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Autore: EmmaDiggory15    23/01/2015    1 recensioni
Augusta, Maine 2010
Jake Dallas sta per affrontare la prova della sua vita, da cui dipenderà il suo futuro e la sopravvivenza della sua comunità, ma non sa ancora cosa lo attende, e i suoi nemici si nascondono nell’ombra pronti ad attaccarlo.
Portland, Maine 2014
Quattro anni dopo Jake conserva ancora il ricordo di quella notte. Una chioma bionda e un vestito rosso sangue sono ancora impressi nella sua memoria, diviso a metà tra il suo dovere e i suoi desideri proibiti.
Nel frattempo, una ragazza cerca vendetta per il male che le è stato inflitto, nessuno scrupolo per chi si metterà in mezzo tra lei e la sua preda.
Nessuno è quello che sembra, dimentica ciò che hai sempre creduto di sapere: il vero nemico potrebbe nascondersi proprio dentro di te.
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ad A. e a D., la prima perché senza di lei non avrei mai pensato di scrivere seriamente questa storia, la seconda perché senza di lei non sarei riuscita a cobinare nulla
 
Prologue
'Cause you've seen, seen
Too much, too young, young
Soulless is everywhere
 
Augusta, Maine; dicembre 2010

Uno, due, tre, quattro.

Contare i fiocchi di neve che finivano sul parabrezza si sarebbe rivelata un’attività alquanto noiosa e senza scopo, in circostanze normali. Jake era sempre stato un ragazzo molto pratico: azione, conseguenza, trovare una soluzione. Si era trovato molte volte a dover applicare questo suo metodo di vita.

Correre per casa. Rompere il vaso della mamma. Usare i soldi della paghetta per ricomprare il vaso.

Non studiare. Prendere un’insufficienza. Non uscire i venerdì sera per riparare l’insufficienza.

Fare sesso non protetto. Mettere incinta la propria ragazza. Trovare un lavoro.

Se ci fossero stati momenti in cui non c’era molto da fare, avrebbe preso le cuffie del suo MP3 e avrebbe lasciato che la musica conducesse i suoi pensieri altrove. Nonostante avesse da poco compiuto vent’anni, c’erano delle volte in cui Jake aveva bisogno di chiudersi in camera con della buona musica metal che ricoprisse qualsiasi altro suono; sua madre elaborava teorie sul crescere troppo in fretta e sul bisogno di dover recuperare i momenti persi, dopo che la situazione era diventata quasi stabile.

Abbassò lo sguardo sulla mano che aveva poggiato sulla gamba destra e dischiuse il pugno. Emerse una fotografia i cui bordi non erano ancora stati danneggiati dal tempo. Essa raffigurava sua figlia Ariel nel giorno del suo terzo compleanno, avvenuto due mesi prima; gli occhi verdi identici a quelli di Jake erano grandi ed espressivi, mentre i capelli biondi erano di sua madre; Jake, infatti, aveva i capelli castani.

Non si poteva dire che i due genitori andassero d’accordo: si erano lasciati poco dopo aver scoperto che lei era incinta. Jake, inizialmente, non aveva voluto essere coinvolto in quella storia, ma dopo varie proteste da parte di Lexie, la sua ex-ragazza e madre di Ariel, era andato a vedere sua figlia appena nata e ne era rimasto conquistato. Come aveva potuto credere che una cosa così perfetta potesse essere un errore?

«Questo, figliolo, è il tuo grande giorno.»

La voce di suo padre lo riportò alla realtà, lontano dal calore familiare che sentiva quando aveva sua figlia vicino e sempre più dentro quella nevicata gelida che incombeva sulla strada. Era arrivato il momento di crescere e di diventare un vero uomo. Non avrebbe dovuto aver motivo di essere nervoso, fin da quando era piccolo si preparava per quel momento, eppure si sentiva come se fosse un semplice spettatore e non stesse vivendo l’esperienza in prima persona. Sentiva il nervosismo pervadergli ogni cellula del corpo. E se non ne fosse stato in grado?

«Fidati, non hai motivo di essere nervoso» disse suo padre, indovinando i suoi pensieri. «All’inizio sembra una gran cosa, ma con il tempo ti ci abituerai.»

«Non sono nervoso.» La voce gli uscì strozzata e desiderò di essersela schiarita prima di aver aperto bocca.

Suo padre scosse la testa, le mani poggiate in una stretta decisa sul volante. «L’importante è tenere a mente la missione. Se ricorderai questo, vincere su di loro sarà facile.»

Jake annuì, sapeva dove il padre intendesse arrivare. Poggiò la mano sul finestrino, rabbrividendo leggermente a quel contatto, riprese ad osservare il bosco che si rincorreva, gli alberi resi candidi dalla neve con i rami mossi dal vento, il terreno sporcato da alcune impronte di scarponi. Una famiglia che andava a fare una passeggiata? Una delle loro prede? No, si disse. Loro non lasciavano impronte, se non volevano farlo.

Continuò ad osservare l’asfalto grigio dove passava il padre con le ruote, emettendo ogni tanto qualche rumore, poi il suo sguardo tornò sulla foresta alzandosi fino al cielo, reso bianco dalle nuvole, che però si stavano allontanando. Aveva smesso di nevicare.

