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Autore: Akemichan    25/01/2015    3 recensioni
"Per gli Alleati e per la Germania, sarà il giorno più lungo." E. Rommel.
Il 6 Giugno 1944 è il giorno che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale, permettendo agli alleati di sbarcare in Francia ed iniziare la controffensiva contro la Germania. Tuttavia, è stato anche il giorno che ha cambiato le sorti di molti soldati presenti, sia i morti e i sopravvissuti.
Come Sabo, nobile francese, che si è ritrovato a fare i conti fra il suo sogno, la sua famiglia e un paese invaso da liberare. Come Ace, che è diviso tra il desiderio di vendicare un fratello e il dovere di proteggere l'altro, senza dimenticare la promessa che ha fatto ad entrambi. E assieme a loro le storie delle persone che amano, dal fratellino Rufy con il sogno di diventare campione olimpico a tutte quelle persone che hanno caratterizzato la loro vita fino a quel fatale 6 Giugno.
Questa è la loro storia, la storia di tutti loro.
1° Classificata al Contest "Just let me cry" indetto da Starhunter
2° Classificata al Contest "AU Contest" indetto da Emmastar
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ace/Marco, Koala, Marco, Monkey D. Rufy, Sabo, Sabo/Koala, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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1940 - Parte II
 
Rouen, 25 Maggio
 
Rouen, anche conosciuta come la città di Giovanna d'Arco, giacché la maggior parte della sua vita si era svolta in quella città, o almeno i fatti salienti: la nascita e la morte. Sabo aveva preso la sua destinazione come un segno del destino.

La prima cosa che aveva fatto era cercare una locanda che potesse in qualche maniera avvalorare la storia che aveva raccontato a Issho sui motivi del suo viaggio. Molti locali era chiusi, ma scoprì un piccolo ostello proprio nelle strette vie dietro la cattedrale, l' “Amazon Lily”, che era gestito da un'anziana signora e le sue tre figlie. Il prezzo non era eccessivo, per cui Sabo sperò che i suoi risparmi bastassero per coprire il tempo fino al suo arruolamento. Il giorno successivo era andato a comunicare il suo indirizzo alla sede temporanea del Quinto Gruppo Motorizzato.

A Rouen lo stato di guerra si sentiva in maniera più incisiva rispetto a Parigi: la maggior parte delle case e dei negozi erano chiusi, con le finestre e le saracinesche serrate. Non passava un giorno in cui non ne veniva chiuso un altro e si poteva vedere la famiglia prendere i propri bagagli e incamminarsi verso sud.

Trovare i generi alimentari stava diventando difficile, perché la maggior parte delle riserve venivano spedite al fronte per l'esercito, quindi si doveva uscire presto al mattino per comprare qualcosa. Era l'unico momento della giornata, assieme all'orario della messa, in cui si poteva vedere un nutrito gruppo di persone per strade, altrimenti Rouen era una città morta.

Sabo era uno di quelli che usciva raramente: aveva esplorato la zona per curiosità solo il primo giorno, fatto qualche fotografia nei luoghi di Giovanna d'Arco e recuperato un paio di libri alla biblioteca dell'università, che era stranamente aperta ma deserta. Il resto del tempo lo passava a leggere nella sua stanza d'albergo o ad aiutare la vecchia Nyon, la proprietaria della locanda, dato che le sue figlie erano state tra quelle che aveva visto emigrare verso sud. Non voleva rischiare di non esserci se fossero arrivate comunicazioni dall'esercito.

Fu lo stesso Issho a presentarsi alla porta dell' “Amazon Lily”. La sua divisione era ferma in città ad attendere ordini sulla loro destinazione successiva, che dipendeva dai movimenti dell'esercito tedesco. Sabo era in camera e scese immediatamente a terra.

«Grazie, zia!» Sabo salutò la vecchia Nyon, per mettere subito in chiaro che c'era un motivo per cui si trovava in un albergo. «Buona giornata, Generale. Ci sono novità?» chiese poi immediatamente.

«Siediti davanti a me» gli disse Issho, che si era accomodato nella piccola hall dell'albergo, tre sedie e un tavolino di vimini in un angolo scuro. Sabo obbedì, titubante. Forse c'erano stati dei problemi, considerando l'esercito tedesco alle porte.

«Sono riuscito a contattare i tuoi parenti» disse Issho, dopo un attimo di silenzio. «Ti farà piacere sapere che sono arrivati in America senza problemi e si sono stabiliti a New York. Ho l'indirizzo.»

Il viso di Sabo non era cambiato di una virgola durante il discorso, anche perché si era morso una guancia per la tensione. Capiva che non c'era possibilità di negare. «Ha contattato i miei genitori» ripeté, in tono neutro. Nessuna emozione, solo una costatazione, anche se Sabo lo riteneva un tradimento.

