Fanfic su artisti musicali > McFly
Segui la storia  |       
Autore: RubyChubb    24/11/2008    7 recensioni
Aspettava da un’ora, seduta sulla sua valigia grigia e rigida, tutta graffiata. Intorno a lei migliaia di viaggiatori di ogni nazionalità, persone che esibivano cartelli con strani nomi neri di pennarello e famiglie che si ricongiungevano, tra baci ed abbracci.
Ma ancora nessuno per Joanna…
Seguito di "Four Guys in her Hair" - RubyChubb & McFly
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Four Guys in Her Hair & And That's How I Realize...'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

I buried myself alive on the inside,
so I could shut you out and let you go away for a long time.
And with my foot on your neck I finally have you right where I want you...
 
 
 
La chiesa era gremita di gente, di facce giovani. Dougie si ricordò che suo padre, di cui non aveva mai saputo il nome, era stato professore di lingua inglese, molto probabilmente tutti quei ragazzi erano i suoi alunni. Ma a vedere dalla generale folta presenza, doveva essere stato un uomo molto conosciuto; ognuno era arrivato per dargli un ultimo saluto, chi per cortesia e chi per vera riconoscenza. Nella navata centrale, ne due lunghe file di panche di legno scuro erano tutte occupate e molti attendevano l’inizio della funzione in piedi.
Si fecero strada tra la gente e gli occhi si spostarono su di loro, soprattutto su di lei, che camminava al fianco di Arianna. Qualcuno le si avvicinò per darle conforto, per cercare di trasmetterle il suo cordoglio e lei, con educazione, ringraziava e tornava a camminare.
Dougie si sentì terribilmente a disagio, immobilizzato dall’imbarazzo e dalla paura, ma inghiottì quel grosso magone e si impose coraggio.  Jonny non si fidava di lui, doveva dimostrarle che si sbagliava.  Le seguiva a distanza di un paio di passi: qualche sguardo accompagnato da parole soffuse riguardò anche lui, ma fece finta di niente.
Le due donne percorsero la navata laterale della chiesa ed andarono dritte verso la cima della fila. Dougie si fermò: aveva riconosciuto le grandi spalle di Miki e preferiva mimetizzarsi tra la folla piuttosto che farsi vedere. Non voleva creare problemi, ma sarebbe comunque stato presente per Jonny, anche se in distanza. Si appoggiò ad una delle tante colonne, osservandola mentre si sedeva sulla seconda panca e non nella prima, insieme al fratello e la madre. Entrambi si voltarono, le parlarono, certamente le stavano chiedendo perché non si fosse avvicinata a loro, ma lei riservò solo poche parole alla sua famiglia, preferendo rimanere in silenzio accanto ad Arianna.
Sua madre le somigliava tantissimo, tranne per i capelli, che erano più scuri e non biondo cenere come quelli di Jonny. Gli occhi erano invece gli stessi; la bocca era un po’ più sottile, un tempo indubbiamente carnosa come quella della figlia, la forma era pressoché identica.
Notò Arianna guardare nella sua direzione con sguardo perplesso. Non appena spostò gli occhi su di lei, la donna gli fece segno di avvicinarsi. Scosse la testa, non era una buona idea, ma Arianna insistette. Si negò ancora, lei gli lanciò una brutta occhiata.
E la accontentò.
Notandolo, Miki non ebbe niente da dire; anche sua madre lo squadrò, niente di promettente sul suo volto di entrambi. Sicuramente stavano confondendo tutto, lui non era il fidanzato di Jonny, solo un conoscente lontano e fastidioso, per di più inglese.  Lei poteva –doveva- permettersi di più, non qualcuno con i capelli spettinati e un po’ lunghi, con magliette colorate e pantaloni a tre quarti. Per lei ci voleva qualche bravo ragazzo con la faccia pulita... Uno come Danny. Li aveva sempre visti perfettamente bene insieme, ma la vita aveva voluto diversamente, e lui stesso l’aveva involontariamente aiutata, presentando Tamara a Danny.
 
