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Autore: _Frame_    17/01/2015    1 recensioni
La giovane Cheshire rivive le memorie del suo primo trip allucinogeno attraverso le immagini registrate dalla telecamera del suo migliore amico durante un viaggio ad Amsterdam.
L’occasione perfetta per ripercorrere la serie di eventi che le hanno cambiato la vita.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Terzo Fungo

 

La luce del giorno abbaglia lo schermo. L’icona della batteria è tornata verde e piena, le scritte in basso a destra segnano le nove e ventuno del ventisette dicembre.

“Buongiorno a tutti.” L’inquadratura si avvicina al mio busto già vestito. Mi sto annodando la sciarpa attorno al collo e la fioca luce grigiastra fa scintillare i fili d’argento che si intrecciano alla lana nera. “Sono le nove e ventuno minuti del ventisette dicembre.” Zoom sul mio viso basso, concentrato sul nodo della sciarpa. “E Cheshire è tornata.”

“Dormire mi ha fatto bene, credo. Mi sento ben riposata.” Stringo i lembi di stoffa. Guardo fuori, poggio la fronte sul vetro e chiudo la mano attorno agli occhi. “Fuori sta nevicando, c’è una bella bufera.”

La telecamera torna lontana, mi riprende fino alle gambe.

“Magari andiamo a visitare qualche parco. Ci manca la zona nord est.”

Mi volto senza staccare il fianco della mano dal vetro. “Hai ancora i Ritter Sport?”

“Sono qui.” Shiro fa qualche passo con la telecamera in mano e riprende i due quadratini di cioccolata sul tavolo. Uno avvolto nella plastica azzurra e uno in quella marrone. Prende quello già aperto e me lo mostra. “Non è meglio fare una colazione decente?”

Storco il naso e scuoto la testa. “No, non ho tanta fame. Mangio quelli per non rimanere a corto di zucchero e basta.”

Mi avvicino a Shiro e gli prendo il Ritter Sport dalle dita. Spremo la cioccolata fuori dall’involucro azzurro e ne prendo un boccone. Shiro sghignazza.

“Perché ridi?” Prendo un altro morso.

“Quando ieri sono andato a prenderti il quarto bicchiere di acqua e zucchero, la tizia della reception si è messa a ridere dicendo che oggi ti saresti messa a dieta.”

Ingoio, mi giro, e strappo un altro quadretto. Appallottolo la plastica e la lascio cadere sul tavolo. “Stronza.”

Shiro ribalta la telecamera e torna buio.

 

 

I suoni del tintinnio di posate, del brusio di voci e dello schiumare della macchinetta del caffè arrivano prima dell’immagine. La luce si schiarisce, la telecamera appoggiata sul tavolo del ristorante chiude l’inquadratura.

“Cheshire.”

I miei occhi spenti sono fermi sul piatto di riso. La mano ruota, rimesta la forchetta tra i chicchi immersi nel sugo alle verdure e non si solleva.

Shiro sussurra piano. “Cheeeshiiireee.”

Scrollo il capo e tiro su la fronte con uno scatto. “Eh?”

Guardo la telecamera, alzo gli occhi su Shiro.

“Ti eri incantata.”

“Oh, s-scusa.”

La cameriera dalla pelle olivastra passa dietro di me reggendo un vassoio con due bicchieri di cola e ghiaccio.

Torno a guardare il piatto di riso, affondo la forchetta più in profondità e mi massaggio le tempie con la mano libera. “Stavo solo pensando.” Sollevo la forchetta e il boccone sparisce tra le labbra.

“È buono il riso?”

Annuisco con ancora la forchetta tra i denti. “Ottimo.” Inclino il piatto e Shiro avvicina la telecamera. Sollevo un asparago con la forchetta, lo sposto vicino a un fagiolino sporco della polpa di pomodoro. “Ci sono un sacco di verdure che non mi piacciono.” Raccolgo una carota e la mangio assieme a un po’ di riso. “Ma è talmente buono che non le sento nemmeno.”

Un uomo seduto al tavolo dietro di noi solleva il braccio, la cameriera accorre e appunta sul blocco di fogli la sua ordinazione. Fa un piccolo inchino e torna a sparire dallo schermo.

Passo la punta della lingua tra gli spuntoni d’argento della forchetta, raccogliendo ogni spruzzo di sugo alle verdure. Gli occhi si spengono. Torno in stand-bye.

“Pensi ancora?” Shiro appoggia la telecamera sul tavolo.