«Ti manderanno un biglietto per raggiungerli, ma devi tornare a Parigi» proseguì Issho. Se aveva avvertito l'ostilità, non lo diede a vedere. «Ti sarai reso conto che sono molti ad emigrare e le vie di comunicazione non funzionano, ma credo di poter trovare qualcuno che ti accompagni.»

«Ha visto le persone che hanno lasciato Rouen in questo periodo, Generale?» domandò Sabo, senza scomporsi. «Intere famiglie a piedi, o con un carretto, o un'auto scassata in cui entrava a malapena la roba. I bambini con le borse in mano perché gli adulti non riuscivano a tenerle tutti. Come può chiedermi di alzare le spalle e andarmene?»

«Non è qualcosa che dipende da me» rispose Issho. Aveva atteso per dargli una risposta, e la piega che avevano preso le sue labbra gli indicava che la situazione non piaceva nemmeno a lui. «Ero giovane quando sono stato mandato in trincea, e se potessi eviterei questa sorte a chiunque. Tu puoi evitarla.» Sabo stava per protestare ancora, ma Issho alzò il braccio per sbloccarlo. «Puoi aiutare la Francia in maniera diversa. L'America non è pronta ad intervenire e non vuole farlo, ma potremo aver bisogno dei suoi rinforzi. Qualcuno deve andare là e perorare la nostra causa contro il nazismo. Sarai sicuramente più utile in America che qui, quando non sai nemmeno tenere in mano un fucile.»

Faceva male. Naturalmente Sabo sapeva che non era intenzionale, ma il generale non poteva sapere quanto avesse provato ad entrare nell'esercito fin dall'anno precedente e gli era stato impedito con l'inganno. Se adesso si trovava in quella situazione, non era colpa sua. Strinse le labbra.

«Ha ragione» affermò. Si alzò. «Vado a prendere la mia roba.» Quando passò davanti alla vecchia Nyon, le sorrise perché aveva almeno provato a sostenere la sua menzogna. «Il conto, per favore.»

Salì rapidamente in camera: non aveva molto da preparare, solo il secondo cambio, che aveva lavato nel piccolo bagno ed era ancora umido. Spinse tutto dentro lo zaino e lo chiuse. Prese centocinquanta franchi da una delle scarpe e li lasciò sul letto.

La fortuna aveva voluto che la sua camera si affacciasse su uno dei vicoli dietro l'albergo, non davanti, a stretto contatto con i palazzi vicini. Balzò sulla finestra: come al solito, le strade erano deserte. Scese sul cornicione e poi balzò sul terrazzo dell'edificio vicino, e da lì riuscì a spingersi a terra. Poi si allontanò in fretta nella direzione opposta rispetto alla strada principale.

Non sapeva dove andare. A differenza di Parigi, non conosceva nessun rifugio, nessuno a cui chiedere aiuto. Aveva preso talmente tante strade che aveva finito per tornare alla cattedrale. Vi entrò: forse, se fosse riuscito a nascondersi dal prete, avrebbe avuto almeno un tetto sulla testa. Si sedette in una delle panche delle cappelle laterali.

Si sentiva sconfitto, come quando aveva abbandonato il castello in piena notte. Pensava che ormai il peggio fosse passato, che si sarebbe arruolato e avrebbe avuto uno scopo. Invece il risveglio alla realtà era stato peggiore della prima volta: il nome di suo padre avrebbe continuato a perseguitarlo, impedendogli di essere libero.

L'America l'aveva tentato per un attimo: aveva potuto salutare Ace e Rufy solo tramite lettera, sempre che fosse arrivata, e non si erano incontrati nemmeno l'anno precedente per via del rischio di guerra già imminente. Gli mancavano. Però non voleva lasciare la Francia con quel senso di sconfitta, con l'incapacità di aiutare il suo paese.

Si stava quasi appisolando, quando avvertì un colpo secco alla testa e balzò in piedi, lo zaino che cadeva a terra. «La Leica!» esclamò, chinandosi a controllare che non si fosse danneggiata. Poi si voltò a vedere chi l'avesse colpito e sgranò gli occhi: era la vecchia Nyon. «Come mi ha trovato?»
«Pensavo che Dio fosse l'ultima cosa che ti era rimasta, stupido ragazzo.»

Non aveva tutti i torti, probabilmente, ma Sabo ne aveva abbastanza di ramanzine. «Si può sapere cosa c'è di male a voler combattere per il proprio paese?!» sbottò. «Erano stupidi tutti quelli che si sono arruolati alla scorsa guerra e hanno dato la vita per proteggere quello a cui tenevano?! Allora incendiamo tutto e suicidiamoci, se non vale la pena combattere!»

La vecchia Nyon lo aveva interrotto durante il suo sfogo e rimase a guardarlo mentre riprendeva fiato. Poi si voltò e disse: «Torniamo a casa».

Sabo le fissò la schiena, incredulo. Poi afferrò il suo zaino e si affrettò a seguirla. «È una trappola? Il Generale è ancora in albergo?»

