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Autore: Quinnie_Criss1601    15/01/2015    0 recensioni
Kurt ha molti limiti. Blaine ha solo limiti. La bellezza nasce dai limiti, sempre. Cosa potrà nascere quindi da un loro casuale incontro? Due ragazzi che condividono l'amore, la casa, il passato e il presente senza rendersene conto. Un racconto a due voci sui loro sentimenti, sulle loro paure, sulle loro emozioni.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Finn Hudson, Kurt Hummel, Santana Lopez | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Vi consiglio di ascoltare la versione di Lea di Jar of Hearts mentre leggete <3 Ci vediamo di sotto!

I've Learned To Live Half Alive 


Kurt:
 
Le due settimane seguenti passarono velocemente. Sentivo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto ed ogni secondo scalfirmi la pelle e soprattutto i pensieri che, se pur non più burrascosi, restavano irrisolti, senza soluzione, sospesi nel tempo che non accennava a rallentare e non avrebbe sicuramente mai smesso di scorrere per darmi la possibilità di riflettere e cercare un rimedio e non solo un riparo per tutta la confusione che avevo in testa. Così, inerte, lasciavo che i momenti si susseguissero in una disperata corsa guardando la mia vita da fuori, indifferente, come se non fosse mia.
Le cose a casa erano tranquille: mio padre era sereno con Carole, Carole era felice con mio padre, Finn era contento di averci a casa sua, viveva la sua vita come al solito, come se non fosse cambiato niente perché , in effetti, per lui quasi nulla era cambiato.
 
                                                 
 
                                                                                                                *
 
 
 
In un venerdì pomeriggio che trascorreva informe come tutte le mie giornate, mi stavo preparando per uscire con Santana e Mercedes, che grazie ad un duetto per il Glee stavano andando piuttosto d’accordo. Mi guardavo allo specchio insoddisfatto, stremato.
 
 
 
Intravidi il riflesso di un viso stanco e annoiato, occhiaie violacee che incorniciavano due vuoti occhi cerulei, della pelle tanto pallida da sembrare verdognola scomparire sotto una camicia bianca, poi sotto un attillato jeans nero. Corsi in bagno: facevo davvero impressione, la gente per strada si sarebbe spaventata vedendomi. Lavai la faccia, strofinai bene gli occhi per cercare di accenderli, graffiai le guance fino a farmi male per cercare di ridargli un colorito sano. Asciugai, mi guardai nuovamente. Le occhiaie c’erano ancora, gli occhi erano ancora vuoti, le guance ridicolmente rosse.
Pazienza.” Mi rassegnai.
Uscii dalla mia camera e raggiunsi la cucina. Sentii le risate di Finn e Quinn impastate in un unico suono scomposto provenire dal seminterrato, mi affacciai dalle scale e li salutai. Crack. Gli occhi ancora più vuoti, la pelle ancora più verde, il cuore ancora più rotto, la testa ancora più persa.
Papà io esco, ci vediamo più tardi!”
“Giovanotto ricorda il coprifuoco”
“Ok, perfetto! A dopo.”
Una porta che si chiude, un mondo che si apre. Mi strinsi nel cardigan guardando con circospezione il pianerottolo. Una melodia leggera proveniva dall’appartamento di Blaine Anderson.
“ E se provassi a bussare? Potrei chiedergli di uscire con noi, se non ha nulla da fare. Così,  tanto per essere gentile.”
Nemmeno due secondi dopo premevo già sul campanello con delicatezza. Passi strascicati si muovevano al di là della porta con estrema lentezza.
 
