i pensieri degli altro. Presero le pistole avvolte in spesse coperte per non far congelare o inumidire la polvere da sparo e si legarono un paio di coltelli alle caviglie e alla cintura a testa.
Si strinsero l’avambraccio, un gesto che avevano imparato a scambiarsi prima di una battaglia importante.
Alarik aveva capito da un po’ che la ragazza Williams aveva suscitato l’interesse del suo amico, cosa che non poteva che risollevargli lo spirito. Il suo amico, suo fratello, aveva passato momenti davvero brutti, e subito non poche batoste dalla vita e, molto peggio, dalle persone in cui aveva riposto fiducia.
Avrebbe solo voluto che le cose fossero capitate in modo diverso.
Ma quello non era il momento di pensare certe cose: ironia della sorte, avevano una donzella da salvare. Sembrava una dei quelle novelle che Gabriel lo aveva costretto a leggere.
Purtroppo quella era la vita reale. E la donzella era una giovane donna che stava rischiando tutto.
Si accostarono uno accanto all’altro.
«Hai un piano?» chiese Alarik, mentre si avvicinava furtivo alla casa. Lo disse come se stesse parlando del tempo: aveva piena fiducia nelle capacità tattiche del suo amico, sapeva che non avrebbe fallito.
«Deve credere che ci sia uno solo di noi due.» gli disse, posizionandosi in modo da essere in un punto cieco della casa. «Facciamo testa o croce?»
L’altro sbuffò. «Tieniti la tua gloria, e salva la tua bella. Di sicuro gli piacerà di più vedere al tua faccia che non la mia.»
Detto questo, fece intenzionalmente un passo più pesante, in modo da far scricchiolare sonoramente la neve, un crepitare che rimbombò in quella foresta altrimenti muta.
Gabriel, aggirò la casa, silenzioso come un gatto, guardando le mura, studiando ogni singolo centimetro della struttura, cercando di individuare qualsiasi tipo di accesso secondario o fenditura.
A onor del vero, quella struttura era un cumulo di crepe e fori, segno che le tarme avevano banchettato fino a ridurre le assi di legno in ammassi informi. Dovevano capire da che parte entrare, per finire nella stanza della ragazza.
Alarik nel frattempo stava facendo del suo meglio per farsi notare. Aveva calpestato altre due o tre volte la neve e aveva spezzato una ramo all’altezza del petto di proposito, per poi allontanarsi nella neve, facendo finta di girare intorno alla casa, ma allontanandosi anche dalla struttura, lasciando dietro di se orme visibili anche da un cieco.
Gabriel sentì sei movimenti all’interno della casa, passi strusciati, una porta che sbatteva… e qualcosa di pesante che veniva sbattuto contro il muro su cui era appoggiato.
Un furia gelida lo pervase. Se quall’animale aveva fatto del male alla ragazza, avrebbe pregato Dio, il Diavolo e tutti i Santi del Paradiso per liberarsi dalle torture a cui lo avrebbe sottoposto. Appiattendosi contro la parte, poggiò l’orecchio al legno gelido e rimase in ascolto.
Poggiando le mani sulla parete, però, si accorse di una cosa: anche se le assi di legno marci erano divelte e piene di fori, non si riusciva a vedere all’interno della casa. Con le dita, si infilò in una di quelle fessure, ma non affondò che di solo pochi centimetri. C’era un rivestimento interno fatto di legno nuovo e solido. Gabriel imprecò tra i denti. Doveva essere quella la stanza. La cella in cui la ragazza Williams era rinchiusa. Ma non c’era altro modo per tirarla fuori di lì. Doveva entrare dentro.
Con la coda dell’occhio, vide Alarik allontanarsi dalla casa, proprio mentre la porta decrepita di apriva di schianto.
 