 
La funzione era già iniziata da un pezzo quando Arianna, che sedeva accanto a lui , vicino al bordo della panca, fece un movimento inconsulto.
“Devo fumare.”, disse nervosamente, alzandosi e liberando il suo posto in un attimo .
Dougie si voltò verso Jonny. Si stava torturando, mordendosi il labbro inferiore con spasmodica continuità e lasciando che si infiammasse e diventasse sempre più rosso ad ogni passaggio dei suoi incisivi. Le mani continuavano ad asfissiare il lembo inferiore della sua camicetta scura, che a fine giornata sarebbe stata da buttare,  prigioniera com'era tra i pollici e gli indici. Mosso da un impulso a cui non seppe resistere, Dougie le passò un braccio intorno alla spalla. Lei non si mosse, bloccata tra i gesti nervosi ed il fissare costantemente la bara, dentro alla quale giaceva il corpo del padre.
Intanto, il sacerdote si era avvicinato ad un piccolo podio: su di esso si trovava un leggio, decorato con un drappo di velluto rosso che lo copriva fino ai piedi. L’uomo parlò per qualche minuto, la sua voce bassa e lenta era amplificata dal microfono e dalle casse poste in tutte le navate della chiesa. Ma cosa aveva da dire di tanto importante su un uomo come lui? Le sue parole non potevano certo riabilitarlo.
Poi, finita la sua breve omelia, dette voce ad un gruppetto esiguo di persone, qualche ragazzo e dei signori distinti, che uno dopo l’altro lessero i propri pensieri, annotati su foglietti.
“Cosa fanno?”, domandò a Joanna, a tono basso, come se non avesse saputo già la risposta.
“Sparano cazzate.”, sibilò lei, facendogli percepire tutto l’odio che ribolliva in lei.
Immediatamente sua madre si voltò e le ringhiò con gli occhi. Anche lei insegnava inglese, si ricordò Dougie, ed aveva compreso perfettamente la parole astiose della figlia. Jonny, dal canto suo, non la degnò di una sola attenzione, ma fu costretta a farlo suo malgrado quando Miki, sottovoce, la chiamò. Le disse qualcosa e lei rispose con un solo cenno netto della testa. Dougie non poté non sentire il lieve fremito che l’aveva scossa.
“Cosa ti ha detto?”, le domandò, adesso con un filo impercettibile di voce, perfino a se stesso.
“Niente.”, rispose lei.
“Jonny, dimmelo…”
Il nuovo richiamo del fratello la costrinse ad alzarsi e lui, nonostante avesse voluto fermarla, bloccarla piuttosto che sottoporla a ciò che aveva capito solo in quel momento, non poté fare altro che lasciarla passare. A passi lenti, sotto gli occhi dei molti seduti ed in piedi, Jonny raggiunse il piccolo podio, prendendo il suo posto dietro al microfono.
“Ehm…”, disse.
La gente tese l’orecchio in ascolto della sua piccola voce che non era sufficientemente ingrandita dall’impianto. Lui, che Jonny avesse o fosse rimasta muta, non avrebbe comunque compreso.
“Beh, è già stato detto tutto da queste… Care persone.”, disse lei, “Grazie per essere venuti.”, e si mosse per tornare al suo posto.
Il prete le si avvicinò, fasciato nel suo vestito adatto alla cerimonia, e la esortò a continuare ancora. Se avesse potuto, Dougie avrebbe evitato tutto quello. Come potevano chiedere a Jonny di vendere a buone parole l’anima del padre, che altri non era che la grande croce che pesava sulla sua? Come avevano potuto suo fratello e sua madre, la sua famiglia, spingerla a quello? Loro sapevano, loro avevano vissuto quell’inferno con lei… Allora perché? Volevano punirla per aver scelto semplicemente di vivere la sua vita, piuttosto che rimanere sotto il loro giogo?
Jonny cercò di obiettare, di liberarsi con gentilezza della mano del parroco, salda sul suo gomito, ma l’uomo le indicò la bara del padre e, certamente, le disse di farlo per lui, per quel povero uomo morto così improvvisamente.
Jonny lo accontentò. Non le era facile dire di no, soprattutto quando era confusa.
Dougie affondò la testa tra le mani.
Cosa avrebbe detto, a quel microfono… E lui sarebbe stato pronto a tenerla in piedi, dopo?
Sì che lo sarebbe stato, indubbiamente. Era rimasto per dimostrarle che si sbagliava, che ancora poteva fidarsi di Dougie Poynter, di lui che non aveva fatto altro che comportarsi come un cretino, pretendendo poi di venire perdonato dopo poche parole di pentimento. Era rimasto per lei, per aiutarla come avrebbe dovuto fare dal primo istante in cui le aveva promesso la sua amicizia, un anno fa. Era quella la sua vera occasione per riscattarsi. Doveva dimostrare la stessa cosa a Danny, fargli capire che lui non si divertiva nel far del male alla sua Little, come invece continuava a pensare. Si era incaricato di quella responsabilità, prima involontariamente, poi con presa di coscienza, ed ora sopportava le conseguenze delle sue decisioni, fronteggiandole senza farsi piegare.
“Non so cosa altro aggiungere.”, sentì dire da Jonny, ancora riluttante ad avvicinarsi al microfono ma comunque nelle sue vicinanze per farsi sentire da tutti.
“Parlaci di lui… Di quello che facevate quando eri bambina.”, riconobbe la voce del prete.
Ancora altro silenzio, interrotto da un lontano schiarirsi di gola. Dougie alzò gli occhi per darle coraggio, sperando di incontrare quelli di Jonny, che erano invece tornati a fissare il mogano del feretro.
“Qualcosa da dire ce l’ho…”
E il prete la invitò ancora.
“Mio padre è sempre stato una persona leale ed onesta. Con tutti.”, sentì la lieve inflessione interrogativa nella sua voce.
Un borbottio basso si levò nella chiesa, qualcuno annuiva con cenni della testa. Jonny posò le mani sul leggio, stringendone le aste laterali ed affondando le dita nel morbido velluto scuro.
“Anche con me lo è stato.”, si riprese.
La chiesa tornò in silenzio, ascoltando con attenzione le sue parole. Dougie guardò i familiari più stretti. Quello che leggeva nelle loro facce era nervosismo?
“Ha sempre detto di volermi bene, che tutto quello che diceva e che faceva era per me… Per il mio futuro. Faceva qualsiasi cosa per me.”
Benchè le parole fossero all'apparenza buone e dolci, Dougie si sentì trafiggere dal suo odio,  dalla rabbia nascosta. 
"Gran bel futuro che mi hai dato, papà...", disse ancora Jonny, la sua voce si ruppe, ma il tono pieno di rancore rimase intatto ed udibile per tutti, "Ti ringrazio davvero con tutto il cuore."
Dai presenti si levò un brusio tagliente e Jonny lasciò il leggio, le mani rosse per lo sforzo. Lentamente, poi in una corsa disperata, uscì dalla chiesa ed il tonfo del grande portone di legno echeggiò nell’edificio, zittendo tutti coloro al suo interno.
Ecco l’esplosione di Jonny, ecco come lei aveva deciso di disfarsi della maschera che aveva indossato, della finta ed apparente calma che mostrava agli altri. Ecco come aveva rifiutato di distruggere se stessa per far rivivere nelle menti degli altri il ricordo buono di un padre che l’aveva picchiata, che l’aveva costretta a vivere una vita che non era la propria, imponendole decisioni che non aveva preso, costringendola a comportarsi secondo le sue regole ed a sorridere quando invece voleva solo piangere e fuggire via.
Tutti i presenti bisbigliavano, riempiendo le navate di uno fitto ed incessante parlare che saturò presto le orecchie di Dougie. Si alzò e, a passo svelto, raccolse tutti gli occhi interessati della folla funebre, ignorandoli per poi abbandonarli, una volta uscito dalla chiesa. Sentì subito i singhiozzi di Jonny, seduta a terra contro al muro di pietra dell’edificio religioso. La fronte stava ferma sulle ginocchia, unite al petto, mentre le braccia le stringevano a sé e le spalle erano scosse dal tremito dei suoi singhiozzi. Era un pianto, un lamento che Dougie non poté sopportare per più di qualche misero secondo, non poteva farsi lacerare il cuore in quel modo così doloroso.
Si sedette accanto a lei e la abbracciò, ma Jonny rimase chiusa in se stessa, nel suo guscio, e rifiutò il suo sostegno. Lui non glielo negò, continuando a tenerla stretta mentre con una mano le accarezzava i capelli biondi, e con la voce le diceva che presto tutto sarebbe finito. Cercava Arianna con gli occhi, non l’aveva vista più tornare in chiesa da quando era uscita, ma non la trovò.