«No, se n'è andato» gli rispose lei. «Se vuoi la mia opinione, si aspettava la sua fuga o forse ci sperava.»

«Ah.» Non sapeva cosa rispondere: Issho gli era sembrato piuttosto inflessibile, ma era anche vero che era stato piuttosto permissivo nel lasciarlo salire in camera da solo. Forse sperava di poter evitare di rinunciare ad uno dei suoi uomini per accompagnarlo a Parigi e allo stesso modo non essere responsabile della situazione. «Ma cosa posso fare? Non ho più il contatto con l'esercito.»

«Intanto puoi aiutare me, ho un po' d'artrite e non riesco a fare tutti i lavori da sola, adesso che le ragazze non ci sono» rispose la vecchia Nyon, che camminava al suo fianco.

«Questo lo facevo già» sottolineò Sabo. «Come mai non è emigrata anche lei?» le domandò.

«Sono troppo vecchia, posso anche morire.» Era come se sottolineasse che invece lui avrebbe dovuto far di tutto per rimanere in vita, ma non lo disse.  «Possiamo provare a spedire un'altra lettera all'esercito, non appena il Quinto Gruppo avrà lasciato la città. Sempre che le poste funzionino» aggiunse, dando voce alle paure di Sabo.

Ma non ci avrebbe rinunciato, non finché c'era ancora una possibilità di riuscirci. «Grazie.»
 
Rouen, 9 Giugno
 
Il primo bombardamento arrivò quasi senza preavviso. L'allarme suonò, almeno, ma un attimo dopo il rumore degli aerei lo aveva coperto. Sabo si era affacciato oltre la porta della locanda per capire quello che stava succedendo ed alzò la testa in tempo per vedere un aereo passare sopra di lui. Lo seguì con lo sguardo finché non lo vide sganciare una bomba in lontananza, al di là del fiume. Il suono rimase tremendo nonostante la distanza ed immediatamente il fumo che si alzava dal luogo colpito.

Non aspettò di veder arrivare gli altri aerei, rientrò dentro e afferrò il suo zaino che teneva sempre a portata di mano. La vecchia Nyon gli impedì di prenderla sulle spalle e lo anticipò fuori dalla porta. Rispetto a prima, la strada si era riempita di persone: Rouen era una città svuotata, ma coloro che non avevano le possibilità erano ancora abbastanza numerosi ed ora si sentivano tutti come topi in trappola.

Correvano in maniera scomposta, le madri con i bambini in braccio e i vecchi che si aggrappavano a coloro che gli capitavano a tiro per non cadere e farsi travolgere. Sabo seguiva la corrente verso il rifugio antiaereo, ma la sua mente lavorava meglio delle sue gambe.

Gli aerei erano indubbiamente tedeschi, ma i francesi avevano una contraerea in grado di contrastarli? Non ne aveva idea. Il Quinto Gruppo Motorizzato si era allontanato da tempo da Rouen, lasciando solo un piccolo contingente di sicurezza, per andare a porre le difese più verso est. In linea teorica non c'era alcun motivo di bombardare la città, a meno che, naturalmente, le difese non fossero già cadute e i tedeschi non si stessero spianando la strada.

Non voleva pensarci. Non aveva ancora avuto risposta dall'esercito alla sua lettera, ma se Rouen fosse stata conquistata dai tedeschi non sarebbe mai arrivata. Però in quel momento erano le sue gambe al comando, a dirgli di allontanarsi dalle bombe che cadevano. Non c'era un posto sicuro, gli aerei che volavano sulla loro testa sembravano infiniti e il rumore si avvicinava sempre di più. Ogni volta che una bomba colpiva il terreno sotto di loro tremava, facendo cadere sempre qualcuno e rendendo il movimento della folla sempre più sconnesso.

Il rumore delle bombe che cadevano sembrava essersi fatto più vicino, ma forse era solo un effetto dato dalle orecchie che si abituavano al suono. Quando la bomba colpì l'edificio all'angolo della strada che la folla stava per aggirare, fu chiaro a tutti che non si trattava di un'illusione.

Sabo si sentì inciampare e poi invadere da una folata d'aria calda e polvere che lo scaraventò a terra. Si alzò tossendo, con gli occhi che gli occhi che gli bruciavano. Non riusciva a respirare bene, perché la polvere era ancora alta più di lui e gli impediva di vedere quello che stava succedendo. Si mise un braccio davanti al viso per coprirsi la bocca con una manica della giacca, quindi fece alcuni passi incerti in avanti, sentendo con i piedi che stava toccando altri al suo fianco.

Quando finalmente la polvere si posò a terra, il disastro si mostrò chiaramente davanti ai suoi occhi. La bomba non aveva colpito precisamente l'edificio, ma l'aveva fatto comunque crollare completamente. Alcune persone erano rimaste sotto le macerie e si vedevano braccia o gambe che si muovevano ancora, laddove altre erano invece già ferme e ruotate in posizioni strane. Ma la cosa peggiore era la strada, dove le persone erano state colpite direttamente dalla bomba. Di alcuni non era rimasto molto, ma di altri il corpo era abbastanza integro da poter ammirare la carne spappolata in tutto il suo orrore.

