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Autore: Night_    16/01/2015    1 recensioni
Takeshi era un guerriero. Un distruttore senza patria e senza scrupoli. Quelle sillabe... quel nome le apparve a dimensioni piccole piccole nella sua testa, fra tantissimi altri scritti più grandi, in modo quasi ingombrante.
Eppure, anche se era così minuscolo, era il primo che i suoi occhi della mente leggevano all'istante – brillava.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Può capitare di sentirsi sfuggire, tutto ad un tratto, ogni cosa che ci è cara; a quel punto, cos'è che dovremmo fare?

Takeshi.

 

 

 

 

 

 

 

"Takeshi"

 

 

 

 

 


 

 

 

Voci che si ammassavano; chiacchiericci e bisbigli intrecciati fra di loro; una mano che toccava con delicatezza la sua spalla – una voce gioviale. Yuki si sentiva soffocare e si domandava perché mai, era talmente distante dalle acque limpide di quella stessa mattina: stava percorrendo il selciato di una strada, d'altronde; ne ebbe la conferma quando aprì gli occhi e ne incontrò un paio scuri come la volta notturna di quella serata così strana – intensa –, appena latenti dalla visiera di un cappellino arancione.
«Dicevo, stai bene?», e poi c'era quella particolare luce, a metà fra il preoccupato e il curioso, come se stesse osservando una creatura mitologica e si stesse chiedendo se avesse male da qualche parte. «Ti aiuto ad alzarti».
E mentre quei due specchi notturni continuavano imperterriti a guardarla – contornati da ciglia nerissime e lunghe, come gli anelli di un pianeta –, vide quella persona, piegata verso di lei, con un ginocchio a terra e l'altro alzato, mettersi in piedi e porgerle una mano guantata – bianca.
Yuki batté le palpebre e scontrò le ciglia.
«Sì, sto bene», soffiò, sottovoce, mentre appoggiava un palmo a terra e si issava in piedi, da sola. «Sto bene».
Chissà per quale motivo stava ripetendo la medesima frase, quella persona – quel ragazzo – pareva aver compreso alla grande, a giudicare dal grande sorrisone che le illuminava radioso il volto, leggermente più scuro.
«Meglio così!», esclamò, riportando il braccio al fianco. «Mi assicuro che tutti stiano bene e che siano felici. E' il mio mestiere».
«Ah», fece Yuki, mentre la sua mente le ricordava che era sempre una buona mossa dar la ragione ai folli; quindi, con la tranquillità di un tempio Zen, rispose a quel grande sorriso con un espressione mite, tranquilla, distesa. «Mestiere svolto egregiamente. Sto bene e sono felice, felicissima, una Pasqua».
In quel momento l'albina capì che quello non era un ragazzo in grado di cogliere l'ironia o il pungente sarcasmo che gli avrebbe volentieri servito. Diamine, una persona di buon umore era l'ultima che avrebbe voluto incontrare!
Corrugò la fronte, formando un solco, mentre portava una mano al setto nasale e lo premeva appena – sospirò.
«Okay, ho bisogno del suo aiuto», il "lei" sembrava un optional per lui. «per tornare al mio hotel. Oh, è tardi, 'ccidenti... ».
«Aspetta, fammi indovinare!», proruppe l'altro. «Sei una studentessa in gita scolastica e hai un coprifuoco da rispettare. Dimmi che ho ragione».
Yuki piegò il capo di lato – sorrise, sarcastica.
«... no?».
«».
«Ah!», quasi urlò. «Sono un genio!».
