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Autore: Sara Saliman    18/01/2015    5 recensioni
Dopo un lungo silenzio, la fronte di Zeus si spianò.
-Sta bene, Ade. A me la Superficie, a Poseidone il Mare. A te, qualunque sia il motivo, il Sottosuolo.-
Così si ebbe la divisione del Mondo, come ancora lo conoscono gli umani.
E così ebbe inizio la mia storia, sebbene allora io non fossi ancora nata.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Ringrazio tutti i lettori e le lettrici che hanno commentato, messo la storia tra le seguite e tra le ricordate, e chiaramente ringrazio Leda Swan, che ha betato a tempo di record per permettermi di pubblicare :)
§§§§
Zeus padre, signore dell'Ida, grande e glorioso,
Sole che tutti vedi e tutto ascolti,
fiumi e terra, e voi che sotto terra
punite da morti coloro che giurano il falso,
siate testimoni, e custodite i patti.
(Iliade III, 276-280. Traduzione di Guido Paduano)



-Kore? Kore! Dove sei, monella? Giuro che appena ti trovo…!-
Schiacciai una manina contro la bocca per soffocare una risata e imboccai correndo la curva a gomito del corridoio.
Qui mi fermai a riprendere fiato, le spalle premute contro la parete color crema della galleria di ritratti. Mi chinai e sfilai in fretta le scarpine di seta, scalciandole nel mezzo del pavimento di marmo, poi mi nascosi dietro il panneggio di velluto che ornava una delle vetrate.
-Sei qui, birbante?-
La voce di Leucippe, proveniente dalla direzione da cui ero venuta, era sempre più vicina.
Premetti entrambi i palmi contro le labbra e chiusi gli occhi, soffocando l’ennesimo attacco di ridarella.
Leucippe stava avanzando lungo la galleria di ritratti; potevo quasi vederla: il verde luminoso dei suoi occhi, il collo bianco come panna e le guance rosa, mentre affondava una mano nei pesanti tendaggi color porpora e li scostava di scatto, per controllare che non fossi nascosta dietro.
Nei miei ricordi e nel mio cuore Leucippe rimarrà per sempre così: una giovane driade dai lunghi capelli castani, che si arricciavano mollemente attorno al viso punteggiato di efelidi e s’incendiavano di un rosso acceso quando il chiarore di Helios li baciava. Non era molto più grande di me, Leucippe, eppure mi faceva da madre e sorella maggiore quando Demetra lasciava il nostro palazzo sull’Olimpo e partiva per celebrare i raccolti nelle terre degli uomini.
Mamma le aveva dato l’ordine di sorvegliarmi a vista, così la mia abitudine di nascondermi nei più remoti anfratti del castello tingeva la sua voce di sincera apprensione.
Riusciva a trovarmi quasi sempre, comunque.
Quando non ci riusciva, il suo tono finiva per scivolare nell’angoscia, e allora ero io a uscire allo scoperto e cercare lei, a correre per i corridoi di marmo fino a trovarla: mi gettavo tra le sue braccia e la pregavo di non piangere, ché stavo solo giocando: ero solo nascosta -nascosta!- e non volevo farla preoccupare.
Quel giorno ero rannicchiata dietro il panneggio, desiderosa di continuare il gioco e tuttavia pronta a cogliere il minimo accenno preoccupazione nella voce di Leucippe.
Un dito batté dolcemente contro la vetrata alle mie spalle, e mi voltai. Al di là degli inserti di piombo, raffiguranti spighe di grano, incontrai lo sguardo ridente di Zefiro.
Premetti i piccoli palmi contro il vetro, affascinata dai riflessi cangianti che la luce di Helios conferiva alle ali di farfalla del dio. Zefiro si premette un dito contro le labbra carnose e indicò qualcosa dietro di me. Mi ricordai all’istante di Leucippe e mi rannicchiai sui talloni.
Aiutami!, sillabai verso di lui, senza emettere suono.
Zefiro mi fece l’occhiolino: istantaneamente una folata di vento fece piegare i rami carichi di mele del giardino. Un rumore risuonò in fondo alla galleria di ritratti, nella parte opposta a quella in cui mi trovavo: dei rami che sferzavano un vetro, forse, o magari una finestra che si spalancava.
Leucippe, in lontananza, lanciò un gridolino.
-Vengo a prenderti, monella!-
Lo scalpiccio dei suoi passi si allontanò in direzione opposta a quella in cui mi trovavo.
Dall’altra parte della vetrata, Zefiro si premette le mani contro il ventre e scoppiò a ridere, facendo una capriola in aria. Gli rivolsi il più luminoso dei miei sorrisi e sgattaiolai fuori dal mio nascondiglio, ricominciando a correre a piedi nudi lungo la galleria.
Ritratto dopo ritratto, vetrata dopo vetrata, tendaggio dopo tendaggio, mi parve che la corsa durasse un’eternità. Ben presto mi trovai in un’ala del castello che non riconobbi.
Continuai a correre finché una porta di quercia, chiusa, mi sbarrò la strada. Era così alta –e io così piccola- che dovetti inclinare il capo all’indietro per poterla guardare tutta: il corridoio sembrava finire lì.