«Ci stanno bombardando» disse Sabo. «Ci stanno bombardando apposta.» Non era una guerra quella, era un massacro.

Anche il resto dei sopravvissuti pareva essersene accorto, perché appena si avvertì il suono dell'aereo che tornava nella loro direzione, ciascuno cercò di fuggire in una direzione diversa, di sicuro non verso il rifugio: li avrebbero uccisi tutti prima che ci fossero arrivati.

Sabo si voltò a cercare la vecchia Nyon, con il terrore di trovarne solo un pezzo sanguinante attaccato al bastone nodoso. Invece era ancora integra, ma pareva avere difficoltà ad alzarsi. Le si avvicinò e stavolta non ebbe proteste quando la prese per le spalle. Non c'era molto tempo per scappare, l'aereo stava già arrivando nella loro direzione. Guardandosi attorno, notò che nel palazzo crollato c'era una piccola apertura, utile per nascondere due persone.

Vi ci si infilò in un attimo: sarebbe stato stupido bombardare un palazzo già crollato, no? Lui e Nyon si sedettero sotto quel pezzo di calcinaccio che poteva cadergli addosso in un attimo e tentarono di puntellarlo con il bastone. Non c'era altro da fare che aspettare che il suono del bombardamento cessasse.

Gli aerei continuavano a sibilare minacciosi sopra la loro testa, le bombe a cadere facendo tremare il loro rifugio improvvisato ogni volta, le urla della gente si facevano sempre più distanti in lontananza. Sabo teneva le mani premute sulla testa per non ascoltare. Non si era mai sentito così inutile in vita sua, ma non sapeva cos'altro fare se non dimenticarsi di non poter far nulla.

Le mani erano così strette che quando ci fu davvero silenzio non era sicuro che fosse vero. Si affacciò con prudenza oltre il calcinaccio, ma il cielo era sgombro. «Vado a controllare» disse allora alla vecchia Nyon, che pareva rassegnata.

«Benvenuto in guerra» commentò solo. Anche se non lo voleva umiliare, fu così che si sentì.

Scese scivolando tra i calcinacci ridotti ormai a ciottoli, fino a ritrovarsi in strada. Non somigliava più ad una strada, con tutti i resti che la costellavano e i crateri che ne avevano distrutto l'acciottolato. Il palazzo di fianco al loro aveva resistito, ma era uno dei pochi perché il resto della strada pareva la bocca di un vecchio sdentato.

Sabo si incamminò verso il centro, anche per verificare se la locanda era ancora in piedi. Cercava di evitare di guardare i cadaveri o i pezzi sparsi, ma era difficile resistere a quella curiosità malsana. Su un lato di una strada, vide una bambina seduta a gambe incrociate davanti ad un cumulo di macerie. Avvicinandosi, notò che stava tenendo un braccio bianco e inerte che emergeva dal palazzo distrutto.

«Mamma» disse lei, accorgendosi di essere osservata.

Lentamente, Sabo mise le mani sopra il calcinaccio più grande e spinse per sollevarlo: il tanfo del sangue lo colpì immediatamente e dovette riabbassare il detrito per il disgusto. «Prendo io tua madre» disse allora. «Tu aspettala là, dove c'è quella signora anziana.» E indicò il rifugio che aveva utilizzato fino a quel momento. «Su» la incoraggiò, perché lei passava lo sguardo tra lui e il braccio inerte, indecisa.

Solo quando si fu allontanata Sabo si fece il segno della croce e poi riprese il cammino. Il fumo che si innalzava il lontananza non gli dava vibrazioni positive, ma prima che potesse raggiungerlo avvertì degli altri rumori che non conosceva. Non sembravano altri aerei, ma per sicurezza si scostò dalla strada principale e si infilò in uno dei vicoli. In lontananza, vide che era un carro armato che si faceva strada tra i detriti. Era della Wehrmacht.

Rouen era caduta, senza più dubbi ormai. Sabo non ritenne prudente avvicinarsi troppo, anche se teoricamente era solo un civile. Raggiunse il centro città nei vicoli più nascosti, che aveva imparato a conoscere durante le settimane di permanenza, ma non dovette avvicinarsi troppo per capire quello che stava succedendo.

I bombardamenti avevano colpito la cattedrale e le fiamme che ne erano derivate aveva iniziato ad invadere il resto del quartiere vecchio e non accennavano ad estinguersi. Vista l'impossibilità a proseguire, Sabo pensò che convenisse tornare indietro ed aspettare che l'incendio fosse spento dagli addetti, sempre che non fosse stata bombardata anche la sede dei pompieri.