Forzo un sorriso. “Credo che mi ci vorrà qualche giorno prima che sparisca del tutto l’effetto.” Piego un gomito sul tavolo e mi prendo la fronte. “Non so, sento...” I polpastrelli insistono il massaggio sulle tempie. “Sento come se ci fosse ancora una piccolissima parte di me bloccata di là. Se penso troppo e mi concentro su qualcosa rischio di estraniarmi di nuovo.”

Shiro lascia passare qualche secondo. “Hai paura di tornare di là?”

Chiudo gli occhi. Il sorriso diventa un ghigno teso e nervoso. “Una paura fottuta.”

Torna il buio.

 

 

Il tabellone delle partenze abbaglia con le sue luci multicolori lo schermo della telecamera. Ci vuole qualche secondo prima dell’assestamento completo dell’inquadratura. Due spie verdi si accendono affianco ai voli per Zurigo e per Dubai. Sono iniziati i check-in.

“Eccoci.” Zoom sul nostro volo Amsterdam-Venice, il logo della KLM lampeggia sulla sinistra. “Siamo all’aeroporto, sono le sei e tre minuti. Abbiamo il volo alle otto e trenta in punto e siamo in perfetto orario.”

La telecamera si abbassa, mi riprende di schiena mentre mi addentro tra la folla con il trolley in mano. Sollevo il braccio e sventolo il palmo.

“Ciao, Amsterdam.”

“Ciao!” Shiro ripete il saluto e mi corre incontro. Le ruote della sua valigia fanno rumore sulle piastrelle. “Cosa ci inventeremo quando ci chiederanno cosa abbiamo fatto?”

Scrollo le spalle, guardo avanti. “Basterà omettere la storia dei funghi e sembrerà una vacanza normale. Meglio se racconti tu, però, sai che io scoppierei subito a ridere.” La telecamera immortala il mio sguardo d’intesa rivolto a Shiro. “E poi sei il più credibile.”

“Oh, grazie.”

Shiro si inquadra i piedi e fa scendere il buio sullo schermo.

 

 

Le mie gambe dondolano dalla sedia di plastica dell’aeroporto. Si vede solo il taglio d’inquadratura che va dalle mie ginocchia alla punta dei piedi. Ora che mi ricordo, è stato quando Shiro aveva premuto per sbaglio il tasto di registrazione.

“Sei nervosa?”

“Un po’ agitata.” Le mie mani si intrecciano sulle ginocchia. Sistemo la posizione spingendomi verso lo schienale. “Mi capita sempre in aereo.” Piego il gomito e mi prendo la fronte. Si vedono solo i capelli che coprono il braccio. “Dio, spero di avere il posto vicino al finestrino.”

“Io spero che abbiano imbarcato i bagagli sul volo giusto. Abbiamo fatto il check-in tutto da soli, secondo me abbiamo combinato qualche disastro e ora le valige staranno andando in Australia.”

Rido piano. Le gambe restano immobili, le dita non si tolgono dal viso. “Forse avrei dovuto prendere qualcosa ai miei.” Scrollo le spalle, la voce resta bassa, poco più di un sussurro. “Tanto non credo che si aspettino qualcosa da me, non porto mai niente a nessuno. E le bacchette per March Hare me le farò rimborsare.” Raddrizzo le spalle e i capelli scendono di più. Ho inclinato il capo di lato. “Piuttosto, sembrerà sospetto il fatto che io non mi sia comprata un souvenir.”

“Di’ che il tuo souvenir è stato il viaggio in sé.”

L’altoparlante invita il signor Delacroix a recarsi al gate D10. Il suo volo per Madrid sta imbarcando senza di lui.

Accavallo le gambe, intreccio le braccia al petto. Mi chiudo a riccio.

“Grazie.”

“Mhm? Per cosa?”

“Be’, direi che sono in debito con te per i prossimi cinquant’anni.”

“Per l’amor del cielo, Cheshire.” Anche Shiro dondola le gambe e l’inquadratura della telecamera si muove. Ora riprende il mio viso basso, le labbra immerse nel colletto della giacca. “L’importante è che non ti sia successo nulla.”

Il mio viso è impassibile. A vedermi così, sembra quasi che io mi vergogni ad alzare gli occhi. “Scusami se...” Sollevo un braccio e mi gratto dietro la nuca. “Se ti ho fatto assistere a quello. Giuro che non – ehi, hai lasciato la telecamera accesa.”

“Cosa?” Shiro ribalta la telecamera, lo schermo si riempie del suo viso. “Oh, cacchio, si è accesa da sola.” Allunga le dita sul fianco. “Forse ho premut –”

Buio.

 

 

La telecamera si attiva, il pallino rosso lampeggia di fianco alla scritta REC, la data e l’ora si aprono nella parte bassa dello schermo. 6 gennaio, 20:13. La spia della batteria è metà carica, è già diventata gialla.