*   *   *
 
Sentii il fragore della porta che veniva aperta di botto, che fece gemere le pareti della casupola in modo assai preoccupante. Un fiotto di imprecazioni intellegibili usci dalla bocca del mostro, mentre usciva arrancando nella neve.
«Bastardo!» lo sentii urlare. «So che ci sei!» Rise sguaiato. «Credi di poter nasconderti? Conosco questo bosco come la mie tasche, non potrai sfuggirmi. Se anche tu riuscissi ad allontanarti, ci penseranno quei piccoli regali che ho lasciato in giro per il bosco a fare il resto al mio posto!»
Mi sentii raggelare e la disperazione rimontare nell’animo. Per colpa sua il suo salvatore poteva ferirsi gravemente, addirittura morire. non avrebbe sopportato il perso della sua morta sulla coscienza.
Doveva fare qualcosa per impedire tutto questo. Doveva fermare quel mostro, prima che facesse del male a qualcun altro.
Ma come? Era legata come un salame, irrigidita dal freddo, e la mente annebbiata per la botta alla testa. Non sarebbe riuscita neanche a salvare una mosca.
Ma qualcosa doveva pur fare.
Forse posso distrarlo, pensai. Tentai di alzarmi in piedi, ma immobilizzata com’era non riuscii a fare altro che girarmi supina. Mi guardai intorno, cercando un appiglio, qualcosa di utile, e solo allora mi accorsi che, nella fretta di affrontare il mio salvatore, il mostro aveva dimenticato di chiudere la porta della mia camera.
Capii che era quella la mia unica scelta. Doveva distrarre il mostro e cos’era meglio del tentativo di fuga della sua prigioniera?
Potevo farcela. Dovevo farcela.
Sentivo il mostro parlare ancora, urlare improperi, minacciare di atroci sofferenze il mio salvatore, ma non si muoveva dal suo posto, appena fuori dalla porta della catapecchia.
Piegai la testa in un’angolazione scomodissima, per vederlo. Era fermo a gambe aperte sullo stipite della porta, con il coltello da una parte e una pistola nell’altra, presa all’ultimo momento chissà dove.
Il sangue nelle mie vene prese a scorrere più velocemente. Non doveva usarla. Per nessun motivo quel mostro doveva utilizzarla.
Più silenziosa possibile, strisciai verso la porta aperta e mi fermai quando arrivai con le mani all’altezza dello stipite. Afferrandolo meglio che potevo, feci forza per tirarmi su. Puntini di luce mi attraversarono gli occhi, appannandomi per qualche secondo la vista. Lanciai un’occhiata al mostro, ma lui era troppo intento a cercare il mio salvatore, per dare retta a me. Scrutava nei boschi morti intorno alla casa, tenendo puntata la pistola.
Dovevo sbrigarmi, prima che fosse troppo tardi.
 