Le orecchie percepirono una parlata straniera e decise di seguire quel suono, che gli sembrava mescolato alla lingua francese. Si affacciò oltre il muro di un palazzo semi-crollato e notò due carri armati tedeschi che bloccavano quella parte della strada che andava diritta verso la cattedrale. Oltre loro, il camion dei pompieri che imploravano di poter passare.

«È la cattedrale!» protestavano. «Forse ci sono ancora persone all'interno!»

Non capiva quello che i tedeschi rispondevano, a parte quel ripetuto “verboten, verboten” che suonava pericoloso. Stava per allontanarsi, quando un movimento attirò la sua attenzione: era un soldato francese, le cui gambe erano rimaste bloccate sotto il crollo dell'edificio opposto. Non era davvero cosciente, si limitava a lamentarsi e lo squarcio che aveva sull'addome diede a Sabo l'idea che non ci fosse niente da fare per aiutarlo.

Al suo fianco, il fucile pareva ancora intero. Era un Mas-36, come quello che i soldati del Quinto Gruppo gli avevano mostrato durante il viaggio per Rouen. Istintivamente, Sabo lo afferrò e richiamò alla memoria come si ricaricava: aprì il caricatore e verificò che c'erano ancora due proiettili. Scrutò il corpo del soldato, ma non vide delle munizioni, allora richiuse il caricatore e si mise il fucile sulle spalle.

Si bloccò avvertendo degli spari e, passata la sensazione che fossero rivolti verso di lui, tornò prudentemente ad affacciarsi nella strada principale. Alcuni pompieri avevano tentato di scalare i carri armati e per tutta risposta i tedeschi gli avevano sparato, poi avevano aperto il fuoco contro il camion, crivellandolo di colpi. Gli altri pompieri cercavano di fermarli facendo da scudo umano, venendo colpiti a loro volta.

Sabo non capiva. La città era conquistata, non era necessario impedire che il fuoco venisse spento. Era pura crudeltà. Senza nemmeno rendersene conto aveva il fucile in mano e sparava. Era una cosa futile, perché con due soli colpi non sarebbe certo riuscito a fermare i soldati tedeschi, ma almeno li avrebbe distolti dai pompieri.

Si rese subito conto che la sua mira non era nulla di particolare, dato che nessuno degli uomini sembrava aver accusato il colpo, ma il proiettile doveva essere passato vicino ad un tedesco, perché questi si voltò indietro. Sabo sparò di nuovo e questa volta lo colpì: l'uomo fece una giravolta e poi cadde scompostamente all'indietro, attirando inevitabilmente l'attenzione di tutti gli altri.

Sabo gettò il fucile ormai inutile e si scapicollò quasi inciampando nella via da dove era arrivato, un attimo prima di avvertire la raffica dei colpi che si infransero sul muro ancora integro dietro al quale si era nascosto prima. Sentiva la voce dei tedeschi e la loro marcia dietro di lui e non riusciva a ragionare su che strada prendere. I suoi piedi lo portarono nella zona a lui familiare, finché non si trovò davanti il muro di fuoco che si era sparso a tutto il quartiere.

Fermatosi a prendere un attimo fiato, decise che l'incendio era meglio dei tedeschi. Quando le voci furono troppo vicine, si gettò nella strada e si mise a correre. Gli edifici crollavano mentre correva, spargendo detriti infuocati che lo ostacolavano. Il fumo e il caldo rendevano il suo cammino difficile, eppure non si fermava. Sapeva che era la forza della disperazione e aveva intenzione di sfruttarla tutta.

Non riuscì ad evitare un detrito che lo colpì sulla spalla: Sabo urlò e cadde quasi a terra, ma riuscì a mantenere l'equilibrio. Si levò la giacca prima che prendesse fuoco, ma era troppo tardi per la vistosa scottatura. Tentò di riprendere a correre, ma il dolore gli aveva bloccato le gambe. Al primo ostacolo cadde rovinosamente a terra, con le mani che lo protessero a malapena.

Da sdraiato l'aria era più respirabile, per cui Sabo tentò di strusciare infilando le unghie nel terreno. Il terreno bruciava e il pavimento sconnesso gli sgraffiava il petto nudo. A fermarlo definitivamente fu un altro detrito che gli cadde sulla gamba destra. Non aveva nemmeno la forza di urlare ancora.

Sarebbe morto nel fuoco come Giovanna d'Arco. Nonostante la tragicità della situazione, Sabo sorrise. Era così ironico, dato che non era riuscito a raggiungere nemmeno uno degli obiettivi che si era prefisso, al contrario di quella donna che aveva salvato da sola la Francia. Quasi non si meritava di morire come lei.

Il suo ultimo pensiero fu per Ace e Rufy: avrebbe dovuto impegnarsi di più per scrivere quella lettera. Avrebbe voluto dirgli almeno addio, salutarli per l'ultima volta come si doveva. Non voleva che fosse l'ultimo ricordo che avevano di lui, ma era troppo tardi per pensarci. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa sulle braccia.
 