La porta non aveva maniglia, solo una grossa serratura. Quando provai a sbirciare dal buco non vidi nulla, come se oltre quei cardini si celasse una stanza completamente buia. Premetti entrambe le manine contro la superficie e spinsi con tutte le mie forze, ma la porta non cedette di un millimetro.
Non mi scoraggiai: ero una bimba troppo sveglia per non aver imparato da Hermes qualche trucco, e quella porta mi incuriosiva.
Appoggiai la testolina bionda alla superficie di quercia, vi premetti contro l’orecchio e la guancia paffuta.
-Porta,- sussurrai -Mi senti? Per il potere dello scalpello che ti ha inciso e dei chiodi di metallo che ti tengono insieme, per il potere della sega e della pialla, che ti hanno dato forma… Rispondimi, Porta: tu custodisci un segreto?-
Il legno fremette sotto le mie dita calde: una coscienza lontana, lontana, guizzò come luce attraverso le venature.
, udii rispondere. Lo custodisco.
-Ascoltami. Sai che sono una dea?-
Lo sento, confermò la Porta in tono burbero.
-Allora adesso ti darò un nome, e tu sarai il nome che ti darò, e io ti darò quel nome perché esso è il tuo vero nome. Porta, io ti chiamo Legno. Rispondimi, Porta di Legno: tu custodisci un segreto?-
Sì.
-Non ci sono segreti, per me, nel palazzo di mia madre. Perciò ti chiedo ancora: tu custodisci un segreto?-
Sì.
-Per tre volte hai risposto di sì, ma presto risponderai diversamente. Questa è le legge del Cosmo: Siamo ciò che siamo, siamo ciò che rappresentiamo, siamo ciò che sappiamo di essere. Quando tu saprai di non essere chiusa, non sarai chiusa, e allora sarai aperta.-
Ma io conosco la mia serratura e la pesantezza dei miei cardini. Ricordo il tintinnio della chiave che usciva dalla mia toppa, dopo avermi serrata. Io so di essere chiusa.
Annuii.
-Porta, io ti ho chiamata Porta di Legno. Ora ti do un altro nome: ti chiamo Legno e basta. Rispondimi, Legno: caldo, asciutto Legno, Legno robusto e flessibile sorto dalla terra fertile e generosa. Rispondimi, Legno.-
La porta parve tremare in tutta la sua lunghezza: i fregi che la ornavano si appianarono. La vernice che la lucidava sbiadì.
Ciao, disse la voce asciutta e rassicurante del Legno.
-Dimmi, Legno, tu custodisci un segreto?-
Sono forte e resistente. Sicuramente lo custodisco.
Chiusi gli occhi. Una ruga di concentrazione solcò la mia fronte, tra le sopracciglia bionde.
-Legno, io ti chiamo Albero, io ti chiamo Quercia.-
La porta non si dissolse davvero: parve piuttosto… cambiare. Sotto le mani e la guancia riuscivo adesso a sentire una corteccia scabra, umida di muschio. Alla narici mi giunse l’odore della resina.
-Dimmi, Albero di Quercia, dove sei cresciuto?-
La voce dell’Albero era sognante e lontana, come se giungesse attraverso sterminate pianure erbose.
Io crescevo su una collina. Eravamo molti: un bosco, una famiglia. Parlavamo l'uno all'altro, le nostre fronde frusciavano nel vento come un’unica voce, un unico sospiro. Chi ci diceva cosa eravamo? Noi stessi. Chi ci diceva cosa saremmo divenuti? Noi stessi. Gli uomini ci fecero a pezzi. Abbatterono i nostri tronchi, spezzarono i nostri rami. Strapparono le nostre foglie. Ci tagliarono in assi fino a quando piangemmo, e poi ci legarono fitti, e ci inchiodarono gli uni agli altri con chiodi di metallo che ci odiavano, e non fummo più Tutti, ma soltanto Uno.
-Ritorna,- dissi -a ciò che eri.-
Nell'oscurità dietro le palpebre, sentii la porta cambiare: gettò radici e rami e foglie: divenne un albero di quercia. Fremevo dal desiderio di aprire gli occhi, eppure non dovevo.
-Ora ti darò un nome per l'ultima volta: Quercia, io ti chiamo Ghianda, io ti chiamo Seme.-
Ciao... Sussurrò il seme. Aveva una voce ancora più lontana: un antico ricordo che palpitava sotto la corteccia.
-Ciao, Seme. C’è un segreto nella stanza accanto? Un segreto che tu custodisci?-
Ti sbagli, dea: io sono un seme. L’unico segreto che conosco, lo porto dentro di me. E non desidero custodirlo, ma rivelarlo fino al compimento del fiore e del frutto.
-Sei sicuro? Ricordi la serratura, la pesantezza dei cardini, il tintinnio della chiave che usciva dalla toppa, dopo averti serrato?-
Non so di cosa parli.
Sorrisi trionfante.
-Seme, sii Albero, sii Quercia, sii Legno, sii Porta! Porta, io ti ho ricreata: tu sei aperta, generosa come la terra da cui crebbe il Seme. Ascolta, Porta di Legno: tu custodisci un segreto?-
No, no e no. Io sono una Porta, sono fatta per accogliere e rivelare.
Aprii gli occhi: la porta scivolò silenziosamente sui cardini.
Scoppiai in una risata argentina e varcai la soglia.
§§§§