Sei un mentecatto che ascolta ciò che vuole e che se adesso non si muove a darmi una mano finirà per farmi da cena, con tanto di candele, pensava la ragazza, incrociando lentamente le braccia al petto.
«Io invece ho diciotto anni, sai?», fece poi, il tipo. «Presto ne farò diciannove. Non ho mai finito la scuola e, diciamo, non me ne pento. Però mi piacerebbe frequentare un istituto d'arte... !».
«Sì, okay---!». Yuki chiuse gli occhi e si prese il viso fra le mani, mentre si sporcava la bocca pallida di imprecazioni pesanti. Un attimo dopo, l'aveva rialzata, le palpebre socchiuse e le sopracciglia chiare inarcate profondamente. «Vuoi vivere allungo, scommetto. Dunque, povero idiota, dammi una diavolo di mano o finisco molto male. Okay? Okay?! Ci siamo capiti? Do you understand me?».
«... a».
«Cosa?».
«... povera». La persona – ormai di dubbio sesso – si fermò. «Casomai».
Yuki balbettò, incredula, presa decisamente in contropiede; ... era una ragazza? Questa persona davanti a lei, era una ragazza?
Oh.
Questo spiegava i suoi tratti estremamente delicati e la voce un po' troppo acuta per essere quella di un maschio – ma quei "boku, boku, boku*" l'avevano confusa, sì; mentre si rendeva conto di essere arrivata al punto di scambiare una ragazza per un ragazzo, si concesse un'occhiata più attenta, approfondita – aveva un bell'aspetto; i capelli erano corti dietro la nuca e spuntavano da sotto il capello chiuso dietro, superando appena appena la linea della mandibola, scuri come carbone; sul davanti, c'erano due lunghi ciuffi che scendevano lisci e morbidi, superando il mento. Labbra carnose e rosee, naso piccolo e con la punta verso l'alto, lo sguardo distratto quanto vitale – era una ragazza carina, sì.
«BENE!», esordì Yuki, aprendo le braccia. «Povera idiota. Come ti chiami?».
«Makoto», borbottò, inclinando il capo verso destra. «Ma non dovresti chiamare così la gente».
«Makoto come?».
«Makoto Aozawa. Ho un bel nome, vero?».
Yuki si fermò, chiuse la bocca e sembrò rifletterci – annuì. «Sì, è vero. E' un bel nome».
Sincerità**.
Quella persona – quella ragazza – in effetti dava l'impressione di possedere la tipica sincerità disarmante che ti toglie il respiro, che non permette a persona del genere di Yuki di dire cattiverie o, peggio, di commetterle. Non andava bene, dunque. Proprio per niente!
«Makoto, ho bisogno davvero del tuo aiuto, devo trovare i miei amici», e benché la parola "amici" stonasse come una nota rotta sulle labbra della mezzosangue albina, la disse, perché si sentiva stanca e voleva solo dormire. «Dove mi trovo? Come faccio a tornare alla spiaggia Kotohiki?».
Makoto appoggiò le mani sui fianchi, energica, lanciando sguardi a destra e sinistra. Yuki ebbe l'impressione che nemmeno quella ragazza dalla pelle colpita dal sole sapesse bene dove si trovassero.
«Fammi pensare», disse Makoto. «Sei dalla parte parallela al Kamashichiken, quindi... devi passare per il quartiere Miyagawachou. Ti ci accompagno!».
L'albina arricciò le labbra e poi le storse, mentre sul suo viso un espressione dubbiosa prendeva il sopravvento; farsi aiutare o non farsi aiutare? Il grande dilemma per una persona orgogliosa e superba come lei, ah! Ma il punto è che se avesse oltrepassato le 23.00, le cose sarebbero diventate insostenibili, probabilmente – lanciò un'occhiata all'orologio da polso: 22.30.
Ecco, il tempo era diventato il suo peggior nemico.
«Vabbene, diamoci una mossa».

