Videogiochi > Final Fantasy - Dissidia
Segui la storia  |       
Autore: whitemushroom    18/01/2015    6 recensioni
Una serie di storie brevi dedicate ai protagonisti della serie Dissidia Final Fantasy spaziando in tutti i generi ed rating, un ciclo di avventure attraverso la lotta senza fine tra l'Armonia e la Discordia, il Bene ed il Male, l'Amicizia e l'Odio. Tutto secondo la volontà di un dado e la voglia di scrivere qualcosa insieme ad un amico.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Cosmosrender




Personaggio: Cosmos
Genere: Introspettivo, Malinconico, Missing Moments. Canon.
Rating: giallo andante sull'arancione.
Avvertenze: a causa di spoiler le avvertenze ed i commenti fuori canto verranno posticipati alla fine di questa storia che è decisamente più lunga della media a causa di particolari che poi aggiungerò. Sono contenta delle prime due parti, molto meno dell'ultima, ma non si può volere tutto dalla vita e più di così la trama non riusciva a prendere forma. Con l'accompagnamento del tema di Cosmos dovrebbe essere tutto pronto.


Blooming White Sky

Prima dei cicli

 

The Spirit is over town, waiting for me to hit the floor
Blooming white sky for the voice of one calling tonight.


(“The Messenger”, Your Favourite Enemies)