Sullo schermo compare l’immagine del tavolo della cucina, illuminato solo dal raggio di luce del lampadario a soffitto. Qualche foglio sparso è immobile sul ciglio del bordo. I miei passi riempiono il silenzio, la mia schiena cammina davanti all’inquadratura, e prendo la sedia. Mi metto di fronte alla telecamera, incrocio le mani sul tavolo e guardo dritta verso l’occhio artificiale.

“Okay, ehm.” Tendo la mano verso la telecamera. “Shiro mi ha prestato la telecamera perché a quanto pare terrà davvero le registrazioni e vuole che io faccia una confessione live, o una roba così. Ora sono passate circa due settimane da quando è successo e dovrei essermi ripresa abbastanza per parlarne lucidamente.” Mi gratto dietro la nuca, guardo in basso. “Dunque...” Fermo le dita. Stendo le braccia e mostro i palmi. La voce si fa più ferma e decisa. “Innanzitutto ci tengo a precisare che è come se mi fossero rimaste addosso le cicatrici.” Taglio l’aria con il fianco della mano. “Ormai è passato, ogni più piccola traccia di fungo se n’è andata dal mio corpo, ma è come se ne sentissi ancora il sapore. E questo mi fa pensare al fatto che, mentre ero in trip, la prima cosa che ho giurato a me stessa è stata che non lo avrei mai più rifatto, mi ricordo che sentivo...” Punto un indice alla tempia e faccio roteare il dito. “La testa girare e riuscivo solo a pensare ‘Che cazzo ho fatto? Che cazzo ho fatto?’”

Inspiro. Poso le mani sul tavolo e mi concedo qualche secondo.

 “Il motivo per cui ho provato i funghi è stato per testare i limiti del mio cervello e ho vissuto il trip con questo pensiero, ma mi ricordo che allo stesso tempo, sul momento, dicevo a me stessa: ‘Oh, andiamo, sei intelligente abbastanza da poter aprire la mente solo con le tue capacità. Perché diavolo ti sei andata a cacciare in questo guaio per una cosa che sei benissimo in grado di fare da sola?’” Appoggio un gomito sul tavolo e prendo le tempie tra pollice e medio. “Alla luce di tutto quello che è successo, direi che non riesco comunque a sentirmi pentita. Ho sofferto come un cane, ho davvero visto l’inferno, ma allo stesso tempo sono davvero...” Scrollo le spalle, mi scappa una risatina. “Felice è una parola grossa, ma sono soddisfatta di come ne sono uscita. Credo davvero che il mio cervello, la mia mentalità, abbia subito un qualche cambiamento e va benissimo perché è questo che cercavo.” Arriccio le labbra e scuoto la mano, come se rimestassi i pensieri per trovare le parole adatte. “Credo che sia come quando una donna partorisce, no? Sul momento non vede l’ora che finisca e giura a se stessa che non rimarrà mai più incinta, poi però nasce il bambino, lei inizia a pensare di volerne altri eccetera, eccetera, e alla fine ci ricasca. Non ho ancora avuto figli ma credo che sia questo quello che si prova.”

Tamburello le unghie sulla superficie di legno. Scosto lo sguardo sui fogli, poi sul pavimento. Torno a posare gli occhi sulla telecamera ma le unghie non fermano il ticchettio sul tavolo.

“Uhm, quando ha iniziato a girarmi la testa, dicevo a Shiro che c'era qualcuno che mi stava trascinando e che non mi voleva lasciare andare. Credo davvero che sia più o meno andata così, ma era il mio cervello che mi stava trascinando verso il basso. Era come...” Chiudo le mani come se stessi reggendo due grosse sfere invisibili e mi guardo i palmi. “Come se mi avesse voluto portare in un’altra dimensione ed è stato lì che ho iniziato ad avere paura. È stata colpa mia.” Annuisco a me stessa con decisione. “È stata sicuramente colpa mia se si è innescato il bad trip perché non ero rilassata, Dio Santo, tremavo. Poi ho iniziato a pensare di essere spacciata perché non c’era modo di tirare i funghi fuori dal mio corpo e, se fossi dovuta morire lì, ormai non c’era più niente da fare. Però...” Sollevo un indice e guardo a fondo dentro l’occhio della telecamera. “Però ho capito perché ho avuto delle allucinazioni così deboli. Sono stata io a bloccarle.” L’indice preme sul petto due volte. “Io avevo paura di cosa avrebbe potuto fare il mio cervello e gli ho impedito di trascinarmi nel trip. È stato per quello che ho sofferto, perché ho lottato contro qualcosa più grande di me. Ecco, ho fatto uno schema...”