Rouen, 18 Giugno
 
La luce del sole filtrava dalle assi che bloccavano la finestra dall'interno. Sabo ne seguiva il percorso con gli occhi, dal pavimento fino alla finestra e ritorno. Il dolore delle ferite era andato scemando da quando si era ripreso per la prima volta, ma era il primo momento in cui sentiva che le forze gli stavano tornando. Pensava che non fosse più sotto l'effetto degli antidolorifici.

Per questo si sentiva annoiato: aveva passato gli ultimi giorni in uno stato di semi incoscienza, svegliandosi in preda dei bruciori e addormentandosi altrettanto immediatamente quando le medicine facevano effetto. Forse erano passate settimane, o mesi, non sapeva dirlo. Le cose erano andate migliorando nel corso del tempo, e, finalmente, si sentiva completamente sveglio, con il cervello che funzionava.

Allungò una mano verso il comodino per afferrare il bicchiere d'acqua. La gola aveva smesso di bruciare, ma sentiva ancora la sensazione del fumo che gli entrava dentro  i polmoni e il palato sempre secco. Non aiutava il fatto che non parlasse da giorni. Gli urli per il dolore non avevano aiutato, ma per il resto non c'era davvero molto per cui servisse aprire la bocca. L'unica persona con cui ricordava di essere entrato in contatto era il medico, che parlava esclusivamente russo, con la conseguenza che non riusciva a capire nulla di quello che diceva, frustrando ogni speranza di sapere che cosa stava succedendo.

Ora che il cervello si era rimesso in modo, poteva provare a collegare le poche informazioni che aveva. Era ancora vivo, il che era già di per sé una cosa incredibile. Dalle finestre serrate con il legno poteva forse ritrovarsi ancora a Rouen, ma immaginava che altre città avessero le case ridotte nella stessa maniera. Ciò che lo faceva  propendere per Rouen era il fatto che difficilmente, con la guerra in corso, qualcuno sarebbe riuscito a spostare un malato grave da una città all'altra senza mezzi a disposizione. E se avessero avuto i mezzi, sarebbe stato in un ospedale, non in una stanza di un appartamento.

Per il resto, però, non aveva alcuna idea. Non sapeva come, perché e da chi fosse stato salvato, né  cosa ci facesse un medico russo in quella situazione, uno che tra l'altro non poteva dargli alcuna informazione e che cucinava solo rape. In vari modi, ma sempre rape.

Rimise il bicchiere sul comodino e per un attimo rischiò di cadergli. Non era facile vedere la profondità con l'occhio sinistro completamente coperto. Si chiese se l'aveva definitivamente perso o se l'avrebbe recuperato la vista una volta liberatosi della fasciatura.

Sapeva che c'era uno specchio all'interno dell'armadio a muro, l'aveva visto una volta. O forse se l'era sognato mentre stava delirando, ma valeva un tentativo. Spingendosi con le mani si mise seduto: i muscoli protestarono contemporaneamente, ma non era nulla di paragonabile al dolore che aveva già provato.

Scostò le coperte e mise i piedi a terra. Non era sicuro che le gambe gli reggessero, quindi restò aggrappato al bordo del letto. Si sentiva debole, ma dopo qualche passo incerto acquistò abbastanza confidenza da essere sicuro che non sarebbe caduto. Rimase comunque aggrappato finché poté e poi spostò la sedia per usarla come trampolino per raggiungere l'armadio.

Lo specchio c'era. Raggiunse le estremità della benda che gli fasciava la testa ed iniziò a srotolarla. Pian piano che cadeva a terra, rivelava l'orrore al di sotto. La pelle era completamente scottata, addirittura scavata con i bordi ancora rossi e le vesciche piene. Con apprensione, rimosse la benda. La palpebra era chiusa e ridotta come il resto della pelle che la circondava, ma muovendola appena la luce entrò nella pupilla, quasi accecandolo dopo quell'oscurità forzata.

Quel semplice movimento lo stancò e una delle vesciche si aprì, quindi la richiuse di scatto e recuperò una benda da terra per premersela contro.
«Era una brutta ferita e ti resterà la cicatrice, ma non hai perso l'occhio. C'è da festeggiare.»

Sabo si voltò di scatto, troppo di scatto perché i suoi muscoli non protestassero. Non aveva minimamente sentito, nel silenzio della stanza, quell'uomo entrare. Eppure era spesso in grado di capire quando qualcuno saliva le scale per raggiungerlo, mentre in quel caso non aveva nemmeno avvertito la porta che si apriva e si chiudeva. Ma era così felice di sentir qualcuno parlare francese che lo stupore fu presto superato.

Fece un passo verso di lui, rischiando di inciampare, per cui l'uomo si avvicinò per sorreggerlo e riportarlo verso il letto. Una volta che fu di nuovo dove i muscoli non lo odiavano, Sabo diede voce a tutte le domande che aveva formulato fino a quel momento.