“Non appena Arianna arriverà ce ne andremo, ti porterò a casa.”, le disse, ma nessuna parola poteva andare oltre quello scudo che si era fatta col suo corpo.
I secondi passarono, Arianna comparve finalmente dal portone della chiesa. Era tornata dentro e non se ne erano accorti? Aveva visto tutto?
La donna si accucciò davanti a lei e le parlò.
“Jo, sono io… Torniamo a casa.”, le disse.
Jonny alzò gli occhi, già gonfi e rossi di lacrime.
“Ce la fai a camminare?”, le chiese.
Jonny interruppe il suo pianto, ma non i singhiozzi. Tra una scossa ed un’altra disse di sì e riuscì a mettersi in piedi ma, vedendola barcollante, Arianna decise di fare un veloce salto alla macchina, per avvicinarla e farla salire. Per tutto il tragitto le orecchie di entrambi vennero riempite continuamente dal suo pianto. Sembrava inarrestabile, un flusso continuo di lacrime e di singhiozzi che continuava a scuoterla, lasciandola spesso senza fiato. Era terribile starla a sentire ma niente era capace di calmarla, né volevano far scomparire la sua voce strozzata coprendola con altri suoni più felici.
Arianna guidava, le mani torcevano il volante e si sfogavano sul cambio. Lui si voltava spesso per accertarsi che si stesse riprendendo, ma ogni volta era una sconfitta, una battaglia persa in partenza. Lei se ne stava distesa sul sedile posteriore, la faccia nascosta tra le braccia.
E piangeva.
Arrivarono a casa e l’aiutarono a scendere dall’auto.  Arianna si preoccupò di accompagnarla in camera sua, e disse a Dougie che poteva sistemarsi dove voleva, di fare come se fosse stato a casa propria. Comunque imbarazzato, decise di sedersi nel soggiorno, sul solito divano dove un anno prima Jonny gli aveva confidato il segreto più grande. Se ne stette lì diverso tempo a tamburellare le dita sulle ginocchia, lo sguardo perso nel vuoto, la mente troppo stanca e scossa per impegnarla in qualsiasi pensiero.  Aveva la sola forza di respirare, di sentire l’aria entrare ed uscire dalle sue narici, cullandosi nel ritmico pulsare del suo cuore. Gli parve quasi di sentire ancora il calore del caminetto acceso, lo strepitio del legno, sgretolato dalle fiamme gialle e rosse...
“Dougie!”, si sentì chiamare dalla voce di Arianna, lontana, “Sento il tuo telefono suonare!”
Già, il cellulare. Non si chiese chi fosse, non ce n’era bisogno.  Raggiunse lentamentel piano superiore, trovando Arianna sulla soglia della camera di Jonny, ne stava uscendo.
“Come sta?”, le domandò.
“Le ho dato un sonnifero.”, gli disse, “Non ce la facevo più a sentirla piangere, almeno così dormirà un po’.”
“Sì…”, le fece, annuendo, a sguardo basso.
“Il tuo cellulare.”, gli ricordò la donna.
Le sorrise e proseguì lungo il corridoio, entrando nella camera che lei gli aveva destinato. Vide una numerosa quantità di chiamate perse, non lesse nemmeno a chi appartenevano.
Dougie!”, si allarmò la voce di Danny, “Dove siete stati tutto il giorno!
Sospirò, toccò gli occhi gonfi dallo stress.
“A divertirci al luna park...”, gli rispose, causticamente, ma il tono della sua voce era tutt’altro che sarcastico, “Ero al funerale, Danny!”
E non ti sei ricordato di prenderti il telefono?”, tuonò lui, sempre più arrabbiato.
“Che senso aveva risponderti mentre seppellivano suo padre!”, protestò, lasciandosi prendere dalla rabbia per l’irragionevolezza del suo amico.
Quello di Little non è mai raggiungibile, pensavo che avessi avuto il buon senso di portarlo dietro!”, si difese Danny, “Posso parlarle adesso?”
“Jonny è troppo scossa, non è una buona idea.”, gli rispose, “E credo che stia già dormendo.”
Danny si vide allora costretto a parlare con lui.
E come sta… Come… Come sta reagendo?”, gli chiese.
“Beh… Vuoi sapere se ha pianto? Sì, anche troppo.”, rivelò, sapendo che era proprio ciò che lui voleva sapere.
Bene…”, disse Danny, sospirando.
“Bene?”, esclamò lui, “Se solo avessi sentito come piangeva...”
Se solo ci fossi io al tuo posto!”, Danny ravvivò la discussione.
“La vuoi smettere di rinfacciarmi questo?”, se la prese con lui, sfogandosi, “Pensi che sia ancora utile continuare a dirmi quanto sei meglio tu di me? Lo so che lo sei, non c’è bisogno si sputarmelo addosso ogni minuto!”
Dougie, tu non la conosci come la conosco io!”, si giustificò Danny.
Oh sì, certo.
Danny Jones sapeva come farla divertire, ridere e stare bene. Sapeva come consolarla, come abbracciarla, come stare accanto a lei. Dougie Poynter, invece, aveva saputo solo voltarle le spalle, trattarla come se fosse stata l’ultima persona che avesse voluto vedere sulla faccia della Terra. Per cui, a rigor di logica, era sempre e comunque Danny ad avere delle prerogative su Jonny, sia che lei fosse felice, oppure no.
Era un peccato però che Danny Jones non sapesse che Jonny non aveva mai avuto il coraggio di parlagli di suo padre, nonostante tutto quello.
“Hai ragione.”, gli disse, dandogliela vinta.
Appena si sveglia, dille di chiamarmi, altrimenti…
Non si interessò alla nuova minaccia di Danny. Premette il pulsante rosso e lasciò il telefono sul comodino. In quel preciso istante, sentì un lieve bussare alla porta.
“Sono Arianna. Ti posso parlare?”, domandò lei.
“Certo.”
Si alzò ed andò ad aprirle. La bionda donna gli sorrise timidamente ed entrò nella sua stanza, non senza essersi accertata un paio di volte che non lo stesse disturbando. Era casa sua, come poteva la sua presenza disturbarlo? Arianna si sedette sul letto, le mani giunte sulle gambe, certamente voleva parlargli.
“Dougie…”, esordì lei, giocherellando nervosamente con le dita, “Ti posso fare una domanda diretta?”
Le annuì, sentendosi terribilmente a disagio.
“Tu… Cosa sai del padre di Jo?”, gli domandò.
Domanda anche troppo diretta.
“Voglio dire…”, si specificò Arianna, “Non so come si chiami, non l’ho mai visto. E lei non me ne ha mai parlato.”
“Beh… Non so il suo nome.”, le rispose.
Nemmeno Arianna sapeva. Non lei, con cui Jonny viveva da un anno.
Né Danny, il suo migliore amico.
Sono l’unico.
Dougie realizzò di non sentirsi affatto speciale, ma solo dannatamente colpevole per quello che le aveva fatto. Tradendo la sua fiducia in quel modo le aveva negato la possibilità di parlare del suo problema anche alle persone più importanti di lui. Gli venne voglia di affondare la testa nel cuscino e darsi del testa di cazzo all’infinito, ma non lo fece. Almeno, non lo avrebbe fatto finché Arianna fosse stata lì.
“Già… Scusa, la mia domanda è stupida, come poi sapere queste cose...”, disse la donna, scuotendo la testa e ridendo lievemente di se stessa.
Eh già… Non erano cose di suo dominio.
“Perdonami ancora.”, disse lei, accorgendosi del suo sguardo basso, “Non volevo offenderti.”
“Oh no, hai perfettamente ragione.”, le disse.
“Magari Danny lo sa.”, propose lei, cercando un sostegno nei suoi occhi.
Dougie alzò le spalle. Non le rispose, sapeva che lei gli avrebbe domandato di conseguenza  E tu come fai ad essere certo che Danny non ne sia a conoscenza? E’ suo amico!
“Lo chiamerò.”, disse Arianna, “Potrei avere il suo numero?”
“Certo.”, le fece, e glielo dette.
La donna aveva una penna ed un foglietto già pronti nelle tasche dei suoi pantaloni di lino scuri. Era venuta per quello, per avere il numero di Danny, non per parlare con lui. Dougie si sentì peggio di uno straccio per pavimenti, vecchio e strappato, da buttare. Veniva sempre preso per l’incosciente e l’immaturo, per lo scemo del villaggio McFly. Ma non poteva farci niente, quello era il personaggio che cucito addosso a lui, volente o nolente, e anche se si era divertito ad indossare quei panni, certe volte –quelle volte- non poteva fare altro che odiarsi.
“Quando partirai?”, domandò lei, una volta annotato tutto.
“Beh… Domattina farò un paio di chiamate, te lo farò sapere.”, le disse.
“Certo.”, fece lei, con un sorriso, e si alzò, “Sei hai fame, puoi prendere ciò che vuoi dal frigorifero. E’ tutto lì dentro, e mi sa che sarai l’unico a cenare, anche stasera.”
Le annuì e lei lasciò la sua stanza.
Dougie si tolse le scarpe, lasciandole rimbalzare sulle mattonelle del pavimento. Si distese sul letto ed incrociò le mani dietro alla testa, fissando il soffitto liscio e lindo della stanza.
 