Spargo i fogli su tutto il tavolo, guardo ogni singola pagina, ne sollevo una, la volto e torno a posarla. Ne prendo un’altra e i miei occhi s’illuminano. “Ah, ecco.”

Volto il foglio e lo avvicino alla telecamera, sporgendomi con il petto sul tavolo.

 “Era come se io stessi cadendo in un imbuto.” La telecamera inquadra il mio scarabocchio. Due larghe pareti che si restringono dall’estremità più alta a quella più bassa. Ho passato la penna più volte, e le linee sono fitte e grezze. “Invece che lasciarmi serenamente andare e godermi quello che c'è sul fondo, quindi il trip...” Percorro con il dito la discesa e fermo il polpastrello sul fondo stretto. Lì si allarga in una bolla ripiena di garbugli e ghirigori neri. “Io ho avuto paura e ho cercato di aggrapparmi alle pareti.” Torno su col dito e indico uno dei lati dell’imbuto. “Mi tenevo letteralmente con le unghie e con i piedi, scivolando lentamente verso il basso ma senza toccare il fondo.” Il dito va in basso, torna in alto, e di nuovo in basso. “Ne uscivo e ritornavo. Risalivo, non avevo abbastanza forze per tenermi su e andare avanti, e così tornavo a scivolare.”

Mi torno a mettere seduta e sposto il foglio da davanti l’inquadratura. Torno a sparpagliare le altre carte davanti a me.

 “Shiro ha ipotizzato un andamento a campana e abbiamo anche elaborato un altro grafico.” Prendo uno dei fogli che avevo scartato prima e torno a sporgermi davanti alla telecamera. Una parabola che si gonfia verso l’alto. “La campana c’era, ma anche all'interno della campana avevo i miei alti e bassi.” Il mio indice percorre la linea curva su cui passa una serpentella che si aggroviglia su tutta la campana. “Era una fottuta montagna russa dell’orrore. Diciamo...” Il foglio scopare. Riprendo il disegno dell’imbuto. “Diciamo che sono rimasta ferma qui.” Indico il tratto che si assottiglia qualche centimetro più in alto della bolla finale. “Io ho visto quell’inferno solo da fuori, ho solo visto le porte, ne ho avuto paura e, mentre la mia mente ha continuato a tirarmi verso il basso, io ho incominciato la frenata.”

Poso i fogli. Mi torno a mettere comoda e sistemo la sedia facendo aderire la pancia al bordo del tavolo.

 “Questo credo sia uno dei motivi che mi spinge a voler riprovare.” Scuoto la mano davanti al viso come volessi ritirare le parole. “Non domani di sicuro, e forse nemmeno tra un anno. Ma forse, un giorno, magari con qualcuno di esperto...” Mi torno a grattare la nuca. Passa qualche secondo e io sospiro. Le unghie grattano con più insistenza. “Shiro...” Apro le mani sopra il tavolo. “Shiro è stato molto utile. Diciamo che lui era il mio aggancio alla realtà, era una fune a cui mi aggrappavo per non toccare questo fondo. Per questo gli chiedevo di continuo di parlarmi. Mi bastava sentire la voce ma non capivo sempre cosa mi diceva.” Faccio roteare l’indice vicino all’orecchio. “Non riuscivo a collegare le parole, e sentivo solo un brusio. Altre volte invece capivo tutto ma non riuscivo a parlare.” Poso entrambe le mani sul petto. “Dentro di me ero lucidissima, e urlavo come una pazza quando Shiro diceva delle cazzate. La mia testa gridava ‘Che cazzo stai dicendo, Shiro? Quando esco di qui ti ribalto.’ Ma non riuscivo proprio a muovere la bocca e gli occhi, anche se sentivo Shiro che mi ordinava di farlo.” Guardo di lato e poso il mento sul dorso della mano. “Per far capire quanto effettivamente ero lucida dentro di me basta sapere che riuscivo addirittura a pensare in inglese.” Punto l’indice verso la telecamera come stessi accusando lei. “Ero incazzatissima con quelli dell’ostello. Li sentivo parlare fuori dalla porta e non capivo perché non entrassero a darmi un’occhiata. Dentro di me ho urlato tantissimo. Gridavo: ‘Get me out of here!’ O era ‘Take me out of here!’? Ma quelli non arrivavano e sentivo rintronare solo la frase di quel tizio che aveva detto ‘It’s a trip.’ Ero...”

Le mani tornano tra i fogli. Ne sollevo due e li volto. Sguardo concentrato.