*   *   *
 
Da dietro la casa, Gabriel fece segno ad Alarik di allontanarsi, spiegandogli nella lingua dei segni che doveva entrare in casa.
Alarik, nascosto dietro un ammasso di neve, gli risposte con un cenno della testa. Gabriel detestava mettere il suo amico in situazioni potenzialmente pericolose, ma conosceva anche la sua bravura in guerra e si fidava di lui e delle sue capacità.
Girò in torno alla casa, fermandosi sulla parete a ovest della casa, nascosto sia ad Alarik che al rapitore. Gli bastò un’occhiata veloce per giudicare lo stato delle cose.
Dovevano gire in fretta. Alarik doveva attirare l’attenzione del rapitore e lui doveva aggredirlo alle spalle e disarmarlo. Niente di più facile. Si preparò a dare un segno al Sioux, un sasso lì vicino e preparandosi a lanciarlo in aria, abbastanza in alto da essere visibile dall’altra parte del tetto…
«Ma che diavolo…» sentì grugnire all’uomo, prima che un colpo partisse da una delle pistole.
Lasciando cadere il sasso si spose oltre l’angolo temendo il peggio per Alarik. Possibile che di fosse smascherato? Impossibile. Quando loro due si concordavano seguivano sempre le direttive.
Un lampo di colore entrò nella sua visuale, prima che il braccio del rapitore lo respingesse dentro la porta in malo modo.
«Piccola cagna rognosa!» lo si sentì grugnire. Era rivolto verso l’interno della casa, una della pistole aveva esaurito i colpi e altra era caduta nella neve, pochi secondi e sarebbe stata inutilizzabile. Quella era il momento di agire, in fretta.
Si nascose dietro la parete e lanciò un fischio cosi acuto da ferire le orecchie. Entrambi gli uomini si misero all’opera. Gabriel balzò fuori e raggiunse il suo bersaglio in poche falcate, placcandolo alle ginocchia. Caddero entrambi nella nebe gelida, lottando per cercare di avere la supremazia l’uno sull’altro. Alarik sputò da fuori il suo nascondiglio e corse ad aiutare l’amico, afferrando le braccia dell’uomo che imprecava come uno scaricatore di porto. A dispetto delle apparenze, quell’uomo era forte e si dimenava come un’anguilla.
Gabriel schivò un pugno vagante, incastrò una gamba in mezzo quelle dell’uomo, e gli bloccò le braccia dietro al collo.
«Non hai possibilità di scampo.» grugnì. «Arrenditi.» Guardò Alarik. «Prendi la corda.» L’amico obbedì.
Un suono gorgogliante lo distrasse. Lanciando un’occhiata alla porta, vide un mucchio di stoffe ammucchiate tra gli stipiti, scossa da tremori. Una piccola manina spuntava dal cumulo, affondata della neve sporca. Era bianca come un cadavere.
La giovane Williams.
Quella vista gli fece salire il sangue al cervello. Non capì più niente. Si rese conto di quello che aveva fatto solo quando l’amico lo costrinse ad allontanarsi dal rapitore, ora col volto ricoperto di sangue e privo di sensi disteso nel terreno intriso di rosa.
Si guardò le mani. Erano umidicce, le nocche escoriate, macchiate di rosso.
No. Non poteva essere successo. Non di nuovo.
«Brothair.» lo chiamò bruscamente Alarik, che nel frattempo aveva legato mani e piedi del rapitore. «La ragazza.»
Gabriel si voltò verso la porta e raggiunse la ragazza. Non appena toccò la sua pelle, per girarla, si rese conto che erano in una situazione disperata. Era fredda come il marmo e, sentendole il polso, lo trovò debole. Troppo debole.
NO!
Quel suono di dolore esplose nella sua mente. Non poteva morire! Si slacciò i capotto e, raccogliendola nelle braccia, la avvolse sia in quello che nel suo mantello. Rabbrividì al bacio gelido della sua guancia sul collo.
«Sbrighiamoci.» ringhiò dal Alarik.
L’amico si issò sulla spalla il peso morto del rapitore, e si avviò dietro l’amico.
Appena raggiunsero i cavalli, con un unico movimento fluido, Gabriel issò se stesso e la giovane in sella, la sistemò meglio, la coprì come meglio poteva anche con le coperte che si era portato appresso.
«Io vado avanti.» disse all’amico. «Ho visto il cartello di una locanda poco prima di arrivare qui.
Lo sguardo dell’amico valeva più di mille parole. «Sei sicuro?»
Gabriel lo guardo fermo. «Non c’è altra scelta.»
Alarik scorse la determinazione nei suoi occhi. Sì, avrebbe fatto qualunque cose per quella piccola donna, rannicchiata e gelida, nelle sue braccia. Anche compromettere se stesso e lei.
Senza dire una parola, annuì e voltò il cavallo, con l’intenzione di tornare indietro. Avrebbe dato la notizia alla famiglia della ragazza Williams, anche se non era sicuro che sarebbero stati contenti di come si sarebbero evoluti gli eventi di quella sera.
Che ne fosse venuto fuori qualcosa di buono? O no?
  
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