 
 
Un rumore dall’esterno, forse le ruote stridenti di una macchina, lo costrinse a tornare alla realtà. Sbuffò annoiato, aprì gli occhi e si trovò nella medesima posizione in cui si era addormentato. Tolse la mani doloranti da sotto la testa e una smorfia di dolore comparve sulla sua faccia, non appena percepì il formicolio dei muscoli delle braccia, atrofizzati in quella posizione. Si voltò verso il comodino, dove la sveglia suonava sempre le tre e quattro minuti, come se non avesse mai conosciuto altre ore che quelle. Cercò con le mani il suo telefono e lo trovò nei pressi della sveglia.
Mezzanotte e mezza…
Il sonno tornò ad impadronirsi di lui ma il gorgogliare inesorabile del suo stomaco lo scacciò via. Non aveva quasi pranzato, mangiando solo un po’ della pasta che Arianna aveva cucinato. Adesso, il suo stomaco reclamava cibo urlando e borbottando come il pentolone dell’inferno. Uscì dalla camera, facendo attenzione a non fare troppo rumore, e si trovò presto in cucina. Seguì il consiglio di Arianna ed aprì il frigorifero: all’interno trovò tantissimi contenitori di plastica di forma ed altezza diversi, tutti con tappi colorati, segno che Arianna era una persona che preferiva cucinare alla grande un solo giorno della settimana, lasciando poi che il suo operato scomparisse lentamente, riscaldato sul fuoco o nel microonde.
Tra tutti quelli, individuò una sagoma rettangolare bassa, di cartone, con un disegno simpatico e riconoscibilissimo.
“Pizza…”, sussurrò, leccandosi i baffi.
Prese la scatola e la tirò fuori, aprendola per accertarsi che il contenuto fosse proprio quello. Sì, era una grande pizza a cui mancava solo uno spicchio, e non doveva avere più di un giorno di permanenza al fresco: lui era un esperto nel riconoscere l’anzianità del cibo, il suo frigorifero era pieno di cartoni del cibo da take-away, ed aveva accumulato abbastanza esperienza. Individuò un microonde dalla parte opposta della cucina e, un po’ di spicchi per volta, riscaldò tutta la pizza. Solo dopo si chiese se quella fosse destinata a qualcuno in particolare… Ma ormai il suo stomaco era in ribellione.
Si accorse di una lavagnetta appesa al muro, una di quelle bianche con tanto di pennarello nero che non resisteva al minimo passaggio di una spugnetta, e si faceva cancellare via con un nonnulla. ‘Scusate, ma avevo fame e non resisto alla pizza. Doug.’, vi scrisse, in un angolo libero, evidenziandolo con una freccia che lo indicava.
Tornò al piano di sopra con il primo boccone già tra i denti. Non poté non sostare davanti alla porta di Jonny: vedeva una flebile luce che non aveva notato prima uscire sospettosa dalla bassa fessura.  Chiuse il cartone della pizza, riponendovi lo spicchio che aveva tra le mani. Bussò con leggerezza e, non sentendo risposta, si impose di lasciar perdere.
Ma non lo fece.
Abbassò la maniglia ed entrò, permettendo solo di far sgusciare dentro la testa, per controllare che tutto fosse a posto. Jonny dormiva tranquillamente nel suo ampio letto, le lenzuola fresche tenute ferme dal suo braccio destro che sostava sul petto, mentre l’altra mano si riposava sul cuscino vicino alla sua faccia, timidamente chiusa. La flebile luce che aveva visto era la tv, accesa ma senza volume. Si doveva essere svegliata qualche tempo prima e, sentendosi sola, l’aveva accesa, riaddormentandosi poco dopo. Magari, prima o poi avrebbe di nuovo aperto gli occhi ed avrebbe avuto fame… Perché non farle trovare subito qualcosa pronto per essere mangiato? Forse la pizza che aveva tra le mani non era proprio adatta, avrebbe sicuramente preferito qualche biscotto e del latte.
Appoggiò il cartone per terra, lasciò la porta aperta solo per un spiraglio e tornò in cucina, preparando un piattino con alcuni biscotti, un bicchiere di latte ed uno di acqua, e stupendosi di come riuscì a portarli di sopra senza versarne una goccia, né far cadere una briciola. Lasciò il tutto sul comodino e, riprendendosi la pizza, le dette un ultimo sguardo: era pacifica come sempre, anche nel dormire. Stava per andarsene quando la televisione, forse per colpa di una pubblicità, illuminò la stanza in un flash. La luce improvvisa gli fece notare qualcosa, appeso al muro.
Qualcosa di familiare.
Si avvicinò al poster che ritraeva il suo gruppo, diversi anni fa ormai: se ne stavano tutti in piedi sui sedili di una vecchia Mini rossa decappottabile e guardavano l’obiettivo con facce strane. C’erano tutte le smorfie, tranne la sua. Un sorriso spuntò sulla sua bocca, notando i due pezzi di nastro adesivo rosso che coprivano il suo viso, come a volerlo cancellare dai McFly. Scosse la testa, sempre con quel riso sulla bocca, e guardò ancora Jonny dormiente. Stessa cosa notò sulle foto, appese nei pressi di quel poster: erano quelle scattate un anno prima, nella hall dell’albergo. Lui, ritratto sempre lontano da lei, era comunque nascosto dallo stesso nastro adesivo rosso. Ce l’aveva a morte con Dougie Poynter, non c’era bisogno di altre dimostrazioni, ma quella cosa non riusciva a non farlo ridere. Era così comica!
Fu quella stessa stranezza a trattenerlo in camera sua. Vide una poltrona nelle vicinanze dell’armadio di legno chiaro e la scostò dal suo posto, girandola per posizionarla davanti alla tv. Prese accortezza di avvicinarla al letto, al suo angolo destro, mettendola in modo tale che potesse tenere Jonny sott’occhio, nel caso lei si fosse svegliata ad avesse avuto bisogno di qualcosa.
Prese la sua pizza, il telecomando inutilizzato sul comodino e si mise a mangiare, facendo zapping.
 