“Ero... in una bolla.” Ne tengo solo uno in mano e lo mostro all’inquadratura. “Così.” Il disegno ritrae una piccola sfera dentro a un quadrato, tutti e due tracciati con un pesante calco di penna nera. “Io ero imprigionata qui.” Indico la sfera che volteggia in mezzo al perimetro del quadrato. “Ero lucida e cosciente di tutto quello che stava accadendo ma non potevo fare nulla perché il corpo me lo impediva.” Percorro il quadrato da cui spunta una freccia che indica la parola CORPO. Poso il foglio.

“E ho avuto per mezz’ora questa frase che mi girava attorno alla testa e non se ne andava.” Prendo tutte le pagine sventolanti, le allineo battendole sul tavolo e rido. “Credo sia stato in quel momento che ho pienamente realizzato di essere strafatta di funghi allucinogeni.” Poso i fogli sul bordo del tavolo. “Probabilmente se fossi stata da sola ne sarebbe uscita una catastrofe, ma allo stesso tempo avrei forse vissuto pienamente il trip.” Allungo il pollice indicandomi le spalle. “Quando Shiro usciva dalla camera sentivo davvero di essere solo io e il trip, e allora andavo in paranoia perché avevo paura di finire nell’inferno, nella bolla alla fine dell’imbuto. Per questo gli ho chiesto di lasciare la porta e le tende aperte. C’è stato un momento in cui ho avuto...” Irrigidisco le braccia lungo i fianchi imitando la posizione di un manichino. “Il corpo completamente paralizzato e l’unica cosa che sentivo era la mano di Shiro che stringeva la mia e come...” Passo un palmo sull’altro. “Un fuoco che bruciava tra i due palmi. Era la mia unica ancora. Probabilmente sarei davvero affondata senza.”

Mi guardo intorno, sto pensando, e intreccio le mani sul tavolo, stando a gomiti piegati.

 “Poi mi è tornato in mente quando avevo pensato di ordinare i funghi su internet per mangiarli a casa e per fortuna non è stato così, Dio.” Affondo il viso tra le mani lasciandomi scivolare in avanti. “Per fortuna non li ho mangiati a casa.” Rido. Scollo la faccia dai palmi e mi ricompongo i capelli. “Se avessi preso i funghi a casa, innanzitutto avrei chiesto di portarmi in ospedale com’è successo ad Amsterdam e lo avrebbero fatto. La mamma e il papà mi avrebbero vista in quelle condizioni e probabilmente la mamma si sarebbe ammazzata dalla disperazione. E non è un modo di dire. Poi mi sarei ammazzata io.” Mi indico il petto. “Perché avrei avuto a disposizione la mia cucina con i coltelli.” Abbasso la voce, mi guardo alle spalle. Quando torno a fissare la telecamera, i miei occhi sono più scuri. “C’è stata davvero una fase in cui avrei voluto tagliarmi la gola. È stato quando siamo rientrati dalla camminata al supermercato e mi sono messa a dormire abbracciata a Shiro. Lì davvero iniziavo a non farcela più e ho pensato che l’unico modo per far uscire quella cosa dalla mia testa fosse tagliarmi la gola.” Allargo i palmi come stessi dicendo una cosa ovvia. “Se avessi avuto a disposizione un coltello o una lama, probabilmente lo avrei fatto. Per fortuna non è andata così. Ah, poi mentre ero distesa mi sono tornate in mente tutte le cose che avevo letto sui funghi quando avevo iniziato a documentarmi.” Sollevo gli occhi al cielo ed elenco i ricordi sollevano un dito alla volta. “Il fatto che potesse dare danni permanenti al cervello, il fatto che cambiasse per sempre la personalità e che aprisse la mente. E avevo queste frasi che volteggiavano e si stringevano ad anello rimbombandomi nel cranio.” Ci penso un attimo. “Uhm, poi mi sono tornate in mente tutte le scene dei film in cui compaiono i funghi e di come sembra divertente da fuori. Mi è venuto in mente Funeral Party dove il tizio che prende l’allucinogeno dice di avere delle mani enormi, e in quel momento mi sono guardata le mani e mi sono davvero sembrate enormi. Poi ho avuto per almeno un’ora la visione della puntata dei Griffin, di quando è Brian a prendere i funghi e a un certo punto va in bagno con un paio di forbici dicendo di doversi tagliare l'orecchio.” Mi indico la testa. “Per prevenire la terza guerra mondiale. Ecco, quella frase: ‘Devo tagliarmi l’orecchio per prevenire la terza guerra mondiale’ mi ha frullato nel cranio e non se ne andava, diventava forte come una martellata a ripetizione. Poi...” Scrollo le spalle, scuoto il capo. “Non so.”