Il portellone si chiude senza il minimo rumore. L’unico suono è il ronzio dei sigilli che bloccano di nuovo l’ingresso, e dopo qualche istante la luce sul fianco sinistro ritorna rossa cancellando l’unico segno della nostra presenza.
Mi fa male la testa. Forse è la pressione.
Il sensore al braccio indica che la riserva d’ossigeno è quasi terminata; spero si ricarichi, o non basterà per il ritorno. Il canale depressurizzato per il trasferimento dell’energia quantica ha seriamente assorbito tutte le mie energie, ma una volta che quel portello si richiuderà alle nostre spalle una seconda volta … solo allora potremo riposare.
La mappa olografica illumina il corridoio coprendo il simbolo di Onrac mentre il casco di Cid lentamente si abbassa facendo svanire la sottile patina di vapore che gli ha coperto il viso per tutto il viaggio. Le sue dita mi scivolano lungo la tuta e finalmente anche il mio casco svanisce. L’aria non ha mai avuto un sapore migliore, parola mia. Regolo immediatamente il sistema di aspirazione ed i filtri lungo la schiena iniziano il loro lavoro; Cid fa altrettanto con la propria tuta, poi modifica la luminosità della mappa fino a renderla quasi evanescente. I suoi occhi chiari la scorrono rapidamente , poi la spegne ed indica un corridoio alla nostra destra. “Gli elevatori sono da quella parte. Andiamo”.
Ci vogliono alcuni minuti per adattarsi alla gravità leggermente aumentata di questo posto, ma i nostri piedi scivolano sul corridoio e nessun altro suono interrompe il nostro passaggio.
Nella mia testa avevo sempre immaginato il complesso 99K come un luogo freddo e impersonale, pieno di soldati in divisa con lo sguardo impassibile ed i gradi in bella mostra. Sui soldati mi sbagliavo. Sul posto no.
Nel nostro laboratorio di ricerca tutto è luminoso. Certo, i vetri antigranata e gli scudi elettromagnetici impediscono di vedere ad oltre dieci metri dalle finestre, ma il nostro piccolo mondo ha i termoregolatori al massimo e nonostante il grugno truce di Mav che si lamenta degli orari massacranti e degli escrementi delle cavie è sempre pieno di vita. Ad ogni pausa Reus propone a tutti un giro di caffè, e quando arrivano i dolci preparati dalla moglie di Ark –mica quelle torte proteiche precotte che ci rifilano a mensa- buttiamo tutte le provette dove capita e ci litighiamo fino all’ultima briciola. Perfino Miria, l’assistente che va avanti a barrette integrali, manda al diavolo i menu da fame del suo dottore e si fa largo con i suoi gomiti sottili pur di afferrare una seconda fetta. Non lo dice, ma so che i dolci le ricordano il suo ragazzo. La sua pasticceria è solo uno dei tanti edifici che sono svaniti quando il raggio laser di Omega si è abbattuto su Melmond trasformando quasi tutta la città in un inferno di fuoco.
Omega.
Mio figlio non sarà un secondo Omega, parola mia.
Qualunque cosa accada, nel nostro laboratorio non torneremo mai più. Un amico che deve più di un favore a Cid ci ha garantito tre lasciapassare per Lufenia ed un passaggio clandestino attraverso lo stretto di Mars. Ma se qualcuno dovesse scoprirci prima di allora … non ci sono vie d’uscita all’accusa di alto tradimento.
In lontananza, a destra, si sentono i motori dei velivoli in accensione e le sirene che annunciano l’atterraggio di qualcosa. Qualcosa di piuttosto grande, almeno a giudicare dal rombo crescente che sta infrangendo il nostro silenzio. 99K è il più grande complesso militare del continente, quel posto misterioso da cui giungevano i fondi per le nostre ricerche e che tutti ci domandavano cosa vi fosse nascosto oltre i cento strati di scudi elettromagnetici e le torri di vedetta. Solo adesso capisco che non c’è niente di meraviglioso in questi corridoi di acciaio splendente, né in quegli ufficiali dalla divisa impeccabile che venivano ad osservare i prodotti del nostro lavoro. Gli stessi che hanno portato via il mio bambino.
“Sbrigati” sussurra Cid, poi con un braccio mi spinge dentro l’elevatore chiudendo i pannelli alle nostre spalle. Agita il pass che ha rubato ad un ignaro soldato e lo passa davanti al lettore. Lo schermo mostra il caricamento in corso, poi la spia verde s’illumina ed un portello si apre, invitandoci a selezionare il piano a cui vogliamo salire. Cid preme il settimo tasto, poi il portello si richiude e l’elevatore inizia a salire. Troppo lento.
Troppo lento.
“Il pass dovrebbe funzionare anche per accedere ai suoi alloggi. Non appena il distorsore entrerà in azione, tu entra e prendi il bambino. Io terrò attivo il distorsore ed impedirò alle guardie di entrare”.
“Come?”
“Con l’unico modo possibile”. Dalla fondina della tuta estrae un fulminatore e con un lieve movimento del pollice ne attiva le cariche. “Se senti sparare vuol dire che il tempo è scaduto”.
Vorrei rispondergli che non sa sparare e che ai tempi della leva ha sempre ottenuto il peggior punteggio, ma non penso sia il momento giusto. Siamo due ricercatori, non due soldati o due tiratori scelti. Ed è quello che penso anche quando stringe un secondo fulminatore nel mio palmo. “In caso di emergenza …”
“In caso di emergenza” mormoro, ed in quel momento le porte dell’elevatore si aprono. Il livello è tranquillo, se abbiamo calcolato bene i tempi non passerà alcuna guardia umana nei prossimi diciassette minuti e tutti i droidi di sorveglianza saranno allontanati dal distorsore. Cid attacca lo strumento alla parete e digita il codice di attivazione del segnale. L’elevatore si chiude alle nostre spalle e scende. “Diciassette minuti. Adesso vai” sussurra. Poi abbandona per un istante la strumentazione e mi stringe tra le braccia. “Ti amo”.
Non l’ho mai baciato con così tanta fretta. Ma è solo una promessa di quello che ci concederemo quando saremo lontani da qui. Felici. E vivi. “Anche io ti amo”.
Non credo serva altro. Perché non ha bisogno di altre parole. Ed anche perché non ne ha mai avuto bisogno, specie quando ha letto nei miei occhi il desiderio di riprenderci il bambino ad ogni costo, contro qualsiasi legge di Onrac. Non abbiamo mai avuto bisogno di parole, di regali, di promozioni o viaggi strani, soltanto di stringerci l’uno all’altro quando il vento sembra troppo forte per rimanere ancorati alla vita. È per questo che l’ho sposato.