 
 
Ripensò alla chiamata ricevuta da Arianna, qualche ora prima. Gli aveva raccontato del funerale, dicendo di non sopportare fatti del genere e di essersi assentata da Little solo per un sigaretta, lasciandola con Dougie. Era tornata giusto in tempo per vederla parlare di suo padre sul podio... Non aveva spiegato con precisione cosa Little avesse detto, ma subito dopo Arianna gli aveva chiesto se lui, il suo migliore amico, avesse saputo che cosa fosse successo tra Little e suo padre e, pieno di stupore, aveva dovuto dire di no.
Non ho saputo darle una risposta.
Lui, Danny Jones, non aveva la più pallida idea di cosa potesse essere successo tra Little e suo padre. Lei non gliene aveva mai parlato... Ma qualcosa doveva averle fatto quell’uomo, perché solo così poteva giustificare l’essere restia a parlare di se stessa e della sua famiglia, senza escludere lo stato di shock con cui l’aveva vista partire, l’assenza di lacrime sul suo volto per il padre morto. Lei avrebbe dovuto raccontarglielo, avrebbe dovuto dirglielo…
E per quello si era arrabbiato con Little, notevolmente arrabbiato, per quello avrebbe voluto parlarle, ma Dougie glielo aveva impedito. Era così arrabbiato che se l’era rifatta con Tamara, che aveva preferito andarsene per stare da una sua amica, lasciandogli tutto il tempo per rimuginare sul suo stato ed evitare di litigare ancora.  Da quando Little aveva messo piede in quella casa, i motivi di discussione con Tamara vertevano sempre su di lei, ma per cause diverse. Non doveva avere niente di cui preoccuparsi, eppure continuava a dimostrarsi gelosa di Little, sebbene fosse lontana da casa e, come aveva voluto lei, non l’avesse seguita per starle accanto. Le aveva detto in mille modi che si stava sbagliando, illudendo, ma Tamara non gli perdonava il fatto di averla fatta entrare in casa loro.
E per quale motivo?
Alla fine era stato capace di farglielo dire schiettamente: pensava che Little fosse innamorata di lui. Follemente innamorata, ed avrebbe fatto di tutto per farli lasciare. Era rimasto scettico, stupito, imbambolato alla notizia. Little non era innamorata di lui, né lo sarebbe mai stata, la conosceva bene, sapeva che lei non cadeva in queste assurdità. Era una ragazza con i piedi per terra, solida anche se pareva più fragile del cristallo, ma non era una scema, e tra di loro c’era quella forte amicizia, anche se nata in clima di lontananza e dopo una serie di vicende abbastanza complicate che Tamara non aveva voluto stare a sentire. Quindi perché preoccuparsi? Lui sapeva cosa provava per la sua fidanzata, lo sapeva benissimo, perché comunque non si fidava di lui?
Si chiese dove, quando, come e in cosa avesse sbagliato, ma non seppe darsi una risposta, e, a dire la verità, non sapeva nemmeno quale fosse la vera domanda, l’errore che aveva involontariamente compiuto.
Guardò ancora il telefono, chiedendosi se fosse stato il caso di chiamarla di nuovo, oppure se provare con Dougie. Avrebbe preferito rivolgersi direttamente a Little, senza dover usare Poynter come intermediario, dato che ogni volta avevano finito per litigare. Tra le altre seccature, c’era anche quella di non accettare il fatto che fosse stato lui, proprio lui, a prendere il suo posto. Se fosse andato Harry, o anche Tom, sarebbe stato tutto diverso. Sicuramente non sarebbe stato così in pensiero e non avrebbe avuto tutta quella tensione addosso, che lo costringeva a scaricarsi contro chiunque e qualsiasi cosa gli ronzasse intorno. Era maggiormente apprensivo perché c’era lui con Little. Lui che lei odiava, non sopportava, e che non aveva perdonato. Avrebbe quasi preferito lasciarla andare da sola, piuttosto che costringerla a passare altro tempo con Dougie.
Quando lui l’aveva chiamato per dirgli che si tratteneva, giustificandosi col fatto che Little stesse davvero male, non aveva reagito in quel modo per gelosia,  affatto. Si era arrabbiato perché sapeva che Little non avrebbe approvato, che non voleva altro che toglierselo dai piedi come uno scomodo sassolino in una scarpa.
Avrebbe dovuto essere in Italia, starle accanto, ora o mai più, come se quel fatto così tragico fosse un momento da non perdere per la loro amicizia. E lo era davvero, perché sicuramente Little avrebbe trovato la forza di raccontargli tutto.
Tutto.
Perché lui voleva sapere tutto di lei, per poterle stare più vicino, ma Tamara si era comportata da egoista e da presuntuosa, costringendolo a rimanere a casa, e non ci sarebbe passato sopra tanto facilmente. Pregò che Little non stesse pensando che non gli importasse di lei, pregò che non avesse brutti pensieri… Non sarebbero stati la verità. Era lui che avrebbe dovuto raccogliere tutte le sue lacrime, placare tutti i suoi singhiozzi, dirle tutte le parole di conforto. Doveva farlo perché era suo amico. Perché le voleva bene.
Ed invece, era segregato lì, costretto da una stupida minaccia: prendere o lasciare? Prendere il primo volo per l’Italia e lasciare Tamara, oppure prendere la sua relazione e lasciare l’amicizia? Aveva sempre odiato fare delle scelte, soprattutto quando involvevano persone in carne ed ossa, con dei sentimenti.
Ed adesso si stava pentendo amaramente della sua scelta.
Compose di nuovo il numero di Little, ma pochi attimi dopo la solita voce registrata lo informò dell’irraggiungibilità del suo telefono.
 
 
 
Sentì un rumore così impercettibile che si stupì di essersi svegliato per colpa di quel piccolo crack. Aprì piano gli occhi, sbattendoli con insistenza per la secchezza che sentiva sotto le palpebre, e realizzò di trovarsi seduto, con la schiena e le gambe appoggiate ad i braccioli di una poltrona, le mani incrociate sul petto.
Si mosse, spaventato.
Si era addormentato in camera di Little, mentre guardava la tv e mangiava la pizza. La pizza… Dov’era finito il cartone che la conteneva? Perché non era più sulle sue gambe, dove si ricordava di averlo visto per l’ultima volta?
“Buonanotte.”, sentì dire piano.
Si voltò verso il letto. Jonny se ne stava seduta a gambe incrociate con il cartone rettangolare aperto su di esse, occupata a dare un morso ad una fetta della pizza che anche lui aveva mangiato lasciandone la metà, si era sentito sazio già prima della fine.
“Buonanotte.”, le rispose, sorridendole ma con preoccupazione.
“Che ci fai qua?”, domandò lei.
“Beh… Pensavo di esserti di maggior compagnia della televisione accesa.”, le disse.
Lo schermo ancora era illuminato ma il canale era diverso da quello da lui scelto. Jonny si era svegliata, era sgattaiolata verso di lui ed aveva preso la pizza ed il telecomando. 
“Deve averla accesa Arianna. Non mi ricordo.”, lo informò lei.
Dougie si sentì meno accettato di un ragno sul muro, ma non volle desistere.
“Dovresti chiamare Danny.”, la consigliò, “E’ molto preoccupato per te.”
Lei continuò a masticare la sua pizza, guardandola.
“Ma è tardi.”, disse poi, “E poi c’è Tamara con lui.”
“Non lo disturberai affatto.”, la tranquillizzò, sebbene fossero le quattro di mattina, come recitava l’orologio sul suo comodino.
“Se lo dici tu.”, fece lei.
Lasciò la sua cena notturna per raggiungere il comodino e prendere il suo telefono. Cercò il numero in rubrica e se lo mise all’orecchio. Non si comportava nel suo modo usuale, era anche troppo fredda per essere la Jonny di sempre.
Era la sua presenza in camera a darle fastidio.
 