 
“Arrivo subito!” gridò una voce poco familiare.
“Ehi, Kurt, giusto?”mi salutò con una punta di freddezza nel tono che non mi aveva mai rivoltò nelle poche parole che ci eravamo detti.
“Si, ciao Blaine. Scusa se ti disturbo.”
“Oh, ma figurati! Entra pure.”
“Grazie mille. So che forse sembrerà da maleducati, ma ti assicuro che mi è venuto spontaneo e lo faccio con gran piacere. Beh.. ti volevo chiedere di uscire con me e due mie amiche, se non hai nient’altro da fare. Così, giusto per conoscerci un po’ meglio, sei pur sempre il migliore amico del mio fratellastro!” dissi mentre il
mio viso si colorava di mille espressioni diverse, dall’imbarazzo alla contentezza. Blaine rise alla mia ultima affermazione. I capelli gli si scompigliarono leggermente ed un ciuffo gli ricadde sulla fronte leggero.
Hahaha, ok certo! E’ stato davvero gentile da parte tua Kurt, grazie.” Affermò convinto, guardandomi negli occhi. Mi sembrò per un solo secondo che si stesse aggrappando con il suo sguardo profondo al mio, che mi supplicasse di essere tratto in salvo.
Figurati.” Risposi distogliendo lo sguardo.
Ho sentito della musica da fuori, eri tu al piano?” chiesi indicando lo strumento in un angolo del soggiorno.
“Ah, si…ti faccio sentire qualcosa se vuoi?”
“O-ok. Tanto è ancora presto, l’appuntamento è alle 9 e mezzo”
Annuì e mi rivolse un occhiolino vispo per avvisarmi di seguirlo accanto al piano.
La musica cominciò lenta, la voce di Blaine sicura, salda riscaldò le pareti della stanza, rimbombò tra i miei occhi vuoti e piano li riaccese. Le dita scivolavano esperte sulla tastiera seguendo le note di Jar of Hearts.
 
I’ve learned to live half alive…
Una frase, la mia vita in quel momento. Sopravvivevo, avevo imparato a vivere mezzo morto dentro. Ero spento, non capivo ciò che provavo ed ero spento. M’irrigidii tutt’un tratto e Blaine, nonostante fosse molto coinvolto e concentrato sulla canzone, lo percepì e mi guardò. Fissò quei suoi occhi d’ambra dentro i miei e sorrise piano continuando a cantare. Sostenni il suo sguardo mentre una lacrima oltrepassava le ciglia e cadeva velocemente lungo i lineamenti del mio viso. L’ultimo ritornello, quando la musica cresceva, le vocali si allungavano, l’acuto finale perfetto rimasto intrappolato nell’aria. Lui non aveva smesso nemmeno per un momento di guardarmi, né io di guardare lui. Il sorriso si fece lentamente più ampio, le labbra carnose di Blaine si distesero del tutto. Gli sorrisi anch’io, calmo, disperato ma calmo.
 
Ancora aggrappati uno allo sguardo dell’altro uscimmo in silenzio dall’appartamento quando fu l’ora giusta.
 
                                                                                                           *
 
“Kurt allora non ci presenti il tuo amico?” insisteva Mercedes rivolgendomi un sorriso complice. Ero talmente imbarazzato: forse avevo fatto una stronzata bussando a Blaine, in fondo non lo conoscevo, ci eravamo parlati qualche volta per le scale del palazzo, niente di più. Ero sicuro che fosse un bravo ragazzo, però, uno di cui ci si può fidare, per due motivi. Uno) era amico di Finn. Due) si sentiva, quando sorrideva, negli occhi, nella voce, si capiva.
“Oh,certo! Ehm, Blaine lei è Mercedes. Lei invece è Santana.” Strinse la mano alla prima con un gran sorriso sincero, mentre rivolse alla seconda un timido ciao e una smorfia di allegria forse intimorito dallo sguardo che quella continuava a puntargli addosso: tra il sospettoso e lo schifato.
Le ragazze ci precedettero di qualche passo nel tragitto per arrivare alla macchina di Santana
“Scusa per San, è fatta così. Ma è una ragazza fantastica! E’ la mia migliore amica!” dissi a bassa voce.
“Oh, tranquillo. Sembra una tipa in gamba!” Dichiarò convinto ridendo un poco.
Prendemmo posto in auto: Santana alla giuda, io sul sedile passeggero, Blaine e Mercedes sui sedili posteriori che già avevano intrapreso una piacevole chiacchierata.
“Ehi, Hummel. E’ lui il tipo del palazzo?”
“Si, San. Mi è sembrato carino invitarlo, è pur sempre un amico di Finn. Come ti sembra?”
“Lo sai che sono stronza con tutti e il tuo amico non fa eccezione, però sinceramente non  me la conta giusta…”
“Che vuoi dire?”
“Mhh, non lo so…è troppo perfetto per essere veramente così. Nasconde qualcosa. Tipo doppia personalità.”
“ San, devi sempre sospettare di tutto e tutti vero? Dai, l’ho portato giusto per essere un po’ di più, divertiamoci!”
 