 

 

 

***

 

 

 

Miyagawachou, una delle "città di fiori" di Kyoto.
Un tempo, era un posto – un quartiere delle geishe – noto e conosciuto per la capacità di attrarre e intrattenere i turisti, le persone in cerca di un po' di bellezza e arte; numerose erano le case da tè e i piccoli teatri che costellavano le rive del fiume Kamo, silenziosa distesa turchina.
«Peccato che di questi teatri ne siano rimasti pochi», diceva Makoto, tra un passo e un sospiro. «Le rappresentazioni kabuki dovevano essere davvero belle... ».
Mentre camminavano verso quel quartiere di svago, Yuki poteva vedere i suoi occhi sognanti e nostalgici – in un certo senso – chiedere di poter ammirare quelle scene, quei momenti di fiato sospeso. Makoto alzò le spalle, e tornò a guardare l'albina. «Almeno c'è il Minami-za**. Yuki, non ti piacerebbe vederlo?».
Makoto aveva detto che il nome sembrava esserle stato cucito addosso; oppure, che solo dopo averla vista cresciuta e più bianca della neve, avevano optato per quel nome – la mezzosangue aveva ridacchiato leggermente.
«Sì, mi piacerebbe», rispose lei. «Mi piace il teatro. Ma temo che non ci sia il tempo».
Le piaceva ma, peccato, non ci era stata poi molte volte; aveva assistito a commedie e tragedie con l'impassibilità di un giocatore d'azzardo – okay.
La verità era che qualche frasette poco gentile le era uscita più che spontanea; quando, ad esempio. aveva visto per la prima volta Romeo e Giulietta... metà teatro si era girato verso di lei a fissarla come se le fosse spuntata la coda e un corno.
Makoto, alle sue parole, aveva storto appena la bocca. «Forse per vedere tutto lo spettacolo. Ma potresti assistere un pochetto!». Mentre attraversavano il quartiere a passo svelto, sfrecciando nell'aria calda della tarda serata, aveva notato persone di ogni genere; Yuki si era un po' sorpresa, alcuni avevano una strana bellezza, e Makoto sorrideva allegra – salutava tutti.
Si vedeva che era una specie di mascotte, per quei posti.
«... Makoto», mormorò la mezzosangue, aggrottando la fronte.
«Sarà divertente. Vedrai!».
Appena il secondo di aprire la bocca e contrastare le decisioni – imprevedibili, meravigliose – di quella ragazza che si spacciava inconsciamente per un ragazzo, che il suo polso era stato afferrato e da un momento all'altro e stavano correndo; rapide e feline come gattini troppo cresciuti, sfrecciano nella folla disordinata, mano nella mano, aumentando di volta in volta la velocità – Yuki lo stava facendo anche troppo.
Senza nemmeno farci caso, era diventata talmente veloce che le sue gambe erano diventate segni indistinti e rosei, confusi nella luce di quella sera: nemmeno Makoto se ne accorgeva – ma gli altri sì. Furono i loro sibili di sorpresa e quasi paura a far riscattare l'albina – a farla fermare di malomodo, turbata. Il suo respiro era fermo, così come il corpo, finalmente – Makoto aveva il respiro frammentato, giustamente.
«Te l'hanno mai detto che sei piuttosto veloce... ? Dio mio!», ansimò, lasciando la mano di Yuki con delicatezza, per poi volgere il proprio sguardo in alto e... eccolo, in tutta la sua magnificenza; alto per tre piani – escluso quello terra – e disseminato di luci gialle che andavano colorando i muri, di giorno bianchi, di un tenue dorato.
Le finestre quadrate, piccole, il tetto tipicamente giapponese con la punta verso l'alto... le labbra di Makoto si erano già incurvate, stava già assaporando l'eleganza di quelle creature mentre si muovevano da una parte all'altra, i suoi occhi rispecchiavano le luci invitanti e i loro colori sgargianti, il loro tocco tradizionale e le orecchie, esse attendevano impazientemente di ascoltare quelle voci delicate quanto forti.
Yuki guardò con la coda dell'occhio Makoto e il suo viso – vivo e meraviglioso, era bellissima. Prima non l'aveva capito.
Prima, quando era occupata a pensare a se stessa, quando non aveva nemmeno capito che fosse una ragazza la persona che l'aveva aiutata – una piccola fitta al petto della mezzosangue
L'infima mezzosangue, la sporca mezzosangue.
«Beh? Entriamo o no?», sbottò, sbuffando prepotentemente – prima di sorridere appena e tendere la mano a Makoto.
Lei sussultò come se fosse stata colta con le mani nel sacco. «... si capisce che muoio dalla voglia di andarci?».
«Neanche un po'».