Mi trovai in una sala in cui non ero mai stata.
Era esagonale e ogni parete, a parte quella alle mie spalle, era interamente occupata da una vetrata priva di tendaggi.
Il cielo sembrava entrare da ogni parte, ma era un cielo strano, sgombro di nubi e di un blu denso, quasi pastoso, carico di pesanti sfumature violacee.
Al centro della sala c’era un tavolo esagonale: ad ogni lato dell’esagono un trono intarsiato. Completamente dimentica del gioco, di Leucippe e di qualunque altra cosa, mi avvicinai alla prima sedia.
Era un trono sottile e dalle linee molto semplici, ma robusto. Sulla bassa spalliera, simile a quella di una sedia, era inciso un cerchio da cui si ripartivano delle fiamme, che formavano il resto della spalliera stessa. Nel passargli accanto, sentii un’ondata di calore e di pace, come se mi trovassi in un rifugio amato, sicuro e caldo.
-Istie…?- il nome mi sfuggì dalle labbra, e io stessa me ne meravigliai. Quel trono mi ricordava Estia, la dolcissima zia che aveva scelto di vivere in mezzo agli umani e non si era mai sposata.
Incuriosita, proseguii lungo il tavolo.
Il secondo trono era maestoso e pesante, e sulla spalliera intagliata potei distinguere nelle nubi da cui proveniva una folgore. Sentii i capelli drizzarsi sulla nuca. Sentii tutto il corpo formicolare di un’energia frizzante, spaventosa, e scoppiai a ridere per sfogare l’euforia e la tensione, riconoscendo a pelle l’essenza di mio padre Zeus.
Il trono successivo era più basso, più largo. Solido e rigido, era ornato da intarsi che riproducevano le piume di pavone, così simili nei colori agli occhi cangianti di Era. Mi affrettai a passare al successivo.
I braccioli erano ondulati come spuma del mare; la spalliera riproduceva un tridente e il dorso flessuoso di un delfino. Nel passare accanto a quel seggio fui investita da un intenso profumo di salmastro. Sentii sorgere in me un’inquietudine senza nome, immensa, impetuosa, e riconobbi la presenza del più turbolento dei miei zii: Poseidone.
-Che cos’è questo posto?- chiesi a voce alta nella sala vuota.
Né i candelabri appesi ai muri né il pesante lampadario di ottone mi diedero risposta.
Quando passai accanto al trono successivo, le mie labbra si dischiusero in un sorriso: la spalliera era intrecciata di spighe e carica di frutti.
-Mamma, quando torni?- mormorai.
Senza quasi rendermene conto ero arrivata all’ultimo seggio. Che era anche il primo: quello che dava le spalle alla porta da cui ero entrata. Mi fermai a contemplarlo e mi stupii di averlo notato solo per ultimo. Era un trono alto, sottile, austero. Il legno era scurissimo.
Ebano, pensai, sebbene il colore e la consistenza porosa fossero più simili alle rocce vulcaniche disseminate lungo le pendici dell’Etna.
Nonostante la sala fosse invasa di luce, le ombre si raccoglievano ai piedi dello scranno.
Un passo dopo l’altro, mi accostai al trono.
La porta della sala era spalancata, ma dalla galleria non proveniva un suono: la quiete e l’immobilità erano così totali che udivo il battito del mio cuore, molto più celere del solito.
Fuori dalla finestra, il tempo si era come congelato. Il cielo e la luce di Helios erano ancora lì, ma sui miei occhi sembrava calato un filtro scuro.
Tesi una mano, toccando la superficie di ebano, e boccheggiai. Ebbi la sensazione che qualcosa di immenso si levasse da oscure profondità e si voltasse nella mia direzione
(Chi mi chiama, dopo tanto tempo?)
lasciando vagare lo sguardo
(Sei tu, Estia?)
e posandolo infine su di me.
Mi sentii
(risucchiare)
investire da una sfrigolante onda di potere: la sentii gonfiarsi e crescere come una gigantesca bolla nera. Ingoiò le mie dita, e poi la mano fino al polso, e poi l'intero braccio. Quando vi precipitai dentro, i miei occhi erano già chiusi.