Chaos è il nostro orgoglio. Abbiamo ricevuto una promozione per la sua realizzazione, e sul mio conto bancario sono stati versati più guil di quanti potrei mai guadagnare in un ventennio da ricercatrice militare. Sono venuti tutti ad ammirarlo: generali, ammiragli, persino tre membri del Consiglio di Sicurezza sono comparsi all’ologramma per complimentarsi con noi e portarci i saluti della Presidentessa Elmore. All’epoca credevo di aver toccato il cielo con un dito: la gestazione era durata soltanto cinque mesi, il parto era stato coordinato e gestito dai migliori droidi ostetrici di tutta Onrac e nemmeno dieci giorni da quando il bambino era uscito dal mio ventre non c’era sito scientifico che non parlasse di me e Cid, i sicuri vincitori del prossimo premio annuale per la genetica. I salvatori della patria.
Cosa abbiamo salvato, questo non saprei dirlo.
O forse un’idea ce l’ho.
Coordinare le conoscenze lufeniane di mio marito con la pragmatica realtà della scienza era stata la cosa più problematica. I più anziani della città la chiamavano alchimia, altri magia. Credo che non sarei mai venuta a conoscenza di tutto questo se non fosse stato per Cid e per i libri ritrovati nella casa di suo zio il giorno della spartizione dell’eredità. Era spiegato come creare corpi inanimati, copie di ciò che più si desiderava a partire da manciate di carbonio ed altri sali, ma nulla che avrei mai ritenuto più interessante se non per qualche scherzo al vecchio Mav. Ma mio marito aveva il genio. Ed il suo sangue lufeniano ha fatto il resto.
La chiave è l’elettricità. Per quanto bassa possa essere l’intensità, un flusso di corrente elettrica genera delle alterazioni a livello molecolare per la maggior parte delle volte con esiti distruttivi; le cellule umane contengono una quantità di acqua sufficiente a stimolare la propagazione della corrente elettrica in tutte le dimensioni, causando una cascata di scissioni enzimatiche in pratica incompatibili con la vita. Il nostro errore è sempre stato quello di voler alterare le componenti primarie della cellula umana sintetizzando proteine clonate da campioni di DNA alterato secondo le nostre esigenze, e forse è stato proprio questo modo di pensare che ha rallentato per anni i risultati del nostro dipartimento militare votato alla creazione di nuovi modelli di soldati. Volevamo adattare il nostro corpo agli stimoli esterni. Non avevamo pensato a cambiare quegli stimoli.
Nelle cellule lufeniane è presente una concentrazione incredibile di fluoro. La sua elettronegativa abnorme, di base perfino mortale, è in grado di deviare leggermente il flusso di elettroni ed in parte di assorbirlo, riducendo i danni e garantendo la stabilità dei ponti a idrogeno che sono la prima difesa per la stabilità del patrimonio genetico. Abbiamo studiato per oltre dieci mesi le diverse modalità di dispersione di corrente nei tessuti di Cid ed abbiamo sequenziato i diversi passaggi fino a renderli ripetibili anche nei liquidi organici. Quando l’embrione attecchì nel mio ventre Cid si occupò di tutto, sottoponendomi alla nuova sequenza di corrente e preparandomi di persona pasti appositi per favorire lo sviluppo della creatura e dandole allo stesso tempo questa nuova forma di energia per plasmarlo a nostro piacimento. Nel momento in cui vidi le piccole ali brune dispiegarsi lungo la sua schiena mentre ancora si dibatteva nel cordone ombelicale provai un senso di orgoglio smisurato. O forse era superbia mascherata così bene da quei vagiti da sembrare orgoglio.
I suoi poteri si manifestarono sin da subito, ma ci fu concesso di tenerlo nel nostro centro di ricerca per seguirne i parametri vitali e preparare delle relazioni per il Congresso della Difesa. Oltre all’evidente velocità di crescita dimostrava innate doti pirocinetiche ed una capacità di rigenerazione superiore a qualunque essere vivente. Una sera riuscimmo a sedarlo per sezionargli un mignolo e valutare le tempistiche di turnover osseo, e quando il dito si riformò sotto i nostri occhi capimmo che avevamo il soldato perfetto. Ma in fondo non vi fu nemmeno bisogno di sottolinearlo nella nostra relazione, perché Chaos aveva un dono che superava qualunque immaginazione: aveva il dono della vita.
I corpi inanimati che i lufeniani creavano disegnando cerchi a terra diventarono un ricordo, così come quei cloni realizzati in laboratorio che richiedevano una spesa incredibile per essere portati subito a maturazione. Chaos non aveva bisogno di disegnare, di toccare o pronunciare parola. Gli bastava volere.
Qualunque materiale avesse sotto lo sguardo prendeva forma. La prima volta che vedemmo dieci Ark camminare nel giardino credemmo di avere un’allucinazione collettiva. Non avevano volontà propria come i cloni standard, ma si dimostrarono senzienti; Chaos sembrava davvero divertito da quelle bambole che si muovevano al suo comando, e per la prima volta ci accorgemmo che poteva persino ridere, ridere con quella risata genuina di un neonato a cui anche la luce arcobaleno di un prisma sembra un miracolo divino. Poi capimmo che, nonostante la lingua bifida, poteva imparare a parlare.
Mi chiamò “mamma”.
Venti giorni dopo me lo portarono via.