Si strinse sulla giacca, ma non aveva freddo. Cominciò inconsciamente a ripassare tutte le lezioni che aveva ricevuto nella sua vita.
Non guardare mai nello stesso punto. Sono veloci, non si fanno sentire. Devi stare sempre all’erta.

Non lanciarti mai direttamente contro di loro. Si sposteranno prima che il paletto arrivi a metà strada. Lascia che siano loro a venire da te.

Cercare di spaventarli non servirebbe a niente. Loro non hanno paura di nulla.

Tieni sempre il crocifisso attorno al collo, ti proteggerà.

Non guardarli mai negli occhi. Mai. O sarai morto prima ancora che i loro denti sfiorino il tuo collo.

Si riscosse nuovamente dai suoi pensieri quando sentì che il pickup marrone scuro di suo padre si stava fermando proprio davanti a quello che sembrava essere l’ingresso del bosco aperto ai turisti. C’era un casello per le informazioni, Jake sapeva che se si fosse rivolto all’uomo che lavorava lì, quello gli avrebbe perfino fornito una mappa del Pine Tree State Arboretum, ma non ne avrebbe avuto bisogno: c’era stato mille volte e sapeva dei sentieri, degli alberi e dei fiori che si trovavano all’interno di esso. Jake si chiese perché suo padre e gli altri anziani avessero scelto quel posto, che sembrava il posto perfetto per un’escursione in famiglia, come luogo per la sua prima caccia.

«Sei pronto?» Il tono severo e solenne di suo padre fece scaturire in lui qualcosa, così raddrizzò le spalle, sollevò la testa e cercò di assumere un’espressione seria e concentrata.

«Sì, padre» disse, anche se non era sicuro che quelle parole non sarebbero venute fuori con un tono incerto. Non capiva cosa gli stesse succedendo, lui non era un codardo, non lo era mai stato, ma allora perché tutta la sicurezza che aveva acquisito durante gli anni, che aveva costruito mentre si allenava ogni giorno, dopo la scuola e dopo il lavoro, che suo padre gli trasmetteva attraverso i racconti delle sue cacce, la seria prima di andare a dormire al posto delle fiabe che ascoltavano la maggior parte dei bambini, perché stava tutto lentamente andando in pezzi?

Sentì la mano forte di suo padre poggiarsi sulla sua spalla, quella mano era così grande e forte, si poggiava dolcemente sulla guancia di sua madre, gli scompigliava i capelli, ora che aveva vent’anni, così come quando ne aveva dieci, quella stessa mano che vedeva fabbricare paletti di legno dagli stessi alberi che si trovavano nel giardino del retro della loro casa e quella stessa mano che si macchiava del sangue dei loro nemici.

«Senti, lo so che sei spaventato, te lo si legge in faccia, ma posso assicurarti che dopo questa volta ti sembrerà più facile, tranquillo, vedrai.»

Le parole del padre non furono molto confortanti per Jake, ma questa volta si sforzò di dargli ascolto. Detestava il fatto di sentirsi come un bambino spaurito che aveva bisogno di protezione, lui stava per diventare un cacciatore! Se fosse andato tutto secondo i piani, quella notte avrebbe ricevuto il tatuaggio che contraddistingueva i cacciatori dalla gente comune: un pentacolo in un cerchio nero. Non che esso rappresentasse una minaccia per i vampiri, non esistevano simboli in grado di scacciarli realmente; per quanto ne sapeva Jake, il pentacolo serviva per scacciare i demoni o i fantasmi, non era certo, però credeva che si usasse nei rituali della religione Wicca, lo sapeva perché sua madre possedeva decine di libri sull’argomento e aveva letto qualcosa anni prima. Il pentacolo per i cacciatori rappresentava più che altro un simbolo di riconoscimento e distinzione, qualcosa che facesse capire che si trattava di un gruppo stretto, senza nessun vero scopo pratico, ma era un importante rito di passaggio.

Fece un respiro profondo. Non c’era spazio per i ricordi o le insicurezze, in quel momento. Era ora di uscire e di affrontare la prima caccia.
Infilò con cura la foto di sua figlia nella tasca della giacca, quella che stava all’altezza del cuore, e scese dal pickup del padre. Il freddo della sera lo investì e, alzando gli occhi al cielo, notò quanto esso si era scurito, doveva mancare poco al tramonto ormai.

Vide parcheggiare dietro suo padre altre due auto. Dalla prima, una Jeep blu, vennero fuori due uomini dell’età di suo padre; quello che stava al posto del guidatore si chiamava Robert Montgomery, soprannominato in adolescenza Rob-sfasciacarrozze, visto che in gioventù aveva il vizio di struggere qualsiasi auto guidasse, e Jake sapeva che aveva lasciato a casa una moglie e tre figlie. L’uomo del posto del passeggero si chiamava John Ventura ed era quello con l’aria più minacciosa tra i due, cosa che era dovuta forse alle cicatrici che aveva sul volto; entrambi gli uomini portavano abiti scuri, come Jake e suo padre, del resto. La seconda auto era una Chevrolet su cui Jake era salito milioni di volte nella sua vita, infatti, da quella macchina scese un ragazzo che aveva un anno più di Jake ed era il suo migliore amico, e subito dopo di lui suo padre. Il suo amico si chiamava George Freeman ed aveva corti e ricci capelli castani e gli occhi azzurri, di lui si poteva dire che amasse veramente solo due cose: la sua xbox e la sua ragazza, Tyler, che era la più grande delle figlie di Robert; su suo padre, Mike, c’era poco da dire, bastava sapere che prendeva la caccia molto seriamente. Non era sorprendente il fatto che Jake conoscesse così bene i cacciatori amici di suo padre: in una città piccola dove si conoscono tutti, un gruppo ristretto si conosce ancora meglio.