 

 

 

***

 

 

 

L'ultima cosa che gli occhi delle due avevano visto, era stato lo sfiorarsi di sottili labbra tinte di scarlatto. Poi, con la medesima velocità con la quale erano arrivate, erano scivolate via dalle proprie poltrone e catapultate fuori – il rammarico era immenso. Yuki borbottava ancora, mentre guardava verso la strada che avrebbe dovuto intraprendere per tornare al caro e amato ryokan. Già.
Per quella sera, basta così.
«Ti accompagnerei volentieri», sospirava Makoto. «ma se mi allontano troppo, farò arrabbiare il mio capo. Cavoli». 
Yuki scrollò appena il capo, con un leggero sorriso sulle labbra sottili, addolcita dalla voglia di fare di quella ragazza. Stentava ancora a credere che non fosse un maschio – wow. 
«Forza, sgambetta fino al quartiere dove devi stare, me la caverò», disse lei. «Al massimo, farò segnali di fumo».
Makoto accennò una risata – sincera come quella di un bambino.

 

 

 

***

 

 

 

Yuki aprì gli occhi.
Un'oscurità contrastata dalla luce lunare e qualche sfuggente briciolo di luce dai lampioni avvolgeva ampiamente tutta la camera, riempita di ben sette adolescenti dormienti, dopo qualche ora passata a chiacchierare – più una settima, appena svegliatasi. Era stata una cosa un po'... ecco, Yuki e Sayumi non ci teneva più di tanto – si erano scambiate una brevissima occhiata, d'altronde... – ma quelle ragazze avevano insistito in modo talmente innocente che alla fine avevano detto di sì.
«Ma... hm... Akawa-san, posso farti una domanda?», aveva mormorato una, leggermente.
E Yuki non era sicura di volerle consentire una domanda – ma annuì, in silenzio.
«Tu e Takeshi Katugawa state insieme?».
L'albina si era strozzata con il tè.
Sayumi aveva deglutito.
E silenzio.
Ormai è tutto finito, pensava, mentre girava il capo, con calma, verso l'orologio digitale sul comodino sotto la finestra – aperta, con le tende velate spostate dal leggero venticello estivo: 3.28. Aggrottò un poco la fronte, mentre alzava il busto e si metteva seduta. Perché accidenti si era svegliata, dopo la fatica – quotidiana – che ci aveva messo ad addormentarsi? Tanto per rassicurarsi, fece girare lo sguardo per tutta la stanza, scrutando i volti dormienti e rilassati delle sue compagne di classe – ma non di stanza.
Dormivano tutti. Com'era più che giusto che fosse! Probabilmente, in tutto l'hotel, era l'unica ad essersi svegliata e a starsi maledicendo, specie per essersi messa seduta.
Perché, ecco, il sonno era teatralmente dissolto.

 

 

 

***

 

 

 

Che peso morto, erano i pensieri assonnati di un seccato Takeshi mentre, facendo attenzione a non svegliarlo, spostava dal proprio petto il braccio di Kazuki – non era la sua stanza, che voleva? Quand'è che erano diventati così vicini, eh? E chi l'aveva chiesto, soprattutto – Takeshi di certo no.
Non è che considerasse quel ragazzo una sgradevole compagnia – era quasi tenero – ma, francamente, non gli interessava per nulla avere una qualche interazione sociale con i suoi coetani. Stava bene così, lui e i suoi sguardi impenetrabili, fatti di acciaio scuro.
Ma in quel momento, il problema non era certo il suo rapporto con quello là – stava ancora pensando a quella sera; l'aveva cercata in lungo e largo, aveva corso per metri, forse km e... alla fine, quando era tornato al ryokan per avvisare i professori e Tetsuya, se l'era trovata all'entrata, ad aspettarlo. L'aveva guardata e nient'altro.
Lei non si era scomposta, come al solito – ma neanche questo era un problema. Il casino stava che non avrebbe dovuto oltrepassare la soglia della camera e cominciare, con le mani nelle tasche ed un espressione accigliatissima dal sonno tragicamente perduto, a scendere le scale – giunse al piano terro.
Se avesse chiuso gli occhi e contato pecore saltellanti, magari si sarebbe riaddormentato tranquillamente.
Ah, che cavolo, ormai era inutile starci a pensare – tanto valeva scendere in spiaggia.