Assottiglio le palpebre e guardo la telecamera. Tendo il braccio e allungo la mano sopra lo schermo della registrazione.

 “Da quanto diavolo sto andando avanti a parlare?”

La volto. Torna il buio.

 

 

La scena riparte. Sempre io seduta al tavolo, con uno stacco di appena due minuti dall’interruzione.

“Quando...” Le dita tamburellano davanti a me. Sollevo lo sguardo al soffitto, pensosa. “Quando ero distesa sul letto era più facile fare su e giù per l’imbuto, se possiamo chiamarlo così. Mi davo per morta, ormai, era come essere in coma. Sentivo tutto e non potevo reagire.” Mi strofino una tempia. “I momenti peggiori erano quelli di lucidità perché realizzavo che non ne sarei uscita nonostante lo volessi. Poi c’erano i momenti in cui ero totalmente rilassata e immaginavo il mio corpo sciogliersi come la ragazza sulla copertina del DVD de ‘La maschera di cera’.” Muovo le dita davanti alla faccia come stessi imitando il colare di una cascata. “Pensavo che sarei rimasta in coma ad Amsterdam per sempre e che poi sarebbero arrivati mamma, papà, March Hare. Io li avrei sentiti, non avrei potuto parlarci perché ero in coma ma li immaginavo lì, vicino a me. Poi pensavo che mi avrebbero sbattuta in manicomio e per un momento l’ho trovato sinceramente divertente.” Annuisco con aria decisa. “Mi dicevo ‘Ehi, dev’essere figo fare terapia di gruppo con dei veri malati di testa mentre io sono totalmente a posto, no?’” Mi stringo nelle spalle. “Un po’ mi sono consolata. Ho toccato il fondo, mi dicevo. Questo è il vero fondo, Cheshire, non quello che credi di aver colpito da un anno a questa parte. Se ne esco di qui, allora non ci sarà più nulla da temere, si risolverà tutto.” Mostro un palmo al soffitto. “I problemi a casa, quelli con mamma e papà. Tornerai a casa e andrà tutto bene, non potrebbe mai andare peggio di così. Ricomincerai, ricomincerai.”

Affondo una guancia sul palmo aperto, poggiando tutto il peso sul gomito piegato sul tavolo. Guardo di lato, una ciocca di capelli scivola dalla fronte e mi copre le nocche.

 “Il problema è che adesso, dopo aver scoperto questa cosa, dopo aver sfiorato l’inferno, è nata dentro di me questa dannata convinzione che sia quella la realtà, e inizio a preferire la consapevolezza del vero inferno piuttosto che l’illusione del paradiso.” Roteo il polso ed emetto una risata amara. “Che poi non è nemmeno così paradisiaco.” Rido di nuovo. “Cammino, mi guardo in giro, e sento di non appartenere più a questo.” Indico il tavolo con entrambi gli indici. “Non ho mai voluto appartenere a questa dimensione, ho sempre schifato le persone ma, ora che finalmente ho trovato una via di fuga e ho intravisto quello che potrebbe essere il mio vero mondo, ne ho paura. Non so più da che parte stare, non so più da chi lasciarmi tirare. Prima o poi la corda si spezzerà, no? Questo credo...” Nascondo gli occhi dietro la mano. Mi lascio scivolare sul tavolo e sospiro. Un lungo e profondo sospiro che mi inasprisce la voce. “Credo che nemmeno Shiro riuscirebbe a capirlo.”

Le unghie battono sul tavolo. Resto immobile, passano due minuti sullo schermo della telecamera e la spia della batteria residua si abbassa. Adesso è rossa e lampeggia come il pallino del REC.

Alzo un indice. “Una volta.” Apro i palmi e li rivolgo uno contro l’altro come stessi reggendo una scatola rettangolare. “Mi basterebbe riprovare una volta sola, lasciandomi andare veramente al trip, e allora credo che capirei davvero tutto.” Mi abbandono allo schienale della sedia e incrocio le braccia dietro il collo. “Non sono la prima e non sarò l’ultima a farmi di funghi ma...” Scrollo le spalle. “Non so...” Scuoto il capo tre volte. “Non so più nulla ora. Se prima c’era una crepa tra me e le persone, ora si è aperta  una voragine.”

Un mio occhio cade sulla telecamera, attirato dalla lucetta rossa. Mi sporgo in avanti, ribalto l’apparecchio e inquadro il tavolo.

“C’è ancora batteria?” Emetto un’esclamazione. “Porca miseria è al dieci percento. Adesso ti –”

Buio.