Mentre suo padre armeggiava con delle sacche che stavano sul sedile del passeggero, Jake andò incontro a George, accennando un’espressione rilassata come se stessero semplicemente andando al cinema. L’altro gli diede una pacca sulla spalla.

«Nervoso, amico?»

«No, non lo sono. Ho passato vent’anni a preparami per questo momento, non ho motivo di essere nervoso.»

«Lo sai che questa è la tipica frase che dice qualcuno che è decisamente nervoso?»

«Non sono nervoso!» sbottò, scrollandosi la mano dell’altro dalla spalla.

George si accigliò più per il modo brusco in cui il suo amico gli aveva risposto che per altro. «Bene, allora.» Roteò gli occhi, non era il tipo che amava discutere.

«Sei uno sciocco, se non sei nervoso, ragazzo.» Mike diede a sua volta una paca sulla spalla del figlio e poi guardò Jake con un’espressione identica a quella di George. «Qui non stiamo giocando, là fuori sono tutti veri.»

John si mise al fianco di Jake. «Non ti preoccupare. Il ragazzo è un cacciatore eccellente, proprio come suo padre da giovane.»

«Puoi dirlo forte, Jo.» Il padre di Jake lanciò una delle borse in mano all’amico. «Questo non vuol dire che non debba stare attento. Tutti noi dobbiamo essere cauti, sempre.»

«Quanto manca al tramonto?» intervenne George per spezzare la tensione che si era creata.

«Non molto ormai» disse Robert, e tutti e sei alzarono lo sguardo verso il sole arancione che tingeva la neve bianca sugli alberi, il fresco della sera penetrava i vestiti di Jake, facendolo rabbrividire, mescolando l’ansia della caccia imminente alla paura di fallire miseramente.
Istintivamente poggiò la mano sul petto, proprio dove teneva la foto di Ariel, ora a casa con sua madre Lexie, al sicuro.

«Chi cerchiamo?» domandò, sperando che così avrebbe esorcizzato la paura.

«Il più giovane degli Smith. Crediamo che sia stato trasformato il giorno in cui gli altri sono stati uccisi» rispose suo padre, mentre intercettava il suo sguardo carico d’ansia mal celato.

«Si può dire che la sorella più grande, Lisa, sia stata fortunata a trovarsi fuori città, quel giorno.» Il tono quasi scherzoso di Robert sembrava stonare terribilmente in quella situazione.

«Fortunata? Io non mi sentirei così fortunato, se dovesse succedere qualcosa alla mamma o a Lydia o a te…»

«Ecco perché facciamo questo: per proteggere le nostre ragazze.» Mike mise una mano sulla spalla del figlio, il cui tono era visibilmente preoccupato.

«Ma così non sarà troppo facile? È solo un ragazzino.» Jake tentò di apparire spavaldo.

«Beh, a tuo padre toccò un cane mannaro alla sua prima caccia, quindi…»

«Rob, quello non era un cane mannaro, quello non è il nostro campo.» L’atmosfera tra di loro si era alleggerita.

«Ti ricordo che il tuo primo era una vecchietta…»

«Io sono stato sfortunato: ho dovuto uccidere Rachel Jones, quella che si era appena trasferita. Peccato. Era molto carina.»

Jake aveva un ricordo vago della ragazza di cui parlava l’amico, forse bionda e ricciolina? «Ma poi ti sei consolato con Tyler…» sussurrò all’orecchio di George, per non scatenare la gelosia paterna di Robert.

«Il punto è, ragazzi, che vogliamo che capiate con chi avete a che fare. Non sarebbe saggio farvi combattere un Vampiro Superiore durante la vostra prima caccia.»

Jake abbassò lo sguardo, nuovamente spaventato, dopo le parole di suo padre: un Vampiro Superiore era un vampiro che aveva vissuto per più di un secolo, questi erano più veloci, più forti, più esperti e perfino più crudeli dei vampiri più giovani. Quelli preferivano dissanguare le loro vittime subito dopo la cattura, mentre dei superiori si diceva che avessero un perverso senso dell’umorismo, durante le loro cacce; alcuni affermavano che loro amassero tenere le vittime segregate per mesi prima di finirle, aspettando di avere la loro fiducia, per poi colpirle… Jake rabbrividì al solo pensiero.

«George, tu accompagnerai Jake, visto che sei l’ultimo arrivato. Noi ci terremo alle vostre spalle.»

«Immagino che sarà bello non essere più il novellino.» George scrollò le spalle e Jake sorrise.

«Vediamo chi sarà il migliore.»

«Jake, vieni un secondo.» Era suo padre.

«Sì» disse, e lo seguì lontano dagli altri, verso la loro auto.

Non percorsero un lungo tragitto, solo qualche metro, ma a Jake sembrò di camminare per un’eternità.

«Ascoltami bene. Questo per te è un momento importante, sono quindici anni che ti prepari per questo e adesso sei preoccupato, ma lo siamo stati tutti…» fece una pausa, aspettando che Jake dicesse qualcosa.