 
                                                        
Circa dieci minuti dopo Santana parcheggiava di fronte “Ginny’s”. Era il locale dove eravamo soliti andare noi tre, per stare un po’ in pace,  vedere volti nuovi ed essere un po’ più trasgressivi del solito.
Entrammo e ci sedemmo attorno ad un tavolo sui comodi divanetti rossi, Blaine accanto a me.
“Ragazzi dopo non ho intenzione di guidare io! Ho troppa voglia di sbronzarmi!” esclamò la mia migliore amica appena la cameriera appoggiò i menù sul piano.
Tranquilli mi sacrifico io, tanto non ho bisogno di bere per ridere come una pazza. Sono sbronza già di mio!” ci salvò Mercedes.
Perfetto, allora un Blue Angel per me, grazie!”ordinai.
Mojito nero!”
“Shirley temple con vodka.”
Come ogni venerdì alla fine del mese, niente cibo, solo il momentaneo, confortevole calore dell’alcool.
“Ehm, Blaine non desideri qualcosa da mangiare? Sai, noi abbiamo una sorta di ‘tradizione’ per cui un venerdì al mese beviamo solo, ma se hai fame prendi assolutamente qualcosa!” lo informai.
Oh, no non preoccuparti. In realtà ho mangiato prima che venissi a casa. Ho avuto gli allenamenti di box oggi pomeriggio e avevo troppa fame!” Spiegò lui provocando una breve risata generale.
Avete notato come i cocktail che abbiamo ordinato ci rispecchiano? Cioè, so che può sembrare una pazzia, ma tendo sempre a fare molta attenzione a queste cose. So con certezza che il mio rispecchia perfettamente la mia personalità, e da quel che so di voi anche i vostri ordini vi assomigliano.”
“Hummel già ci basti tu, non vogliamo un altro da manicomio nella combriccola!”sbottò Santana sgarbatamente.
Scusala Blaine, è fatta così!” dissi mentre le tiravo un calcio sullo stinco sotto il tavolo.
“Nono, ha ragione. So di essere un po’ tonto!” sorrise imbarazzato portandosi una mano dietro la nuca per scompigliare i ricci, proprio come fece prima di presentarsi in fondo alle scale, la prima volta che lo incontrai.
Arrivarono i cocktail e appena li osservai capii cosa intendeva Blaine. Lo Shirley temple di San era rosso fuoco, emanava un odore talmente forte ed acre a causa dell’aggiunta di vodka. Il mio Blue Angel era terribilmente azzurro, apparentemente fluido e dolce ma in realtà così amaro. Il Mojito di Blaine era nero, senza sfumature. Sembrava l’oscurità intrappolata nel freddo vetro del bicchiere. Emanava però un fortissimo odore dolce. Mi chiesi subito in che modo quel cocktail rispecchiasse i suoi sentimenti. Cosa nascondeva quel ragazzo apparentemente  sempre così sorridente e sereno? Il nero cosa rappresentava? Il colore della sua anima? Era una persona cattiva e stava cercando di avvisarci? Mentre la mia mente si perdeva senza controllo in pensieri di questo tipo, interrotti da risate insensate e convulse, finii tre Blue Angel.
 