Dunque questa è la sua stanza.
Il visore fa emergere un mobile enorme proprio alla mia destra traboccante di cilindri di vetro di cui non sono intenzionata a conoscere il contenuto; il letto appare oltre proprio davanti a me ed i segnali rossi individuano subito quella forma potente di energia che è il suo corpo. L’interruttore compare proprio sotto i miei polpastrelli risparmiandomi la fatica di cercarlo.
Sedici minuti.
Più che sufficienti.
“Chaos …”
Sta bene.
Sta bene.
E questa è l’unica cosa importante.
Non l’ho mai stretto così tanto. Non per afferrarlo, non per sedarlo, non per costringerlo a sottostare ai miei test infiniti senza uscire per giorni dal laboratorio, non per allontanarlo dai quaderni di Miria. È rigido, è appena svegliato, le ali si aprono quasi di scatto non appena mi incontrano e sentono le mie mani che gli accarezzano le corna come se fosse il più bello dei bambini. E lo è, perché semplicemente lo è. “Stai tranquillo, amore mio … va tutto bene, adesso io e papà ti portiamo via di qui!”
“Mamma?”
È cresciuto ancora, ma non abbastanza da impedirmi di prenderlo in braccio e di sentire le sue squame premere contro la tuta mentre le ali mi avvolgono nel suo unico modo di dirmi che mi vuole vicino. Qualunque cosa lo abbiano costretto a fare, oggi finirà. “Mamma?”
Solo in questo momento mi accorgo che sta guardando qualcosa, qualcosa oltre le mie spalle che in un istante lo irrigidisce e gli fa volgere lo sguardo rosso verso di me.
“Lascia mio figlio”.
Ed è a quelle parole che mi volto, perché non è un soldato, un drone, o un qualsiasi inserviente. La voce l’ho sentita troppe volte per non riconoscerla.
Lei mi guarda, meravigliosa come una dea. Si staglia tra noi e la porta, il cielo solo sa come vi sia arrivata o se già si trovasse lì. I suoi occhi azzurri si posano su mio figlio e d’istinto lo copro con un braccio per impedire a quello sguardo di andare oltre, di sfiorarlo, di contaminarlo col bianco che emana tutta la sua figura diafana. L’abito dello stesso colore ricorda quello delle principesse dei racconti, così perfetto ed innaturale che sembra muoversi nell’aria anche senza che nessun condizionatore sia acceso; i gioielli che la rivestono non sono nulla rispetto alla luce dorata dei suoi lunghissimi capelli che ondeggiano come raggi di sole intrappolati in un corpo mortale.
Vorrei fare un passo indietro.
Vorrei farne dieci, cento, e allontanarmi da quello sguardo. Scappare da quella sensazione che non ha nulla a che fare con la bellezza, la potenza, il candore, qualunque cosa possieda quella donna immobile che riempie di luce la stanza con la sua semplice presenza. Il rilevatore termico inizia a lampeggiare, ma non è calore quello che viene dalla figura, non è elettricità, ma qualunque cosa sia questa sensazione non è altro che una manciata di problemi di fronte all’orrore di questa bellezza senza fine.
Perché quegli occhi azzurri sono gli stessi che mi salutano ogni mattina, che mi guardano stanca riflettendosi sul vetro della finestra del mio studio, gli stessi che scintillano di gioia quando si uniscono a quelli di Cid. Sono gli stessi che leggono i rapporti ogni mattina e che lanciano lunghi sguardi di disapprovazione a Chaos quando manda le sue strane copie a distruggere la mensa perché non gli piacciono quei pasti sintetici. Gli stessi che in questo momento trattengono tutte le lacrime perché non possono vacillare davanti a tutta questa luce indesiderata. La copia, la mia copia, quella bellissima copia non si sposta.
Vorrei davvero solo poter fare un passo indietro. Ma la porta è davanti.
Mancano dieci minuti.
“Restituiscimi mio figlio e non ti sarà fatto alcun male” dice lei. Simula anche piuttosto bene lo sguardo dispiaciuto.
“Te lo restituirei … se fosse tuo. Scansati, pupazzo!”
“Non sono un pupazzo. Io mi chiamo Cosmos” dice con la sua voce alta. “E quello è MIO figlio!”
Chaos si agita. I suoi occhi vanno da me a lei e stringe la mano sulla tuta fino a lacerarla. Non dice nulla, ma non ho bisogno di parole per capire la sua confusione. Il solo pensiero che in questi giorni gli abbiano affiancato una mia copia solo per confonderlo, solo per controllarlo, mi fa tremare un braccio; e forse non è un caso che in questo movimento impercettibile io trovi l’unica chiave per uscire da questa situazione, l’ultima che avrei mai pensato di usare. L’unico alito di esitazione sparisce all’idea che questo clone abbia stretto il mio bambino tra le sue braccia spacciandosi per me. Che lo abbia confortato con delle parole cantate dal Ministero della Difesa per piegare i suoi poteri meravigliosi e trasformarli in fili con cui muoverlo a piacere. “Te lo ripeto, non è tuo figlio. E la sai una cosa …?”
Era questa l’emergenza di cui parlavi, Cid? “…. i tuoi creatori si sono dimenticati di clonare le rughe!”
Ma quello che segue non è uno sparo. O almeno, non quello del mio fulminatore. No, quello cade a terra, tradito dalla mano che trema.
La porta alle sue spalle si apre, e Cid cade riverso a terra davanti a degli uomini armati.
La donna bianca si scansa di lato, e gli uomini la superano diretti verso di me, sopra Cid, oltre Cid, senza curarsi di Cid e verso di me e Chaos come una marea. “Fuoco!”