«Il fatto è che ho vent’anni, adesso sono un uomo! Non dovrei avere paura» confessò. Il fatto era proprio questo: come aveva detto il padre, si allenava da quando aveva appena cinque anni, da sempre gli avevano insegnato che al mondo esistevano i vampiri e che era suo compito sconfiggerli. Ma gli avevano anche raccontato di quanto fossero spaventosi e crudeli, di come potessero farti perdere il lume della ragione con un solo sguardo e di come per loro non esistessero né pietà, né amore, né nient’altro. Ogni volta che suo padre usciva per una caccia, nutriva in segreto il terrore che lui non sarebbe mai tornato e che lo avrebbe lasciato da solo con un peso troppo grande da portare. Jake avrebbe voluto poter essere spaventato, ma fin da bambino aveva dovuto drizzare le spalle e mostrarsi coraggioso, non aveva alcun diritto di chiedere aiuto o di scappare, doveva soltanto affrontare la realtà ed essere un cacciatore.

«Sono degli esseri spaventosi, sono dei mostri e noi dobbiamo sconfiggerli. Hai paura, perché io non sono stato abbastanza bravo con te.» Sospiro ed aprì lo sportello posteriore della macchina, per poi seppellirci il busto dentro. Jake sapeva che lo faceva quando non lo voleva guardare negli occhi. «Avrei dovuto insegnarti che tu sei più forte, ma forse ho sbagliato, pensavo che se avessi capito con chi avevi a che fare, saresti stato più coscienzioso.»

Forse l’uomo voleva solo farlo sentire meglio, ma Jake ebbe solo la conferma di ciò che pensava segretamente da anni: non sarebbe mai stato un bravo cacciatore. Non aveva mai visto nessun altro dei ragazzi con cui era cresciuto essere così spaventato dai vampiri, loro erano cresciuti strafottenti e con la sicurezza di sconfiggerli, perfino Lydia, la sorella di George, era più coraggiosa di lui.

«C’è una cosa che non ti ho mai detto,» continuò, uscendo dalla macchina, «non l’ho fatto perché non è una cosa di cui si parla spesso tra le nostre righe, preferiamo nasconderlo, abissare i casi che ogni tanto capitano, metterci una benda sugli occhi e negare l’evidenza, ma io credo che tu debba sapere la verità.»

Jake avrebbe voluto incrociare lo sguardo del padre, ma lui aveva gli occhi puntati fra gli alberi, sfuggenti.

«Noi professiamo che loro siano degli esseri immondi, spaventosi, un abominio, ma a volte ci ingannano, ci inducono a pensare cose che non dovremmo, a tradirci e a voltare le spalle alla nostra stessa famiglia.» Finalmente si voltò verso di lui, lo sguardo indecifrabile e la fronte corrugata. «Non permettere mai che uno di loro di avvicini a te, non lasciare che le loro parole ti confondano la mente, non lasciare…» Fece un’altra pausa. «Non lasciare che ti avvelenino il cuore.»

Jake sbatté lentamente le palpebre, incapace di capire le parole che il padre gli aveva appena rivolto. Non era la prima volta che veniva avvertito sui trucchetti mentali che un vampiro era in grado di attuare, anche se non aveva mai capito veramente come la cosa dovesse funzionare, ma non aveva mai sentito dire da nessuno dei cacciatori più anziani che un vampiro era in grado di avvelenare un cuore.

Intendeva forse dire che potevano fargli credere di provare sentimenti che in realtà non avrebbe mai potuto concepire?

Avrebbe voluto dire qualcos’altro a suo padre, avrebbe voluto chiedergli spiegazioni o che fosse stato più chiaro con le sue parole, ma, senza aggiungere altro, l’uomo chiuse lo sportello che aveva aperto e si allontanò.
 
***

Camminava per il sentiero, il rumore dei suoi passi era soffocato dalla candida neve appena caduta e aveva le mani fredde strette attorno alle armi che suo padre gli aveva procurato: la destra stringeva un paletto di legno dall’impugnatura scheggiata e nella sinistra teneva una pistola carica di proiettili d’argento; era convinto che non sarebbe servita a molto contro un vampiro, soprattutto se avessero incontrato un superiore, ma servivano comunque per prendere tempo e disorientarli, e poi i vampiri superiori erano rarissimi.

Respirò pesantemente e poté chiaramente vedere il suo fiato gelare in una nuvoletta argentea davanti ai suoi occhi; nonostante il nervosismo per ciò che stava per fare, la presenza del suo amico lo rassicurava e anche se poteva sentire il rumore dei suoi passi alle sue spalle, riusciva a percepire il suo respiro smorzato dal freddo.

Più si addentravano nel bosco, più il freddo sembrava farsi glaciale e Jake aveva il terrore che le sue mani intorpidite dal freddo non sarebbero riuscite a trapassare il petto di quei mostri con il paletto di legno, che non sarebbe mai diventato un vero uomo.
Si fermò di scatto, quando l’unico rumore udibile era diventato quello del suo respiro. Si voltò.

«George, dove sei?» sussurrò preoccupato dall’assenza dell’amico alle sue spalle. Cercò di concentrarsi e mantenere la calma: doveva trovare George senza farsi sentire, se avesse gridato per chiamarlo si sarebbero accorti della sua presenza. Un nuovo ricordo delle lezioni di suo padre affiorò nella sua mente e si rese conto che non c’era bisogno che urlasse perché loro lo sentissero, bastava il suo respiro, bastava il battito del suo cuore.