L'uomo non sembrò impressionato e mantenne la sua stessa espressione indifferente. «Puoi chiamarmi Dragon» disse alla fine. «Come ti ho salvato non è importante, in quanto al perché, non credo sia necessario spiegare perché un essere umano senta la necessità di aiutarne un altro. Nel tuo caso, però, ho apprezzato quello che hai cercato di fare per i pompieri.»

«Davvero?» Sabo emise una risatina. «Perché a ripensarci mi sembra solo stupido.»

«Oh, stupido lo era davvero» confermò Dragon.  «E anche la tua mira potrebbe essere migliorata. Il potenziale c'è, però.»

Era una sorta di complimento, per cui Sabo sorrise. Forse era la prima volta da quando era iniziata tutta quella storia che sentiva di aver ottenuto davvero qualcosa. «Ma perché non volevano spegnere l'incendio? Avevano vinto.» Quella scena continuava a tormentarlo, assieme al pensiero degli aerei che bombardavano la folla.

«La guerra tira sempre fuori il peggio e il meglio dalle persone» rispose Dragon. Era come se nulla potesse impressionarlo. «In quel caso, presumo fosse il peggio. La propaganda tedesca è fortemente anti francese e questo si manifesta sul campo.»

Rimasero in silenzio ancora per un attimo, poi Sabo fece la domanda che lo terrorizzava maggiormente. «Cos'è successo dopo?»

«Versione breve: i tedeschi sono arrivati a Parigi e la Francia ha chiesto l'armistizio. Verrà divisa in due parti, una sotto il controllo diretto della Germania  e l'altra libera, almeno nominalmente.»

«Quindi abbiamo perso.»

«Non credo abbiate mai iniziato a giocare» affermò Dragon. Avrebbe anche potuto elencare tutti gli errori commessi dalle autorità francesi, ma in fondo erano simili al comportamento di Sabo, troppo sicuro di sé, con la guerra presa sottogamba.

«E il Generale Issho?» L'aveva tradito, ma era comunque l'unica linea di difesa prima di Rouen, e aveva cercato di aiutarlo.

«Se è stato fortunato, è prigioniero.» C'era solo amara considerazione nella voce di Dragon. Difficilmente avrebbe potuto sapere della vecchia Nyon o della bambina che aveva perso la madre sotto il bombardamento, per cui Sabo evitò la domanda.

Il dottore entrò nella stanza con il vassoio del cibo. «Fatemi indovinare: ancora rape?» commentò con un sospiro. Forse era un sorriso quello comparso sul viso di Dragon, ma com'era arrivato scomparve.

«Finché non verrà firmato l'armistizio, difficilmente arriveranno altre provviste.»

«No, va bene. Grazie.» Non voleva dare l'idea di quello che si lamentava, ma doveva ammettere che la carne gli mancava. Nonostante non sopportasse suo padre, era abituato alla vita che conduceva. E si sentiva in  colpa ogni volta che si rendeva conto che la comodità gli mancava.

Prima  di poter mangiare dovette aspettare che il dottore gli risistemasse la benda sul viso, tra le sue lamentele. O almeno immaginava che fossero lamentele, perché erano in russo.

«Puoi tornare su e portare con te la radio, Ivankov?» domandò Dragon, una volta che la benda fu di nuovo al suo posto. «Credo che ci sia una cosa che dobbiamo tutti sentire. Anche Inazuma.»

«Certamente» annuì Ivankov. «Deduco che hai ricevuto qualche comunicazione di cui non mi dirai. Cattivo!»

Sabo aveva alzato il cucchiaio per la sua prima boccata di passato di rape, ma rimase col braccio a mezz'aria e gli occhi sgranati. «Parli francese?!» L'accento russo era ancora forte, così come la erre moscia che gli conferiva una parlata strana, ma la grammatica era perfetta.

«Tesoro, come avrei potuto vivere in questo paese senza sapere il francese? Pensate sia la migliore lingua del mondo!»

«Mi ha fatto credere per tutto questo tempo che non capiva nulla di quello che dicevo!» esclamò in direzione di Dragon, una volta che il dottore ebbe lasciato la stanza.

«Se l'hai insultato, non è il tipo da prendersela» commentò semplicemente Dragon, per nulla impressionato dalla cosa. Conosceva Ivankov da abbastanza tempo per sapere che si divertiva anche con queste piccole cose. «Ma è il dottore migliore che conosco, e ti rimetterà in sesto.»

«Chi siete voi, esattamente?» domandò allora Sabo, scrutando l'uomo davanti a lui. Era riuscito a salvarlo da quel mare di fiamme, il che era già impressionante in sé, ma aveva al seguito un medico capace di curarlo e soprattutto i medicinali, che sicuramente erano limitati in tempo di guerra. «Siete delle specie di spie? Tu sei americano, no?»