 
 
Si è permesso troppe cose.
Accettare di venire in Italia senza controbattere fino allo stremo delle forze.
Metterle il braccio intorno alla spalla in chiesa, abbracciarla mentre lei piangeva.
Entrare lì senza che lei glielo avesse chiesto e, sicuramente, vedere le fotografie ed il poster che esibivano la sua faccia coperta di nastro adesivo rosso, la grande croce rossa che aveva messo -non solo mentalmente- sulla sua persona.
Trovarlo a dormire nella sua stanza, sulla sua poltrona, con la sua pizza mezza mangiata, la pizza che del lunedì, quella che comprava sempre con Arianna.
Si era permesso troppe cose.
Troppe.
Lo lasciò perdere per sintonizzarsi sulla voce assonnata di Danny.
Little…”, le fece, saltando il convenevole.
“Scusa Danny.”, disse lei, senza smentire il suo tono freddo, “Dougie mi ha costretto a chiamarti.”
Mentì, non era vero, lui le aveva detto solo che avrebbe dovuto farlo, non che avesse dovuto ad ogni costo, ma doveva farlo sentire una merda, quindi…
Ha fatto bene.”, rispose Danny, dopo essersi schiarito la gola, “Ho provato mille volte ma non riuscivo mai a prendere la linea.”
“Avevo il telefono spento.”, gli disse, “E comunque non avevo molta voglia di parlare.”
Come ti senti?”, le chiese.
Di tutte le domande di tutto il mondo quella era la più difficile da accontentare. Sarebbe stato molto più facile se le avesse chiesto di provare l’esistenza di Dio.
“Beh… Adesso un po’ meglio.”, mentì per la seconda volta consecutiva.
Ne vuoi parlare?”, le domandò lui, con dolcezza, “Non ti preoccupare per la mia nottata, sono qui per te.
“Beh…”
Non aveva assolutamente voglia di accontentare Danny,  di starsene lì a cercare di tradurre in parole qualcosa che era più intricato di un gomitolo di lana vecchia. Ma avrebbe accettato di ascoltare per ore ed ore  la sua voce che le raccontava di qualsiasi argomento, anche il più stupido. L'avrebbe confortata come un balsamo refrigerante su una scottatura dolorosa.
C’erano molte persone al funerale?”, le chiese lui, non sentendola parlare.
“Sì, anche troppe.”, gli disse, sospirando.
Lo so.”
Joanna rimase interdetta.
“Lo sai?”
Sì, mi ha telefonato Arianna.”, rivelò lui, “E mi ha raccontato del funerale.”
Joanna sentì la sua testa cadere senza peso ed appoggiarsi sulla mano in un gesto di sconforto. Vide anche Dougie scattare sugli attenti, ancora seduto sulla poltrona.
“Lascia stare.”, gli  disse.
Hai detto che ti ha fatto delle... Cose...”, le chiese.
No, non voleva parlargliene, no. E no.
“Ero solo scioccata, fai finta che non sia successo niente.”
Beh, Arianna sembrava molto preoccupata quando me ne ha parlato.”, insistette lui, “Ma non ho saputo come tranquillizzarla, non so nemmeno come si chiami tuo padre, né che faccia abbia.
“Dan, non ti preoccupare.”, continuò a ripetergli, “Non è successo niente tra me e mio padre.”
Lui esitò, forse se ne stava convincendo.
Ok.”, disse, “Va bene, magari eri solo davvero scioccata.”
“Ecco.”
Scusa per l’insistenza, ma sono davvero preoccupato.”
“Non farlo troppo.”, gli disse, ridendo un po’, “Presto starò bene.”
Lo spero anche io.”, rispose Danny, con tono dolce, “Dov’è Dougie?”
“In camera sua.”, rispose prontamente.
Ok… Dagli il buongiorno appena lo vedi. Ti chiamo domani, va bene?
“Va bene.”, gli disse.
Allora a domani, Little… Ti voglio bene.”
Quelle tre parole la fecero sentire più in colpa di un'accusa.
“Ciao.”, gli disse e chiuse la chiamata, rimanendo a fissare il telefono nelle sue mani.
Come poteva lei fargli tutto quello? Come poteva non volergli parlare della sua vita, di ciò che aveva vissuto? Lui era in diritto di sapere, e lei in dovere di parlare… Alzò lo sguardo, movendolo con aria persa per tutta la sua stanza finché non incrociò quello di Dougie, e si ricordò che suo malgrado lui era lì.
“Buongiorno…”, gli fece, con aria stanca, lasciando il telefono.
“Buongiorno cosa?”, domandò lui, con una lieve risata.
“Buongiorno e basta, Danny mi ha chiesto di dirtelo non appena ti avessi visto… E l’ho fatto.”, gli spiegò, tornando sulla sua pizza.
Lo sentì ridere, coprì l’unico rumore nella stanza fosse il fruscio del cartone della pizza sulle sue gambe. Joanna rese un altro morso e lo ignorò.
“Ti ha chiesto di tuo padre… Non è così?”, domandò lui, rompendo il silenzio.
Gli annuì senza guardarlo.
“Perché non gli hai ancora detto niente?”, le fece, “Se posso saperlo, ovviamente.”, aggiunse subito.
“No, non puoi saperlo.”, lo seccò con la sua risposta.
“Allora me lo immaginerò.”, disse lui.
Joanna sbuffò, infastidita dalla sua presenza poco ben voluta.
“E così”, riprese Dougie, “a quanto pare Arianna lo ha chiamato e gli ha detto del funerale…”
“Poynter, per cortesia, non si parla mentre si mangia.”, gli disse, provando a farlo zittire.
“Ma io non sto mangiando.”, le fece, con sorriso beffardo.
Lei si spazientì ancora, prese lo scatolone e scese dal letto, avvicinandosi a lui. Glielo mise sotto il naso.
“Tappati la bocca.”, gli disse, forzandolo a mangiare.
Lui non se lo fece dire una seconda volta, prese uno spicchio e lo addentò. Joanna tornò sul suo letto, chiedendosi perché diavolo il destino avesse voluto mandarle lui al posto di Danny. E si ricordò che quel destino si chiamava Tamara.
“E Arianna gli ha detto del tuo discorso al…”
“Fatti i cazzi tuoi!”, si arrabbiò con lui, “Perché devi insistere? Non ne voglio parlare, basta!”
“Ok!”, fece lui, alzandole mani con aria innocente, “Pensavo solo che…”
“Non pensare, non parlare, non guardare… Mangia e basta!”, gli vomitò addosso quella serie di divieti.
Lui se ne stava sulla sua poltrona, con i piedi che penzolavano dal bracciolo e toccavano il letto, le braccia incrociate e sguardo vispo e malizioso.
“Cosa c’è, Poynter!”, sbuffò, veramente annoiata dal suo atteggiamento.
“E’ più bello vederti arrabbiata che in lacrime.”, le disse, facendosi serio.
Lei si sentì improvvisamente in imbarazzo. Le guance avvamparono, erano fuori controllo, e si dedicò alla masticazione frenetica del suo boccone, lo sguardo tenuto basso piuttosto che vedere lui e tutta la sua presuntuosaggine.
“Secondo te il rosso mi dona davvero?”, le chiese di lì a poco, costringendola ad alzare il viso per prestargli attenzione.
“Cosa?”, gli fece.
Dougie si mise le mani dietro alla testa, allungò le gambe per stirarsi i muscoli e, con il viso contratto in una smorfia di sbadiglio, gli indicò il muro.
Il poster e le fotografie.
“Certo che ti dona!”, gli disse subito, “Perché? Preferivi un altro colore? Magari il nero?”
Lui alzò le spalle senza rispondere, come se non gliene fosse importato niente.
“Perché continui a fissarmi in quel modo?”, gli domandò Joanna, ormai al limite della sopportazione, “C’è qualcosa che mi esce dal naso?”
“Oh no, affatto.”, le rispose, “E’ che non sono mai stato in camera tua, tutto qui.”
“Tutto qui?”, esclamò Joanna, sentendosi presa in giro, “Tutto qui?”
“Sì.”
Non ci poteva credere.
Per caso si ricordava che il pomeriggio precedente avevano seppellito suo padre, dopo che lei aveva trattato male la sua anima in pubblico? Perché continuava a prendersi gioco di lei, a scherzare ed a fare l’idiota? Ah, ecco, la risposta giusta era nella sua stessa domanda: lui è un idiota.
“Ti stai prendendo gioco di me?”, lo accusò con quella domanda, “E’ morto mio padre e tu ti prendi gioco di me?”
Dougie tolse dalla faccia il sorrisetto buffo che indossava e si fece serio.
“No, non mi sto affatto prendendo gioco di te.”, le fece, con tono calmo ma lievemente risentito, “Sto solo cercando di farti stare meglio, di non farti pensare a quello che stai vivendo. Ti voglio far sorridere, anche solo per tre secondi, perché so che stai morendo dentro. E non voglio.”
“Non ti sto chiedendo aiuto.”, gli sibilò.
“E’ vero, sono perfettamente d’accordo con te.”, continuò lui, “Ma a chi lo chiederai quando ne avrai bisogno? Ad Arianna o a Danny, a cui non hai mai parlato di tuo padre? Almeno io so qualcosa di lui, so qualcosa di te. Forse ti capisco meglio degli altri.”
Rimase stupefatta dalla presunzione delle sue parole. Era senza fiato.
“Esci da questa stanza.”, gli disse, puntando il dito verso la porta, “Esci.”
Lui non si oppose, né disse qualcosa per discolparsi. Semplicemente si alzò, e la lasciò sola, a piangere ancora.
 