 
                                                                                                                *

Quando uscimmo dal locale ero completamente sbronzo. Camminavo leggero barcollando ed poggiandomi ora su Santana, ora su Mercedes. Ridevamo, ardevamo tutti di quel bollore, di quella calura provocata dall’alcool. Oltre al sangue che bruciava scorrendo nelle vene, non sentivo assolutamente nulla, il vuoto totale. E’ questo il bello dell’alcool, ti accendi di un’energia nuova, t’infiamma una voglia di libertà sconosciuta fino a quando sei così confuso da non capire nulla, ti estranei per un solo istante dal mondo, poi ci rientri mezzo morto: con il plasma che brucia dentro, il caos che ti esplode sulla faccia a mo’ di risata.
Ragazzi, non mi sono mai divertito tanto! Vi prego portatemi sempre con voi!” biascicò Blaine sorridendo e supplicando.
Hahahahaha, Blaine Anderson, sei appena entrato a far parte ufficialmente della troup!”
“Devon Anderson, per una cosa così importante ci vuole anche il secondo nome!”
“Hahah, giusto! Allora, Blaine Devon Anderson, ti nomino ufficialmente parte integrante della banda! Compagne, approvate?”
“Sicuro!”
“Anderson, solo se ti togli quel papillon di merda!Hahahahh” sancì
Santana.
“Ah, mai insultare un bow tie di Blaine Anderson! Hahahhahah”
“Toglitelooo! Fa più schifo dei pannoloni di mio nonno!”gridò Santana facendo aprire il riccio  in una fragorosa risata-
“Hahhahaahah, va bene, va bene. Addio bow tie!”
“Ora sei parte della troup! Questo lo incendio appena arrivo a casa! Hahahaha” fece Santana riferendosi al grazioso papillon rosso.
 
 
 

Blaine:
 
I sogni per me non erano sogni, il sonno per me non era sonno. Io non dormivo, vegliavo. Da quella sera non avevo più dormito, mai. Chiudevo gli occhi e vegliavo su me stesso in uno stato di perenne allerta. Avevo iniziato a nutrire un vero e proprio odio per la notte, tutto quel morbido silenzio, quella morte apparente che investe le persone mi terrorizzava. Di notte qualsiasi cosa assumeva un valore astratto, idealizzato. Si ha il tempo per riflettere e pensare, dicono alcuni. Ed era proprio questo che mi spaventava di più, perché in quello stato permanente di veglia non riuscivo a mentirmi, a nascondermi.
Anche quella notte era stata un totale tormento. La sveglia strillò le 7:30 e mi costrinse a vivere un'altra inutile, insignificante, terrificante giornata. Corsi in bagno e mi buttai sotto il getto ghiacciato della doccia e, poiché avevo appena finito la colazione, sperai in una congestione. La cosa divertente è che spesso desideravo di morire, ma non avrei mai avuto il coraggio di compiere uno di quei gesti estremi, di prendere un coltello e piantarmelo nel polso. Non l’avrei mai fatto. Parliamoci chiaro, la mia vita era una merda, la merda più totale. Sarei stato ben felice di farla finita, ma avevo paura: mi facevo schifo tanto ero vile e codardo. Mia mamma cercava di convincermi del fatto che al contrario ero un ragazzo estremamente forte, che pochi avrebbero affrontato la vita come facevo io dopo quello che avevo subito. Si sbagliava, e non di poco. Io non affrontavo la vita, me la facevo scivolare addosso sperando costantemente che un autobus m’investisse: era tutto un aspettare inerme il prossimo evento che già sapevo non avrebbe cambiato nemmeno mezzo millimetro di me, di quello che pensavo, di quello che ero. Vivere, per me, era un’abitudine di cui mi stavo stancando.
 
 “Allora oggi aritmetica, francese, letteratura e prove con gli Usignoli…” mi ripetevo mentalmente.
Una volta in camera, infilai attentamente il pantalone della divisa, poi la camicia. Chiusi lento i piccoli bottoncini di madreperla bianca fino al colletto, annodai la cravatta rossa e blu attorno al collo,  per ultimo mi strinsi nella giacca pesante e mi sentii bene.
 Quei colori, quel tessuto conferivano una protezione, una rispettabilità non indifferente.
Corsi in cucina per recuperare la cartella di cuoio finita su chissà quale mensola. La trovai poggiata proprio sul davanzale della finestra e mi affacciai.
 