Per la prima volta dal loro incontro, Dragon fu sorpreso. Anche questa espressione durò un attimo, ma era comparsa. «Come lo sai?»

«L'accento.»

«Io non ho accenti.» Era confidente nei suoi mezzi, ma aveva ragione, il suo francese era senza imperfezioni.

«Ma la cadenza nel pronunciare le frasi è la stessa di alcuni americani che conosco» ribatté Sabo, con un sorriso soddisfatto. Era familiare e decisamente nostalgico, sentirlo parlare francese come faceva Ace; Rufy, al contrario, non aveva mai imparato come si doveva.

«Potenziale, come ho detto.» Dragon non aggiunse altro, e non rispose alla domanda su chi fosse in realtà, per cui Sabo non chiese e si dedicò a terminare il suo piatto. Se anche fosse stato una spia, avrebbe avuto tutte le ragioni a non dirglielo. Quale sarebbe stato il punto, altrimenti?

Ivankov entrò in camera con la pensante radio in braccio, aiutato da un altro uomo. I due parlavano in russo, per cui Sabo scoccò loro un'occhiataccia ma fece finta di nulla. Quando Dragon accese la radio, tuttavia, sobbalzò per la sorpresa: era una stazione inglese, e fu subito chiaro che era Radio Londra. Ripensandoci, però, era quasi ovvio: se la Francia era stata conquistata, l'unico sistema per conoscere la verità di quello che stava succedendo era rivolgersi a paesi ancora liberi.

«Non sarà mica illegale?» chiese, quasi a se stesso, mentre rifletteva sulla situazione.

«Non ancora.»

«Sono proprio curioso di sapere che sorpresa hai preparato per noi» commentò Ivankov nel suo strano accento.

Non dovettero attendere molto: il programma di musica venne prontamente interrotto per un messaggio straordinario riguardante la guerra. Il generale De Gaulle aveva infatti un discorso da fare alla sua nazione. Probabilmente era per quello che Dragon aveva commentato “non ancora”: quando i tedeschi l'avrebbero sentito, non sarebbero stati felici. Nella stanza regnava il silenzio mentre il generale parlava, prima in francese, e poi in inglese. Sabo aveva chiuso gli occhi e ascoltava attentamente.
 
“Io, generale de Gaulle, attualmente a Londra, invito gli ufficiali ed i soldati francesi che si trovano in territorio britannico o che vi si troveranno in futuro, con le loro armi o anche disarmati, io invito gli ingegneri e gli specialisti delle industrie d'armamenti che si trovano in territorio britannico, o che vi si troveranno in futuro, a mettersi in rapporto con me.
Qualunque cosa accada, la fiamma della Resistenza francese non si dovrà spegnere e non si spegnerà.”

Dragon spense la radio subito dopo, ma non disse nulla. Ivankov, al contrario, sembrava divertito e applaudì. «Molto bello, davvero! Complimenti! Che ne pensi, Inazuma?»

«De Gaulle ha appena scavalcato il governo ufficiale» rispose l'uomo che l'aveva accompagnato. Aveva il suo stesso accento, ma parlava in maniera più delicata. «Sarà guerra anche tra le due France.»

«Già, ma era inevitabile» commentò Dragon. «In ogni caso, lo sapevamo già, quindi non cambia nulla per noi.»

«E i soldati in Francia?» domandò improvvisamente Sabo. Non aveva quasi sentito i discorsi oltre a quello di De Gaulle. Mentre lo sentiva parlare, aveva capito che non si era ancora arreso, ma come prima non aveva un obiettivo, né le capacità di farlo. Persino De Gaulle aveva nominato solo i soldati in Inghilterra, non i giovani che erano ancora in Francia.

«Tesoruccio, cosa credi sarebbe successo se De Gaulle avesse incitato alla rivoluzione direttamente gli uomini qui? Con i tedeschi che la occupano?»

«Be', non sarebbero contenti, immagino...» Già alle sue orecchie il discorso incitava abbastanza alla rivolta. No, Radio Londra non sarebbe stata legale ancora per molto.

«Oh, è intelligente, il cucciolo.»

Sabo si sentì punto sul vivo, per cui trattenne la domanda che aveva sulla punta della lingua. L'aveva detto come una sfida, e aveva intenzione di accettarla. Fissò i tre uomini davanti a lui. «Siete voi qui a dare ordini al posto di De Gaulle» dedusse. Forse l'espressione era un po' troppo sorpresa dalla sua stessa rivelazione.

«Sì, è intelligente» confermò Dragon, il sorriso acceso e spento subito. Ormai Sabo ci aveva fatto l'abitudine a quelle espressioni flash. «La resistenza funzionerà meglio se ci sarà un centro comune che coordinerà le azioni. Noi siamo la France Libre, Francia Libera, facciamo riferimento direttamente al Generale De Gaulle.»

«Allora, tesoro, vuoi unirti a noi?» domandò Ivankov, occhieggiando nella sua direzione.
   
 
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