Era sul punto di muovere un passo e mettersi alla ricerca dell’amico, quando sentì uno scricchiolio a pochi metri dalla sua posizione. Si girò e non poté evitare di spalancare la bocca dalla sorpresa. Non ne aveva mai visto uno prima.

Doveva avere non più di dieci anni, indossava un giubbotto pesante e jeans chiari, sotto ai quali portava delle scarpe da ginnastica sporche di terra e aveva i capelli castani pettinati con una riga di lato. Nel complesso sarebbe potuto sembrare un bambino normalissimo, se non fosse stato per il volto dall’espressione mostruosa. Aveva gli occhi spalancati e fissi su Jake in uno sguardo consapevole, con le iridi del colore del sangue, la bocca semi aperta pronta ad accogliere un pasto particolarmente appetitoso. Jake sapeva che anche lui era pronto a cacciare, come sapeva che aveva fatto rumore perché voleva che lo notasse. Strinse i pugni e si preparò.

Mosse un piede in avanti, come suo padre gli aveva insegnato, senza spostarsi veramente, e in un attimo il vampiro gli fu addosso.
Era sorprendente il modo in cui si era mosso: veloce come un felino e silenzioso e leggero come una piuma. Si era piegato sulle ginocchia, portando le braccia indietro come a darsi slancio e senza emettere alcun suono, aveva spiccato un balzo di più cinque metri e aveva allungato nuovamente le braccia, arricciando le dita come a voler minacciare con degli artigli e spalancando la bocca, dando mostra delle sue zanne.

Il vampiro aveva atterrato Jake e aveva la bocca spalancata e mostrava due canini candidi come la neve sul suolo e affilati come rasoi. Affondò le unghie sulle sue spalle e Jake dovette sforzarsi per non gemere dal dolore che gli aveva procurato; il vampiro riusciva a tenerlo perfettamente inchiodato al terreno con la sola forza delle mani e gli bloccava il resto del corpo con il peso del suo. Incredibile pensare che un essere apparentemente così piccolo potesse essere così forte. Jake si dibatté dalla sua presa, ma quello non la allentò, anzi, spalancò ancora di più la bocca e i suoi occhi sembrarono diventare ancora più rossi di quanto non fossero prima.

Il vampiro stava per affondargli i canini sul collo, ma Jake non aveva lasciato mai andare il paletto e continuando a dimenarsi, riuscì a sbloccare il braccio destro. Cercò di affondarlo nel petto del vampiro, ma quello gli lasciò andare una spalla e gli bloccò il polso, cercando poi di puntarlo sulla gola di Jake.

Era davvero forte. Jake pensò che forse non sarebbe riuscito a sconfiggerlo, che avrebbe dovuto gridare per chiamare qualcuno, ma sentiva come se la sua gola fosse serrata dall’interno. La presa del bambino era più salda della sua e spingeva sempre di più il paletto contro la gola di Jake, che lo sosteneva a malapena.

Alla fine, il paletto di legno era puntato sulla sua gola, poteva quasi sentirlo perforargli la pelle e pensò che tutto sarebbe finito lì, che sarebbe morto in quel momento. Ad un tratto si sentì un altro scricchiolio.

Il vampiro si voltò di scatto e Jake riuscì a rafforzare la presa sul paletto. Gli bloccò l’altro braccio e in un secondo affondò il paletto nel cuore del vampiro.

Il suo respiro era veloce, mentre vedeva il vampiro annaspare e poi il suo corpo afflosciarsi contro di lui. Era morto.

Buttò il corpo da un lato e si mise seduto, ancora tremante. Guardò il corpo del vampiro immobile e si sforzò di capire come avesse fatto. Aveva ucciso il suo primo vampiro. Era salvo. Sarebbe sempre stato così o sarebbe stato ancora più difficile?

Stava per rimettersi in piedi, deciso a ritrovare George, suo padre e tutti gli altri, quando vide, più lontano di dove si era trovato il vampiro ora morto, una ragazza.

Quella era decisamente la ragazza più bella che avesse mai visto. Aveva il viso pallido, grandi occhi azzurri e boccoli biondi che le circondavano il volto, con le sue labbra rosee avrebbe potuto essere scambiata per una bambola. Jake staccò con molta fatica il suo sguardo dagli occhi di lei e notò che indossava un vestito rosso fuoco che le arrivava a metà coscia, lasciando gambe e piedi nudi.

La comprensione si fece largo nella sua mente e tornò ad osservare i suoi occhi, rendendosi conto che lo osservava con la testa chinata da un lato, lo stesso sguardo di sua figlia quando osservava le farfalle d’estate, prima di allungare le manine paffute nel tentativo di catturarle. Il sorriso della ragazza si allargò in una smorfia crudele e Jake tentò di estrarre il paletto dal petto del vampiro, ma era troppo tardi.

Era ancora più veloce del bambino. Non riuscì nemmeno a distinguere il momento esatto in cui spiccò il balzo.

In un secondo, la ragazza lo sovrastava, bloccandogli ogni via di fuga, gli occhi azzurri puntati sui suoi e Jake si scoprì incapace di distogliere lo sguardo da essi.