“Chi è? Come si conoscono? Perché è venuta a prenderlo? Perché la bacia sulla guancia? Le sta sorridendo…”
 
Kurt, il fratellastro di Finn, saliva in macchina accanto ad una bellissima ragazza alta e bruna. Le baciava la guancia, le sorrideva amichevole.
“Ma che me ne frega?! Oddio, ma che problemi ho! Non lo conosco nemmeno! Sarà un’amica o la fidanzata, forse quella Santana, fatti suoi. Perché mi sto interessando? …Però avrei giurato che anche lui fosse…”
L’odore dolce di mia madre mi riscosse, così senza pensarci due volte, affondai la testa nei morbidi capelli, poggiando il mento sulla sua spalla e lasciandomi abbracciare. La leggera pelliccia della sua giacca da camera mi solleticava la barba di qualche giorno, il profumo fresco, ricordava qualcosa di selvatico, il muschio, la tranquillità di un bosco in estate.
Fatti sistemare questa cravatta.” Sussurrò con la voce impastata dal sonno mentre smanettava attorno al nodo. Mi strinse il viso tra le mani e mi guardò a lungo. Entrai in lei, attraverso i limpidi occhi verdi, poi socchiusi i miei per godermi l’intimità e la dolcezza di quell’istante.
“Come sei bello, figlio mio…Non puoi nemmeno immaginare quanto io ti ami, Blaine, nemmeno immaginare.” Mi baciò sulla fronte.
 
L’autobus mi lasciò proprio davanti al portone della Dalton. Quel massiccio portone di legno lavorato e antico. Il colore scuro del noce lo rendeva imponente e maestoso, grandioso. Attraversai il corridoio facendomi spazio tra la folla di ragazzi. Le scarpe di ognuno facevano rumore calpestando il marmo ghiacciato del pavimento. Raggiunsi l’aula di aritmetica e sedetti in uno delle piccole scrivanie in fondo: ero uno studente modello, ma odiavo profondamente mettermi in mostra. Io ascoltavo relegato nell’angolo in fondo, attentissimo, concentratissimo.
Le lezioni si rincorrevano in fretta per la maggior parte delle volte. Quel giorno, invece,una strana lentezza s’impadronì quasi interamente della giornata: il professore spiegava biascicando parole dal significato complesso, ribadiva che la matematica è solo questione di intuito, che è come la vita. Grande, immensa, infinita, complicata, terribilmente intrecciata, aggrovigliata attorno ai pensieri di ognuno inutilmente, perché la soluzione sarà sempre una, la stessa per tutti, bisogna solo applicarsi per decidere quale via prendere per raggiungerla. A me sembrava da sempre di aver scelto quella più tortuosa, precipizi ad ogni curva, salite ripide, terreno sdrucciolevole.
 
 
 
Sebastian!”
“Ehi, ciao anche a te  nanetto sexy!”
“Seb, non ti mando a quel paese solo perché so quello che stai passando.” Spalancò gli occhi verdissimi. Mi guardò arrabbiato, distrutto e supplichevole nella stessa frazione di secondo.
“Comunque…” ripresi “ mi sono arrivate voci di corridoio e ho chiesto a Thad. Ne abbiamo parlato. Sta male Seb, e lo so che stai male anche tu. E’ inutile che continui a negarlo. L’ha capito che ha sbagliato, che avete sbagliato entrambi. Torna da lui…”
“E’ semplice vista così, vero?.. T-tu non sai nemmeno quanto c’ho messo ad aprirmi in quel modo. I-io sono innamorato di Thad. Lo amo più di me stesso e pensavo di averglielo fatto capire. Non solo con quel ‘ti amo’. Pensavo che lui si fidasse, che fosse sicuro che non l’avrei lasciato o illuso.” Era la prima volta che vedevo Sebastian piangere, era la prima volta che lo vedevo fragile, in balia delle emozioni. Non potei fare a meno che abbracciarlo stretto mentre, proprio come il suo ragazzo aveva fatto qualche settimana prima, singhiozzava forte sulla mia spalla e disperato si aggrappava alla stoffa del blazer che mi ricadeva sulla schiena, tremante.
 
 
Scusa Blaine, grazie. Sei un amico.”
“Oh figurati. Ehi, ricordati che quando hai bisogno, ci sono.”
Annuì.
“Ah Blaine, naturalmente tutto questo rimane tra noi…”
“Non c’era nemmeno bisogno di dirlo, certo.” Gli sorrisi.
Uscii preceduto da un Sebastian che avanzava con passo leggero e un grande sorriso, dalla biblioteca ora rimasta vuota.
 