Cid.




Questo buio è il nostro sogno.








“La donna è ancora viva, Lady Cosmos”.
“La sua accusa è di alto tradimento. Ha cercato di portar via la nostra arma segreta …”

La sua voce è così bianca.

“… conoscete la procedura”.




















“Cosa sta facendo il bambino?”
“SEDATELO, IDIOTI!”



“TUTTI A TERRA!”







Questo buio è bianco. Si mescola con le stelle, perché quelle sono stelle, vero? Sboccia, come un fiore in attesa che qualcuno lo raccolga gridando il suo nome nella notte.
È un mantello luminoso, una stoffa strana che brucia con tutta la sua forza fino a creare una fiamma candida. È il mio corpo, questa fiamma? O è il mondo? O è Cid, perché sta gridando qualcosa oltre il bianco, è così lontano da stringermi le dita e tanto vicino da dover gridare, deve venire dall’alto, però.
Si sta aprendo qualcosa.
Suppongo sia energia.
Il bianco si frantuma e con un’esplosione di schegge si trasforma nel Tutto, quel Tutto spaventoso fatto soltanto di un’oscurità abbagliante dove cadono strani frammenti, pezzi di mondi, del mio mondo, di ogni mondo, scivolano in questa cascata dove la luce è soltanto un ricordo privo di consistenza e la voce di Cid è un ruggito potente come questa caduta senza fine che trascina con sé tutto, assolutamente Tutto, il laboratorio, la stanza, l’ascensore, la tuta, il fulminatore, Cid, Ark e Mav. Tutto cade e l’universo guarda, questa forza magnifica è come un paio di ali spiegate che trascinano il mondo nel volo con due corna a cui aggrapparsi per non diventare tutt’uno in questa spirale nera che ha divorato tutto il bianco come una belva affamata. La sua furia ha una forma, ed ha il colore del sangue. Se quello sotto di me è un mondo, suppongo che cadrò.





Un drago che tutto custodisce.














“MAMMA!”




---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------


N.d.W: innanzitutto una calorosa stretta di mano a tutti quelli che sono arrivati alla fine di questa molto poco simpatica mazzata sulle gengive. Sì, suppongo che l'abbiate trovata pesante e soprattutto piena di scene inutili (il secondo paragrafo poteva benissimo essere omesso, lo so), ma il punto è che ho usato questa storia per riassumere comprimere una lunga fanfic che avevo in cantiere da un po' ed avevo abbandonato sia per assenza di tempo sia per eccesso di progetti concomitanti tutti più importanti. Volevo scrivere qualcosa dedicato proprio a questa donna senza nome che funge da matrice per Cosmos, citata soltanto nei diari e su cui avrebbero potuto sprecarsi a fare qualche cutscene, almeno quella in cui muore nella sparatoria. I personaggi che vengono citati rapidamente li avevo abbozzati un pochino, così come le loro storie personali, dunque mi sembrava carino usare questa storia come scusa per farli apparire almeno una volta e dare loro un po' di giustizia. So benissimo che sono inutili, ma volevo omaggiarli con un minuscolo cameo.
Per il resto l'incontro tra la donna senza nome (il vantaggio di fare una One-shot è che posso non inventarlo, cosa non fattibile in una fanfic più lunga) e Cosmos non mi è piaciuto gran che, ma è oltre una settimana che ci sto girando intorno senza riuscire a migliorarlo, quindi ve lo siete beccato così com'è. Sull'ambientazione quasi futuristica mi sono ispirata al fatto che il mondo d'origine di Chaos e dei suoi genitori possedesse armi tecnologiche come Omega e disponesse di tecniche di clonazioni, quindi mi sono permessa questo slancio quasi fantascientifico anche per variare un pochino l'atmosfera.
  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy - Dissidia / Vai alla pagina dell'autore: whitemushroom