La ragazza gli accarezzò lievemente il volto con la punta delle dita e poi si avventò sul suo collo.

All’inizio avvertì solamente il dolore acuto e bruciante dei canini di lei che gli perforavano il collo e ogni parte del suo corpo urlava: «Scappa!». Ma non c’era alcun modo di scappare. Lei gli bloccava una spalla e le gambe con forza, come aveva fatto prima il bambino, e gli impediva di muoversi e il dolore che si irradiava dal suo collo sembrava impedirgli di pensare.

Poi smise di provare dolore. Una voce nella sua mente gli diceva: «Rilassati, non fa male», e lui lo fece, chiudendo gli occhi. Il dolore del morso era scomparso ed era rimasta solo la sensazione di abbandono che lo cullava lentamente, mentre il sangue defluiva del suo corpo alla bocca della vampira. Sentiva che tutte le preoccupazioni erano svanite: da quando si era arreso, c’era soltanto il piacere provato dal morso e la sensazione delle morbide labbra di lei sul suo collo e il pensiero dei piccoli canini candidi affondati nel suo collo. Neve nel suo collo. Non c’era più l’istinto di scappare ed era svanito anche il ricordo del paletto a pochi centimetri da lui, esisteva solo lei e le sue labbra e il piacere e il mondo era sempre più lontano…

All’improvviso sentiva che veniva strappato da quelle sensazioni e riportato bruscamente alla realtà. Jake non riuscì più a sentire il peso della ragazza che incombeva su di lui o le sue labbra sul collo. Aprì gli occhi e lei era sparita.
 
***

La prima cosa che vide fu il bianco.

Non era un bianco accecante, era un bianco tenue, riusciva a scorgervi delle piccole ed irregolari macchie dorate, testimoni della sua breve fobia del buio da bambino.

Era il soffitto della sua stanza, una volta delle piccole stelline dorate erano attaccate ad esso e si illuminavano la notte, creando l’illusione di un cielo stellato, si ricordava di averle staccate una ad una quando aveva dodici anni e doveva fare venire un compagno di scuola a casa, il primo amico che non fosse un cacciatore. Fece spostare lo sguardo dal bianco al blu scuro della parete, dove erano appese fotografie di lui da bambino e da adolescente, ce n’era perfino una dove teneva sua figlia ancora neonata in braccio, era l’unica foto che aveva lasciato a casa dei suoi genitori e non aveva ancora portato nel suo nuovo appartamento.

«Jake, sei sveglio?»

Si voltò lentamente e vide sua madre seduta accanto al suo letto. Aveva i capelli spettinati e le occhiaie, ma sembrava molto sollevata di vederlo sveglio.

Stava per rispondere, quando sentì il familiare suono di tende che venivano scostate e il sole invase la camera, prima al buio, costringendolo a coprirsi gli occhi con una mano.

«Ruth, ma sei impazzita?» Era ancora sua madre, ma la sua voce non era bassa e dolce come prima, ma più acuta e arrabbiata.
Una donna in piedi accanto alla finestra aperta scrollò le spalle. «Scusami, Cynthia, stavo solo controllando.»

«E a cosa ti è servito? È rimasto incosciente per due giorni, non credi che ci saremmo accorti, se fosse diventato un vampiro?»

«Due giorni?» La voce gli uscì rauca, mentre i ricordi iniziavano a riaffiorare. La sua prima caccia. Il bambino. La vampira. Il morso.

Sua madre lo guardò con dolcezza. «Sì, tesoro.»

«Andrò a dire agli altri che si è ripreso» annunciò Ruth, ed uscì.

Ruth e sua madre erano migliori amiche. Erano entrambe cresciute nella comunità dei cacciatori e nella giovinezza avevano ucciso parecchi vampiri insieme; con il passare degli anni si erano sposate e avevano avuto dei figli, ma, mentre Ruth aveva deciso di non abbandonare la missione, sua madre si era dedicata interamente a lui e con il tempo la maternità l’aveva addolcita, fino a farle quasi dimenticare come ci sentisse ad uscire di notte con lo scopo di uccidere vampiri; Ruth era rimasta tale e quale a com’era, anzi, il fatto di avere figli non era stato un freno, come con sua madre, ma sembrava averle dato un’altra spinta in più per agire. Era anche questo il motivo per cui Jake aveva legato così tanto con il suo migliore amico, nonostante non fossero coetanei: Ruth era la madre di George, e ogni volta che lei e il marito uscivano a caccia, lasciavano lui e sua sorella Lydia a casa di Jake con sua madre a dover fare da babysitter.

«Cos’è successo?»

Sua madre gli accarezzò i capelli amorevolmente. «Non ti ricordi? Eri alla tua prima caccia e sei stato attaccato, eri svenuto quando ti hanno trovato.»

Aggrottò le sopracciglia, non ricordava di essere svenuto. «Ma come stavo, insomma… Ero ferito o altro?»

Si bloccò per un istante, ma poi riprese a muovere la mano fra i suoi capelli. «Avevi una ferita al collo… Pensiamo che tu sia stato morso dal vampiro che hai ucciso. È così?»

Jake non rispose, rendendosi conto solo in quel momento della benda che gli stringeva la gola.