 
 
Un’altra giornata mi scivolava addosso, e stavo di nuovo male. Pensavo. Pensavo che ero solo, che stavo solo, che mi sentivo solo. Pensavo che sarebbe stato meglio non pensare perché pensare fa male. Pensavo che avevo paura. Pensavo di avere questa costante esigenza di aprirmi il petto e far sfogare la marea. Quella cosa che mi pesava, che mi comprimeva, tra la gola e i polmoni, e non respiravo e piangevo. Piangevo ma mi dicevo che non dovevo piangere perché non serviva. Pensavo che avrei voluto dire tutto, urlare tutto, tutto lo schifo che sentivo. Pensavo che non avrei mai potuto dire la verità sulle persone, quelle che DOVEVO salutare anche se non le sopportavo, quelle a cui DOVEVO sorridere anche se avrei voluto sputargli addosso, quelle che nel cervello hanno la merda d’uccello e che non parlano, starnazzano. Pensavo che avrei voluto fare di più per le persone di cui m’importava, per quelle che amavo, quelle che stimavo. E poi pensavo che di lì a poco sarei scoppiato, che non ce la facevo. Che quella cosa nel petto sarebbe venuta fuori incontrollata perché non ce la facevo. Mi comprimeva i polmoni, me li anneriva peggio del fumo, mi consumava il cervello peggio delle canne, della droga, e io non respiravo. Non ci riuscivo, cercavo aria, ma non la trovavo. Facevo di tutto per continuare a vivere, a respirare, ma non ci riuscivo. Così mi veniva di nuovo quella dannata voglia di cancellare tutto, di andarmene, di dormire per il resto della  vita, di sognare per il resto della vita. Non c’è niente da fare, mi dicevo, sognare è molto più facile che vivere. Pensavo per l’ultima volta, perché mi ero già distrutto abbastanza e il mio ultimo pensiero era una corda al collo, una scatola di sonniferi, un coltello nelle vene.
 
                                                           
                                                                                                                      *
 
“Allora, com’è andata la giornata?”
“Mh, tutto bene. Solito”
“Bene. Oggi è venerdì giusto? Che fai stasera? Esci?”
“Oh, no. Non penso. Finn è impegnato. Per Sebastian non è un bel periodo. Anzi forse dopo lo chiamo. “
“Certo. E’ qualcosa di grave?”
“Non particolarmente, ma lo ha scosso davvero tanto. Voglio stargli vicino.”
“Ok, è giusto. Sei il suo migliore amico.”
“Già” presi il bicchiere colmo d’acqua e cominciai a rigirarlo tra i palmi
“Blaine?”
“Si, mamma?”
“Niente, ricordati solo che non puoi proteggere tutti.”
Sussurò con voce ferma mentre  si alzava da tavola e mi scompigliava i ricci.
 
                                                           
 