 
§§§§

-Kore?- Due mani si posarono sulle mie spalle. -Per il Padre Zeus, cosa ci fai qui?!-
Mi ritrovai nella galleria di ritratti piena di luce, a fissare gli occhi verdi di Leucippe, prima che il suo palmo aperto mi colpisse con violenza la guancia.
-Kore, ti prego! Ti prego! Rispondimi!-
Mi schiaffeggiò, mi scrollò piangendo finchè non mi riscossi.
-Leucippe…?- la guardai con gli occhi sgranati e il piccolo viso pallido e spaurito.
-Sì, tesoro, sì! Sono proprio io!-
La ninfa mi abbracciò con calore. Da sopra la sua spalla vidi la porta di quercia, socchiusa. Non ricordavo di essere uscita dalla sala esagonale.
-Che cosa hai visto lì dentro? Che cosa hai visto in quella stanza?-
Scoppiai a piangere, terrorizzata dal suo terrore.
Pensai al grande tavolo di mogano, ai sei seggi, allo scranno di mamma. Cominciai a tremare.
Leucippe fraintese la mia reazione.
-Mi dispiace, mi dispiace tanto! Oh, Kore, è tutta colpa mia! Che cosa ti è successo lì dentro?-
Mi aggrappai alle spalle della ninfa.
-Leucippe, io... non riesco a ricordare...!-

 
§§§§

Note dell’autrice (altrimenti detto: diamo a Cesare quel che è di Cesare)
  1. L’idea che nella dimora di ogni dio esista una stanza contenente i simboli di tutti gli altri dei, attraverso i quali sia possibile evocarli, l’ho tratta e riadattata dal meraviglioso Sandman di Neil Gaiman. Lui parlava di simboli, io ho preferito parlare dei seggi… comunque siamo lì.
  2. Anche il dialogo tra Persefone e la porta è mutuato da un dialogo che compare nel romanzo Volkhavaar, di Tanith Lee, dove avveniva tra una strega e una spada.
  3. Visto che siamo più o meno tutte innamorate di questa coppia, vi segnalo, qualora vi fosse sfuggita, la storia di petitecherie, che a mio avviso merita moltissimo. Se avete voglia, segnalatemi qualcosa anche voi tra i commenti: anche in lingua inglese va benissimo :)
   
 
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