«Hanno esaminato la tua ferita e credono che il morso sia troppo grande rispetto alla dentatura del vampiro che hanno trovato morto accanto a te e che sia stato fatto in modo troppo preciso per uno che è stato appena trasformato.» Strinse le labbra. «C’era qualcun altro? Un altro vampiro? Lo dobbiamo sapere, Jake.» Spostò la mano sulla sua guancia. «Dimmelo.»

E Jake voleva dirlo. Voleva dire che c’era un vampiro femmina che si aggirava per i boschi, voleva raccontare quanto forte era stata e quanto pericolosa dovesse essere, voleva raccontare del suo sguardo, di come lo aveva ipnotizzato e voleva anche chiedere perché il morso fosse stato così… piacevole.

«Non ho visto nessun altro» sussurrò.

Non capiva perché lo avesse detto. La cosa giusta da fare sarebbe stata dire la verità, così suo padre e gli altri avrebbero potuto fare rapporto e catturare quella vampira, ma era come se ci fosse qualcosa nella sua mente, qualcosa che gli suggeriva che era giusto mentire, che non doveva rivelare niente di quello che era accaduto, era come quando osservava un coltello e, per quanto ne fosse affascinato, c’era una parte della sua testa che gli diceva che si sarebbe fatto male se ne avesse toccato la lama.

«Ne sei sicuro?»

«Sì.»

E non dissero più nulla.
***

Portland, Maine; marzo 2012

Era mezzanotte in punto quando le tende si mossero.

Le tende erano blu scuro, di un tessuto leggero che non riusciva a celare completamente la figura all’interno della camera e lasciavano intravedere la sagoma dormiente del ragazzo, sdraiato sul letto con i muscoli del viso rilassato e il petto che si muoveva a ritmo del suo respiro. Le tende erano leggere, così leggere che si tendevano per via del peso provocato dalle sferette di vetro che si trovavano alla fine di esse; quelle sferette erano di un blu leggermente più scuro delle tende, ed erano un’aggiunta del ragazzo che dormiva, ogni volta che le tende si spostavano, le sferette andavano a sbattere contro il vaso di vetro che si trovava sotto la finestra, producendo un tintinnio lieve, ma comunque perfettamente udibile alle orecchie del ragazzo.

Jake si alzò di scatto, svegliato dal tintinnio delle sferette contro il vaso. Ancora stordito dal sonno, allungò la mano verso il comodino di legno scuro, che ancora odorava di nuovo, come il resto dell’appartamento, dopotutto, trovando il paletto che teneva vicino a sé da quando era diventato un cacciatore. Si mise in allerta; i suoi sensi di cacciatore tesi al massimo gli avevano permesso di agire in fretta, nonostante sentisse la testa pesante dal sonno bruscamente interrotto, consapevole che poteva trattarsi di un falso allarme e che il tintinnio poteva essere stato provocato da una semplice folata di vento.

Accese la lampada sul comodino e scrutò rapidamente la camera: alla sua sinistra c’era la porta del bagno chiusa a chiave, quindi, se qualcuno fosse entrato, avrebbe dovuto sentirlo; si voltò verso destra, dove c’era la finestra e notò che il vaso di vetro non era stato mosso di un millimetro, ma, con un sussulto, si accorse che le tende erano state aperte del tutto e che il vetro della finestra era stato sollevato. Chiunque fosse entrato doveva averci messo molto tempo per riuscire a spostarlo senza fare rumore, dato che l’unica cosa che aveva sentito Jake erano state le sferette. Deglutì. C’era solo una categoria di esseri che avrebbe potuto spostare il vetro con così tanta delicatezza e pazienza da non produrre il minimo rumore.

Spostò lo sguardo verso i piedi del letto e lo puntò di fronte a lui, nell’angolo in ombra fra la porta aperta e l’armadio. All’inizio non vide nulla, ma poi socchiuse le palpebre e guardò più attentamente nel buio, finché non vide prendere forma di fronte a sé la figura di una ragazza in piedi e con le braccia lungo i fianchi.

«Chi sei? Vieni fuori!» La voce non gli tremava come avrebbe fatto un anno prima, infatti, durante quell’arco di tempo era riuscito a controllare meglio le sue emozioni e ad inquadrare l’obbiettivo: purificare il mondo dalla piaga dei vampiri. Con la coda dell’occhio lanciò uno sguardo verso il cassetto del comodino, dove conservava un altro paletto più grosso di quello che stringeva in mano, se solo fosse riuscito ad afferrarlo in tempo…

«D’accordo.» L’affermazione fu accompagnata da una leggera e cristallina risata divertita. La figura avanzò fino ad uscire completamente dall’ombra, rivelandosi. Era bionda, con il viso da bambola e le labbra piegate in un sorriso vittorioso.

Jake sbarrò gli occhi. Era lei. Quella era la vampira che lo aveva morso il giorno della sua iniziazione, quella che lo aveva quasi ucciso.
Sbatté le palpebre, non c’era tempo per pensare o per provare alcuna emozione.

Con tutta la forza che aveva, scagliò il paletto contro di lei, per poi allungarsi verso il cassetto e afferrare l’altro, preparandosi all’attacco.
Con sua grande sorpresa, la vampira non si spostò, anzi, rimase perfettamente immobile, tenendo gli occhi puntati su Jake. Quando il paletto la raggiunse, si conficcò sotto il suo seno, squarciando il vestito verde che indossava. Jake scese dal letto, pronto a finirla, ma poi si bloccò. La vampira stava ridendo.