 

 

 

***

 

 

 

La spiaggia era deserta, immersa nel silenzio notturno. Solo lo scrosciare delle onde tiepide accompagnava i passi di Yuki sulla riva, i piedi nivei che affondavano nella sabbia bagnata e molle, vestita dalla luce lunare e di qualche lampione distante, bianca quasi quanto i suoi capelli – i pensieri altrove. Aveva tante cose a cui pensare; tante risposte che doveva ancora a molte persone, doveva ancora servire la giustizia per troppi idioti e il tempo non bastava.
Eppure, nel momento stesso in cui si dice di non aver tempo, pensava, ne si ha appena perso un altro pezzo. E' strano.
Ma lo strano era realtà, a volte, soprattutto nel suo universo. Lei e tutti quanti, presi com'erano dal cercare la razionalità, perdevano di vista le priorità che incombevano, premevano, scavavano – e poi si trovavano con l'anima scorticata. Lei l'aveva compreso e ciononostante- i suoi occhi erano ancora appannati da vetri.
«AH!», una mano fredda aveva appena toccato la sua spalla destra, nuda dalle bretelle della veste da notte, bianca come soffice neve.
Ma a parte questo, era caduta.
Di sedere.
Abbastanza forte da imprecare a voce alta, mentre appoggiava i palmi sulla sabbia e sollevava pian piano le ginocchia. «Takeshi, 'ccidenti a te! Ma si arriva di spalle, mentecatto?!». La bocca sentenziava, ma gli occhi non riuscivano a seguire le stesse idee, così come la testa; se una parte di lei avrebbe volentieri seppellito il moro nella sabbia, lasciando che la marea lo soffocasse, un'altra avrebba carezzato quel viso dai lineamenti appena spinosi e i morbidi capelli di caramello amalgamato al fondente.
E stava ridacchiando, sottovoce, per un attimo tentato di soffocarsi – le porse la mano. «Dai, vieni».
L'albina aveva inspirato l'aria marina, rinnovandosi i polmoni, prima di afferargli la mano – dalle dita sottili – e issarsi su. Un piccolo sbuffo e qualche pacca alla veste da notte, per spolverarla da sabbia tediosa. Poi, senza che nessuno avesse detto, proposto o desiderato, cominciarono una lenta e placida camminata senza meta, verso destra.
Accompagnati dal lento e musicale infrangersi delle onde e la schiuma che raggiungeva un po' oltre la riva, sfiorando appena i piedi nudi dei due.
In lontananza, c'era solo il sommesso suono di qualche macchina solitaria.
«Mi piace, questo posto», mormorò. «E' come se fossimo fuggiti da tutto per un po'». Rivolse lo sguardo verso la volta notturna e quei innumerevoli punti bianchi; talmente piccoli, forse più di una formica, ma di una luminosità e potenza fuori dal comune.
Risplendevano come diamanti imbevuti di inchiostro nero, di notte – in quella notte calda. Takeshi aveva annuito, senza dare segni di voler arrestare la sua camminata – o di volersi girare a guardarla. La brezza al sapore di salsedine accarezzava i loro visi e spostava di qualche centimetro i loro capelli, i loro vestiti leggeri e impalpabili.
Takeshi non voleva fermarsi. «Da tutto?».
«Da tutto».
Takeshi sapeva di essere esattamente il tipo da fuga. Sopportare il peso di una società arida e algida come ghiaccio, la noncuranza della propria famiglia, la propria natura illogica. No, non avrebbe avuto una tale forza da sopportare tutto questo – lui ne era certo. Per il momento, non avrebbe avuto tale forza.
«Ti piace fuggire?», chiese.
«No, in realtà no», rispose lei, stringendosi leggermente nelle spalle: un brivido si frappose fra le sue scapole scoperte, mentre calciava leggermente la sabbia vestita della luce lunare – bianca, immacolata. «Mi sembra triste, fuggire».
Un ultimo passo – ancora un enorme pezzo di spiaggia da percorrere – e Takeshi si era fermato, stavolta si era arrestato, di scatto, accompagno da un piccolo sussulto.Yuki arretrò istintivamente di un passo, prima di finire per scontrarsi contro la sua schiena. «Cos-».