 
 
Cretino, cretino, cretino. E ancora una volta cretino.
Ma che cazzo gli era passato per la mente? Cosa cazzo aveva pensato? Che mettersi lì a stuzzicarla sarebbe servito a qualcosa? Che stare a fare lo scemo fosse una buona idea? No, non lo aveva pensato affatto. Si era semplicemente spaventato, fatto prendere dal panico come un demente perché si era addormentato nella camera di Jonny, in un posto a lui proibito, ora e sempre. Si era intrufolato di nascosto lì, contro tutte le leggi del comune buon senso e lei, ovviamente, non aveva minimamente gradito la sua presenza.
Sospirò, chiedendosi se mai una volta nella sua vita sarebbe stato in grado di prendere decisioni giuste, quando c’era Jonny in ballo. Ogni mossa che faceva, ogni parola detta, ogni pensiero sembravano errati, fuori luogo, offensivi. Quando c’era lei di mezzo, sembrava perdere completamente la capacità di comportarsi correttamente.
Guardò il soffitto bianco, perfetto, nemmeno una sbavatura nella tinta linda. Accantonò quei pensieri per trovare il suo cellulare e chiamare Fletcher detto Fletch, il loro fidato manager, che con il biondo chitarrista Tom Fletcher aveva in comune solo il cognome, per chiedergli se in mattinata avrebbe arrangiato per lui un volo di ritorno. Sicuramentedoveva averlo colto in un momento poco opportuno, a sentire dalla voce affannata e nervosa,  e ne ebbe la conferma quando lui gli proibì severamente di disturbarlo di notte, per qualsiasi motivo, a meno che non si fosse trattato della sua imminente morte violenta. Flethc riattaccò dicendogli che si sarebbe fatto sentire appena avesse trovato qualcosa.
Infatti, la mattina seguente, il primo suono che le sue orecchie percepirono fu proprio il trillare del suo telefono.
“Pronto…”, biascicò.
La voce era quasi del tutto assente, si strapazzò un po’ gli occhi stanchi, che bruciavano ed erano gonfi.
Dougs, sono io.”, disse qualcuno, di là, senza specificarsi.
“Io chi?”, gli chiese, ancora intonito.
Fletch.”, si presentò.
Un barlume di memoria si fece spazio nella sua mente.
Il caro manager Fletch.”, continuò poi il manager, aiutandolo nel ricordarsi.
“Ah… Trovato il mio volo?”, gli chiese subito.
Sì, l’ho trovato… Domani alle dieci e mezza.”
“Cosa?”, esclamò subito Dougie, “Domani mattina alle dieci?”
Sbagliato, domani sera alle dieci e mezza.”, lo corresse Fletch, calcando la voce su quelle parole.
“Cristo, Fletch!”, protestò Dougie, “Ti avevo chiesto di prenotarmi il primo volo di oggi!”
Ma è quello che ho fatto!”, si difese l’altro, “E non è colpa mia se ti trovi nella repubblica delle banane, Dio solo sa cosa ci sei andato a fare, e tutto il personale di volo degli aeroporti ha deciso di scioperare in massa proprio oggi!
“Cazzo, ma qualche volo partirà pure!”, si arrabbiò maggiormente Dougie.
Oh sì, partono eccome, peccato che i controllori di volo nelle torrette, il personale a terra e gli sbandieratori nelle piste siano a picchettare le entrate degli aeroporti!
“Io devo tornare a casa! Io VOGLIO tornare a casa, trovami un volo!”, gli urlò.
Trovatelo da solo!”, lo ghiacciò Fletch, “E’ dalle otto di stamattina che ti cerco un posto su un fottuto 747, e il primo che ho trovato è stato il primo che ho comprato!”, e chiuse la chiamata.
Con un grugnito Dougie batté i pugni sul letto, nervoso. Che cavolo avrebbe fatto tutto quel tempo lì? Si buttò di nuovo a peso morto sul materasso.
 