«Non posso credere che tu ci abbia provato davvero!» Continuava a ridere come se trovasse l’intera situazione particolarmente spassosa. Con molta nonchalance estrasse il paletto dal suo petto e lo buttò per terra, macchiando di sangue il tappeto bianco ai suoi piedi. «Non puoi uccidermi.»

Sta mentendo, pensò Jake e tentò di lanciarle contro l’altro paletto, ma questa volta lei lo afferrò prima ancora che la sfiorasse.

«Non puoi uccidermi, è tutto inutile» continuò e Jake sentì la sua mente annebbiarsi. Doveva ucciderla, doveva riuscirci, i paletti avrebbero dovuto funzionare, ma forse aveva sbagliato qualcosa, forse poteva provare con l’acqua benedetta, forse doveva cercare dei rinforzi, ma non avrebbero avuto il tempo di arrivare, perché lei era entrata in casa sua, attraverso la finestra e…

Sbarrò gli occhi. I vampiri non dovrebbero entrare senza permesso.

«Sei proprio uno sciocchino, lo sai? Avresti dovuto controllare chi fosse il fattorino, prima di farlo entrare.» Lo disse come se sapesse esattamente cosa Jake stesse pensando.

Si sentì sprofondare. Era vero: due settimane prima stava giocando con sua figlia Ariel e aveva fatto entrare il fattorino della pizza senza nemmeno controllare, tutto ciò che aveva visto era solo una coda di cavallo bionda e non si era preoccupato di nulla. Idiota.
«Voi cacciatori non siete così bravi come dite di essere, eh? Siete solo delle piccole mosche.»

«Che cosa vuoi?» disse, cercando di prendere tempo. Doveva riuscire a prendere degli altri paletti, forse poteva provare a tagliarle la testa, magari poteva distrarla con una croce e poi con l’acqua benedetta…

Non gli diede tempo di fare nessuna di quelle cose.

In un attimo gli fu addosso, lo ributtò sul letto e si mise a cavalcioni su di lui, bloccandolo con la sua forza. Jake realizzò di essere bloccato e si sentì impotente: non sarebbe riuscito a prendere le sue armi nemmeno se ci avesse provato e lei gli impediva ogni via di fuga; si sentiva uno stupido per essere stato così poco attento e ora si trovava alla mercé di una vampira tornata per finire il lavoro che aveva iniziato quella notte. Fu solo per un momento, ma ebbe il timore di non essersi mai mosso dalla neve gelata e di essere ancora in quel bosco un anno prima.

«Quello che voglio» sussurrò «è il tuo sangue.»

Jake fece saettare lo sguardo e notò che dal cassetto aperto sporgeva un terzo paletto a cui non aveva pensato. In quel paletto vide l’occasione di avere la meglio sulla vampira, di liberarsi, doveva solo essere abbastanza rapido.

«Non ci pensare nemmeno» disse, il tono minaccioso e lo sguardo spaventoso non si addicevano al suo viso da bambola, così come non gli si addicevano i suoi occhi, che stavano lentamente prendendo striature scarlatte. «Non andrai da nessuna parte.» Si avvicinò al suo orecchio, fino a sfiorare la pelle con le labbra. «Sei mio, adesso.»

Jake credette di sentire le parole della vampira penetrargli la mente e offuscargli i pensieri dalla paura, ma in un momento di lucidità pensò che quello sarebbe stato il momento perfetto per allungarsi e prendere il paletto, avrebbe potuto colpirla sul collo per stordirla e poi l’avrebbe uccisa. Ancora una volta non ne ebbe il tempo.

La vampira affondò la mano destra fra i capelli di Jake e gli tirò la testa di lato, scoprendo il suo collo, poi vi affondò i canini affilati.
Jake provò a divincolarsi, ma prima che potesse sfuggire alla sua presa, si sentì sprofondare nel buio.
 









 
 
 
 
 
Note:
Dunque.
Sono abbastanza nervosa, non posso credere che la sto pubblicando, dopo così tanto tempo. È quasi un anno che ci lavoro, sia nella mia testa, che su carta, ma mai avrei pensato che l’avrei fatto davvero. Temo che le troppe puntate di Supernatural mi abbiano dato alla testa.
Comunque, ci tengo a dire un paio di cose.
La prima è che non ho davvero idea di dove andrò a finire con tutto ciò, insomma, l’ho progettata praticamente tutta, ma qualunque cosa può succedere.
La seconda è che quello che avete visto in questo prologo non è esattamente tutto. Quello che intendo dire è che andando avanti esplorerò le cose da altri punti di vista, chissà.
La terza è che, nel caso vi interessasse, Jake avrebbe il volto di Grant Gustin, personalmente non piace cercare i presta volto, ma dato che lui ne ha uno…
La quarta è che sicuramente ci saranno scene non esattamente allegre, nulla di eccessivamente esplicito, ma intanto preferisco mettere le mani avanti.
La quinta è che la canzone all’inizio è New Born dei Muse, inoltre il Pine Tree State Arboretum esiste davvero, sembra un posto carino.
Ultima, ma non per importanza, sono aperta a tutti i tipi di opinione, anzi, mi farebbe un grandissimo piacere sapere cosa ne pensate, se vi va.
Detto ciò, tornerò presto, spero.
Addio.
  
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