 

 

Sollevo il braccio e punto il telecomando contro il televisore. Spingo l’unghia contro il pulsante rosso in alto a sinistra e una linea bianca attraversa lo schermo. Il filmato si interrompe, inghiottito dal nero. Poggio il telecomando sul tavolino, facendo spazio tra i fogli di carta stagnola stropicciata, i cucchiai anneriti e due piatti di plastica incrostati di sugo. Una lattina di birra vuota rotola a terra.

Sospiro e mi lascio sprofondare nello schienale della poltrona. Una molla emerge dall’imbottitura e mi preme sulla spalla. Mi sistemo e abbasso le palpebre, rilassandomi.

È stato un delizioso tuffo nei ricordi. Se penso che ormai sono passati più di tre anni da quando ho mangiato la mia prima dose di fungo allucinogeno... Qualche mese dopo mi sono fatta accompagnare di nuovo ad Amsterdam in pulmino, a comprare le spore. Anche ora le coltivo. Non è esattamente il business che va per la maggiore, ma almeno riesco a tirar fuori i quattrini per non morire di fame.

Socchiudo un occhio e sbircio l’orologio appeso al muro. Le quattordici e sedici. Tra meno di un quarto d’ora ho un appuntamento con un cliente.

Stiracchio le braccia dietro la schiena e stendo le gambe, sgranchendo i muscoli. Che palle, oggi proprio non ho voglia di uscire per andare alla stazione. Spero almeno che questo tizio mi paghi in contanti. Se io e Mad Hatter non mettiamo insieme un buon gruzzolo entro la fine del mese, va a finire che ci sbattono fuori dall’appartamento. E pensare che lui è stato il mio primo cliente. Dopo che mi hanno cacciata di casa è stato lui a raccogliermi con sé alla stazione. Ovviamente lo ha fatto solo perché mi ero portata dietro le siringhe con le spore di funghetti. È stato uno scambio equo. La sua ospitalità per una mia dose di funghi al mese e la promessa della spartizione delle spese condominiali. Mad Hatter è proprio il mio salvatore.

Torno a tastare la superficie del tavolino, stando attenta a non bucarmi le dita con qualche siringa scoperchiata. Raggiungo la cornetta del telefono e la appoggio all’orecchio. Silenzio. Non hanno ancora fatto tornare la linea. Che diamine, quella era solo la seconda bolletta che non pagavamo. Se solo ci dessero più tempo...

Riaggancio la cornetta. L’ultima telefonata l’ho ricevuta qualche settimana fa, credo. March Hare mi ha invitata alla cena di Natale, ma ho declinato subito. Figuriamoci se rimetto piede a casa! Lui ha insistito tanto, però. Dice che gli manco. Forse andrò a trovarlo, tanto ora vive in un monolocale con i suoi compagni di università. Poi a quel tempo non mi ero nemmeno accorta che era arrivato Natale.

Torno a lanciare un’occhiata al muro, più in basso, verso il calendario che penzola solo da un angolo. È fermo a settembre. Guardo le finestre nascoste dalle tendine scure e sporche. Solo un raggio di luce filtra e passa attraverso i grani di densa polvere che riempiono l’aria della stanza. Qui dentro si perde la concezione del tempo.

Scollo la schiena dalla poltrona bucata e mi chino verso il tavolino. Come pensavo, le siringhe di Mad Hatter sono ancora scoperchiate e incrostate di sangue in punta. Quante volte glielo devo ripetere che così non filtrano più nemmeno lavandole e dobbiamo andare a procurarcene altre? I soldi non ci bastano nemmeno per mangiare, figuriamoci se possiamo permetterci siringhe nuove di zecca. Quando rientra le sente.

Mi tasto la cinta dei pantaloni e allargo l’elastico. Riesco a vedermi le mutandine. Sono dimagrita tantissimo da quando vivo qui, ma non quanto Mad Hatter, comunque. Lui sembra uno scheletro ambulante, anche perché ha molto meno appetito di me. Ogni tanto riusciamo a prenderci qualcosa di preconfezionato e, se il gas è disponibile, riusciamo persino a scaldarcelo! Ecco, è in quei momenti che mi sembra davvero Natale. Per il resto, solo cibi freddi. Pane, yogurt, qualche formaggio spalmabile. E kiwi. Quelli non mancano quasi mai.