 
 
Prese la sua tazza preferita, quella con il grande girasole dipinto sul fondo, e la riempì con il latte tiepido. La tavola alle sue spalle era già pronta per la colazione, apparecchiata con biscotti, aranciata e marmellata. Il profumo del caffè appena fatto usciva insieme al rigo di fumo tremolante e riempiva la cucina di un aroma forte ma dolce, che non poteva fare altro che mettere il buonumore. Doveva solo aggiungerne la giusta quantità dentro al suo latte, in modo che i due liquidi si amalgamassero perfettamente e nessuno dei due prevaricasse sull’altro. Non le piaceva quando la sua colazione sapeva troppo di caffè, era troppo amaro per il suo palato, ma non era di suo gradimento nemmeno la stucchevolezza del latte.
Nelle cose ci voleva sempre il giusto equilibrio.
Prese il manico caldo e nero della moka e, con attenzione, iniziò a macchiare il suo latte. Aggiunta la quantità corretta, prese la tazza con entrambe le mani e si sedette sul tavolo, ben attenta a non versarne nemmeno una sola goccia. Solo da quel momento  il suo rituale mattutino poteva dirsi iniziato. Accese un po’ di tv, sintonizzandola sull’ennesima replica estiva di ‘Happy Days’ ed iniziò a immergere uno per volta i grandi biscotti rotondi col buco nel mezzo che le piacevano tanto.
“Giorno, Jonny.”
Quello che gli vide indosso non erano altro che i vestiti del giorno prima, non aveva avuto neanche l’accortezza di toglierseli, una volta tornato in camera sua. Non sarebbe stata una buona mattinata, né un giorno felice, né l’aroma del caffè le aveva messo il buonumore sperato, indipendentemente dalla fastidiosa presenza di Dougie in casa sua.
“Buongiorno.”, gli disse, senza dargli il benvenuto con lo sguardo, “Fame?”
“Molta.”
“Prendi quello che vuoi.”
Alzò il volume della televisione, facendo sì che le vecchie battute tra Fonzie e Ricky Cunningam tacessero i rumori di Dougie. Dopo qualche minuto di intensa e rumorosa attività lo vide sedersi al tavolo, opposto a lei, con una tazza di latte freddo.
“Tutto questo casino solo per quello?”, sbottò subito Joanna, incredula.
“Tieni la tv così alta solo per quello?”, rispose lui a tono, indicando la televisione.
Sbuffando, Joanna abbassò il volume e tornò ad ignorarlo per riempirsi lo stomaco.
“Dormito bene dopo che me ne sono andato?”, le fece Dougie, evidentemente interessato a parlare, al contrario di lei.
“Sì.”, gli rispose, sbrigativamente.
“Anche io.”
“Non te l’ho chiesto.”
“Ma io te lo dico lo stesso perché voglio che tu lo sappia… Anche se non ti interessa… E sì, mi piace sprecare il mio fiato perché la vita è la mia.”, disse lui, anticipando intelligentemente tutte le possibili parole che lei avrebbe voluto usare per zittirlo e tornare ad passare sopra la sua presenza.
Joanna alzò le spalle, lasciandolo ad accontentarsi dell’obiettivo raggiunto, il non farla più controbattere.
“Ti devo dire una cosa.”, le fece Dougie, dopo aver preso un sorso del suo latte.
“Prima però devo dirtene una anche io.”, gli disse, “Non provare mai più ad entrare in camera mia, ci siamo intesi?”
Dougie, spiazzato, le annuì ed abbassò la testa con colpevolezza.
“Non l’ho fatto per farti arrabbiare... Avevo solo pensato che tu potessi avere fame.”, le disse, “Per quello ti avevo portato i biscotti ed il latte che hai trovato sul tuo comodino.”
Non volle sentirsi in colpa per l’eccessiva reazione che aveva avuto nei suoi confronti. Non le interessavano i moti di compassione , poteva risparmiarli e tenerli per altre disgrazie. Joanna tornò alla sua colazione.
“Dov’è Arianna?”, le domandò, cambiando totalmente discorso.
“Al locale, aveva da fare.”, gli disse, con parole veloci e annoiate di essere parlate.
Per qualche attimo un silenzio soffocante scese su di loro.
“Starà via tutto il giorno?”, tornò a chiederle Dougie.
“Purtroppo sì!”, esclamò Joanna, che fino a quel momento aveva tenuto lontano da se stessa la possibilità di passare altro tempo con lui, “E tu quando hai il tuo volo?”
Pretese una risposta nel giro di pochissimi attimi.
“Proprio di quello volevo parlarti.”, disse lui, “Proprio del mio volo...”
Se non fosse stato un volo d’aereo, sarebbe stato un volo dalla finestra e ce lo avrebbe buttato lei, di persona.
“A che ora ce l’hai?”, gli domandò.
“Alle dieci e mezza.”
“Bene.”
“Di domani sera.”
No, doveva essere uno scherzo.
“Come, scusa?”, gli chiese di ripetere.
“Hai capito, Jonny, prima di domani sera alle dieci e mezza non lascerò il tuo paese per il mio, va bene?”, disse Dougie, il suo tono infastidito tanto quanto il suo.
“Non è possibile che tu non sia stato in grado di trovare un solo aereo che parta prima di domani sera!”, si difese lei.
“Credici pure, vivi in una prigione, non in una nazione civile!”, sbuffò lui, alzando la voce, veramente innervosito, “Era questo quello che volevo dirti, che purtroppo non riesco liberati da me!”
“Non ci sono soltato gli aerei per tornartene a casa!”, gli disse, saltando in piedi, risentita dal suo tono arrabbiato.
“Se fossi rimasto in aeroporto, sarei ripartito senza dovermi trattenere qui!”, riprese lui, “E così non avrei dovuto preoccuparmi di te, del tuo stato e dei tuoi sentimenti! Non avrei dovuto tapparmi le orecchie per non sentirti piangere!”
Joanna sentì le lacrime salirle agli occhi ma si impose di non versarne nemmeno una, non una sola. Strinse i pugni e, senza battere ciglio, si alzò per liberare il tavolo dalle rimanenze della sua colazione.





Eccomi, sono tornata con la solita puntualità. Non ho molto da dire su questo capitolo, tranne che mentre scrivevo non riuscivo ad evitare di odiare Danny... E pure Joanna. Dio, non riuscivo a sbloccarla da quella situazione, mi ce n'è voluto di tempo. Come spero che avrete capito (e sono sicura che sarete in molte), ognuno ha il suo 'motivo' per 'odiare' Dougie, giustificabile o ingiustificabile che sia, dipende dai punti di vista che assumiamo. E questi motivi, purtroppo, vengono nascosti dietro ad un sacco di bugie... Dietro all'orgoglio, all'amicizia.
Lo capirete meglio nei prossimi capitoli. Soprattutto, capirete che se la situazione si smuove da un lato, regredisce dall'altro, in un tira e molla che ha esasperato perfino chi questa storia l'ha scritta e chi l'ha betata (sì, perchè ho assunto una betareader XD aggratisse, come direi in perfetto fiorentino)! Di certo, comprenderete che se nella realtà le persone non cambiano da un giorno all'altro... Perchè devono farlo nelle fanfiction?

La canzone che apre il capitolo è 'Buried Myself Alive' dei The Used e i versi in corsivo sono un estratto del suo testo. Credo che sia molto appropriata per Joanna, non credete? No scopo di lucro.

Non ho molto tempo per ringraziarvi... Spero che mi perdonetere ^^"

Mando comunque un bacio a tutte le mie lettrici, a chi recensisce e a chi passa anche solo per un'occhiata :)

Al prossimo lunedì!




   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > McFly / Vai alla pagina dell'autore: RubyChubb