Avevo appena attaccato con Sebastian. Era distrutto, devastato, dilaniato, lacerato, smembrato, straziato dal dolore. Aveva urlato e pianto e sospirato. Avrei voluto abbracciarlo, proteggerlo da quei sentimenti che lo avevano reso fragile come non lo avevo mai visto. Ma, ancora una volta inutilmente, volevo salvare tutti.
Mentre soffocavo tra i miei stessi pensieri, suonavo. Suonare mi dava serenità. Suonando mi sentivo etereo, intoccabile, forte, incredibilmente libero. I tasti lisci del piano luccicavano sotto il mio tocco, i martelletti colpivano le corde, il pedale si muoveva ritmicamente, i polpastrelli accarezzavano ora la vernice bianca, ora quella nera, i gomiti restavano rilassati lungo il busto, i polsi bassi e morbidi: la musica cominciava ad esistere.
Mentre “Sogno d’amore” di Liszt echeggiava tra le pareti, bussarono alla porta. Avanzai con passi strascicati, mi aggrappai alla maniglia e aprii: era Kurt. Rimasi dapprima molto sorpreso di vederlo lì, sulla soglia, palesemente imbarazzato, mentre arrossendo biascicava un ‘ciao,scusa il disturbo’ . Mi accorsi solo allora che ero stato proprio io a renderlo nervoso a tal punto: per un solo, piccolo, minuscolo, impercettibile attimo mi ero rivolto a quel ragazzo con una freddezza immotivata, o meglio, apparentemente immotivata. Appena girai la maniglia fredda d’ottone, aprii l’uscio di legno e vidi quella gracile figura luminosa, una sola immagine si impose prepotentemente nella mia mente: lui, quella bella ragazza, un bacio, il sorriso etereo di Kurt.
Sapevo che non aveva alcun senso, ma in quel momento, desiderai profondamente mantenermi freddo con lui per fargli capire in un modo o nell’altro che per quegli attimi ero infastidito, che non avrebbe dovuto più sorridere a quella ragazza così, che non l’avrebbe dovuta baciare come aveva fatto.
Era assurdo, era stupido, era inutile.
Ma era. Esisteva. Lo sentivo, inspiegabilmente.
Lo invitai ad entrare, mi chiese di uscire, accettai. Mi maledissi mentalmente un’infinità di volte per aver proposto di suonare qualcosa dopo che aveva notato il piano a coda nell’angolo del soggiorno. Lo avevo fatto senza pensare e senza mostrare l’imbarazzo e l’insicurezza che in realtà mi opprimevano mentre mi accingevo a pigiare i tasti per far scaturire le prime note. Scelsi Jar of Hearts istintivamente, perché in quel momento sentivo di doverla necessariamente cantare, sentivo di poter palesare i miei sentimenti, il mio malessere con Kurt, e niente meglio di quella canzone riusciva ad esprimerli, ad esprimerMI.
 
I suoni fluivano rapidi, le scale si susseguivano celermente, prima la voce rimaneva morbida, vellutata, poi saliva, serviva più potenza. Un vento, un’impercettibile brezza gelida mi distrasse dalla canzone: Kurt era fermo, con lo sguardo fisso, le mani che tremavano, gli occhi coperti da un velo di lacrime. Cercai il suo sguardo muovendo il collo con decisione, lo trovai, mi ci aggrappai. Tremava forte e io lo guardavo, piangeva impalpabili gocce salate e io lo fissavo. Mi mancava il respiro, ma gli sorrisi e continuai a guardarlo per il resto della canzone. Sentivo che aveva bisogno di rimanere avvinghiato a qualcosa, a qualcuno, a chiunque.
 
                                                           
 
 
                                                                                                        *
 
 
 
Quando tornai a casa dopo aver trascorso quella che si rivelò una splendida, euforica serata, ebbi solo la forza di stramazzare sul materasso comodo del mio letto e pensare per un ultimo, piccolo, intimo e impercettibile istante. Pensai a Kurt. 



Quinnie's corner:
Ehi, buonasera a tutti! Eccomi, dopo settimane, con il terzo capitolo. Beh penso che ormai avete capito che io e le scadenze non andiamo d'accrdo XD
Allora riguardo al capitolo, lo so, è triste, drammatico e molto angst. Ma non posso farne a meno! 
Come vi avevo anticipato Blaine e la mamma continueranno ad avere spazi di questo tipo, idem per la Thadastian. (tra l'altro quanto è dolce Seb in questo capitolo?!)
Poooiiii.... Dato che *cof cof* domani *cof cof* è il mio compleanno... volete lasciare anche solo una piccola, piccolissima recensioncina? <3<3<3 
Mi fareste il regalo più bello!
Anyway, grazie mille a tutti quelli che leggono, seguono e hanno la storia tra le preferite. Anche solo questo mi rende davvero tanto felice!
Va bien, ora vado a finire di mettere lo smalto u.u 
Alla prossima!!

P.s. Auguroni al nostro Grant che ha compiuto ieri 25 anni! <3 E' un attore fantastico e in The Flash sta facendo un lavoro meraviglioso! Qualcuno di voi lo segue? Io ne sono innamorata!

P.p.s Ma quanto è iniziata col botto questa 6 stagione?!! 

P.p.p.s (concedetemelo) Congratulazioni al dolcissimo Matt Bomer ( il nostro Cooper <3) che ha vito ai Golden Globe per la sua straordinaria interpretazione in The Normal Heart ( se ancora non lo avete visto, guardatelo! E' semplicemente unico e straziante <3)!



 
   
 
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