«Ti senti triste, Yuki?».
Lei la guardò, allungo – la sua schiena, larga.
Perché stava guardando il retro di lui, invece dei suoi occhi? Invece di quei pezzi di cioccolato, a volte fondente, a volte al latte – espressivi come il suo sorriso. Ma adesso, non aveva importanza cos'è che stesse guardando tanto colta alla sprovvista, tanto impreparata ma- lei doveva dargli una risposta.
Una risposta che riuscisse a cavarla fuori da una situazione in cui, lei, non sarebbe sopravvissuta. In cui un suono sinistro avrebbe fatto la sua inesorabile comparsa – non voleva.
Eppure, eppure.
I suoi occhi parlavano, gridavano.
La sua bocca pretendeva, muta.
E il suo respiro si spezzava, come sul momento più importante di un film – il respiro raccolto dentro e i muscoli tesi, caldi. «Ti senti sola?».
E l'ingranaggio che teneva su quella sua maschera di porcellana si era appena incrinato – crack.
«Sono domande sconvenienti, Takeshi», riuscì infine a biascicare, abbassando il capo – lo sentì fare un "mpf". Erano domande indisiderate. Erano domande esploratrici. «... solo quando sei gentile con altre ragazze».
Ogni tanto ci pensava; ogni tanto chiudeva le palpebre, nascondeva i propri occhi, e rifletteva, pensava – si trovava a farlo e nemmeno se ne rendeva conto: quante ragazze avevano sentito la sua fragranza? Quante, quante avevano percorso la sua pelle con la punta delle dita? E a quante lui aveva regalato dolci e radioso sorrisi?
Quando la sua mente tentava di immaginare il numero, sentiva al centro del suo stomaco una sensazione simile alla nausea, e poi, un desiderio folle di prendere fra le mani tutte loro.
E Takeshi, cosa poteva saperne, lei non era mai stata chiara; proprio perché non lo era mai stata, perché lui non poteva saperne nulla che, adesso – incredibilmente –, si era girato verso di lei, con un espressione costernata in viso e l'angoscia che gli stava lacerando l'organo che teneva in vita un essere vivente.
Un espressione costernata – Takeshi la conosceva?
«Dici sul serio?», disse, la voce un po' instabile. Ci fu un attimo di silenzio, forse una decina di secondi, prima che lui prese le sue spalle – un poco brusco. «Dici sul serio? Perché se dici sul serio, io... ». Ancora una volta, s'interruppe.
Abbassò lo sguardo, scosse il capo e lentamente, fece scendere le proprie braccia lungo i fianchi – si diede dello stupido. Cosa aveva pensato, per quell'istante?
«Se dici sul serio, io sarò quel che dice il mio nome», disse. «Sarò il tuo Takeshi****».
E le diede le spalle, forse più afflitto di poc'anzi.
Sarebbe stato ciò – e null'altro.
«Take... ».
«... dimmi».
«Take, io... ».

 

 

 

***

 




«Take, io ti amo. Sono innamorata di te, stupido mentecatto».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* boku, boku, boku: "boku" significa "io" in giapponese ed è la forma usata dal genere maschile, diciamo... nell'età adolescienziale.

** sincerità: Makoto significa "sincerità".

*** Minami-za: tecnicamente, avrei dovuto scrivere anche su i due quartieri but- il Minami-za è il principale teatro kabuki di tutta Kyoto.

**** Takeshi: il nome Takeshi significa "guerriero, soldato". Insomma, lui sta intendendo che sarà il suo protettore.

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

... ah.

... mio Dio, siamo già arrivati a questo punto. Stento davvero a crederci. OH MIO DIO.

Sapete, qualche notte mi capita di mettermi a pensare a VD, a quello che deve ancora succedere e... mi rendo conto che dopo VD, probabilmente non saprò cosa scrivere.

Tutt'ora non sono sicura di cosa fare dopo VD.

Oddio, che tristezza. D:

In ogni caso- spero che il capitolo vi sia piaciuto! cvc


Night, ovviamente, con affetto.

  
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