Sistemo le carte di stagnola, liscio la superficie scricchiolante guardando se tra le pieghe è rimasto qualche residuo. Pochissimi grani bianchi rotolano sulla superficie argentea e cadono sul piattino di plastica. In fondo, non importa se oggi non mi pagano in contanti. Molti clienti preferiscono barattare i funghi con l’ero. È così che iniziato a bucarmi. Non sono ancora arrivata ai livelli di Mad Hatter, ma ogni tanto sento anch’io l’astinenza.

Mi sfrego il braccio, la pelle pizzica ancora e preferisco non sollevare la manica della maglia per vedere come si è evoluto l’ematoma. Non ho ancora imparato a trovare la vena al primo colpo, e devo bucarmi almeno tre volte di fila prima di fare centro. Comunque sto imparando.

Dalla cucina arriva un fracasso di pentole che cadono dalle mensole e rotolano sul pavimento. Qualcosa sta rimestando tra le posate. Un oggetto metallico colpisce il fondo delle pentole, i tuoni emettono un suono più ovattato, ora sta colpendo la cornice della finestra. È passato all’anta del frigorifero.

Mi prendo la fronte tra le mani. Dio, la Lepre Marzolina si è rimessa a fare casino. Non oso nemmeno andare di là a controllare il macello che sta facendo. Lascerò fare a Mad Hatter quando tornerà, dopotutto è lui quello con cui va più d’accordo.

Lo sfogliare della carta mi fa voltare lo sguardo sul guanciale della poltrona. La Regina di Cuori è seduta con le gambe ciondolanti verso il pavimento, coperte dalla stoffa vaporosa della gonna di pizzo. Strappa degli schemi dal blocco di appunti, ferma la penna su un cerchio diviso in dodici sezioni e traccia una linea verde affianco a quella viola e a quella blu.

“Mercurio in opposizione con Plutone. Mercurio in opposizione con Plutone.”

Volta lo sguardo verso di me, stringe i denti attorno al lecca-lecca a forma di cuore rosso che tiene tra le mascelle fino a che le crepe scricchiolanti non ricoprono lo strato di zucchero. Sporge il capo di lato per far fluire i boccoli rossi dagli occhi. Mi mostra il foglio contrassegnato in alto a sinistra con la mia data e luogo di nascita, indica una sezione marchiata con i simboli astronomici che io non so tradurre. Il cappuccio della sua penna batte più volte, fino a piegare la carta.

“Mercurio in opposizione con Plutone! Catastrofe, ragazza mia, catastrofe!” Si toglie il lecca-lecca dalla bocca, stringe sul manico di legno, e si passa la sagoma di zucchero a forma di cuore sotto la gola come un coltello. “La tua testa farà così.” Piega il capo di lato fino a toccarsi la spalla con l’orecchia e tira fuori la lingua.

Scrollo le spalle. In fondo, che mi importa?

Una piccola zampina mi strattona la manica della maglia. Rivolgo lo sguardo verso il basso e incontro il musino del Bianconiglio che mi osserva. Il coniglietto agita il musino e i baffetti vibrano. La montatura degli occhiali rettangolari scivola in avanti, lui stacca la zampina dalla mia maglia e se li rimette apposto. Mi tende l’altra zampa ancora chiusa.

Già, che mi importa? Ho raggiunto il mio fondo, me lo sono cercata io e mi sta bene così.

Il Bianconiglio apre le unghiette. Tra la peluria bianca giacciono tre funghetti messicani. Quelli della prima volta.

Allungo le dita e ne prendo uno per il gambo. “Grazie, non avevo proprio voglia di alzarmi per andarli a prendere.” Lo ficco nella guancia in un solo boccone e inizio a masticarlo. “Al diavolo l’appuntamento. Darò la colpa a Mad Hatter. Se quello là ci tiene così tanto alla sua dose, che venga a prenderla qui.”

Il Bianconiglio si mette sulle punte delle zampe posteriori e lascia scivolare sulla mia mano il resto dei funghi. Inclino il collo e li butto giù tutti e due. Mastico a grandi boccate, mi rilasso sullo schienale della poltrona.

La Lepre Marzolina continua a fare casino con le pentole, la Regina di Cuori sbraita qualcos’altro a proposito di Marte che è in Decima Casa ed è pure in Ariete. Allungo una mano verso il basso e carezzo la soffice peluria sulla testolina del Bianconiglio. Sono felice di essere riuscita ad andare oltre le porte, di aver superato la strozzatura dell’imbuto. Mi ci è voluto un bel po’, non potrò più tornare indietro, ma sono contenta perché la mia vita di prima era tre volte più miserabile di questa. Sento i baffi del Bianconiglio farmi il solletico al polso. Sì, sono davvero felice.

Inghiotto la poltiglia insapore di funghi allucinogeni e finalmente c’è la luce.




Fine 

   
 
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