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Autore: LadyBlueSky    25/01/2015    6 recensioni
Black Star!
Un nome. Un locale. Un modo di concepire la musica e la moda. Il punto di ritrovo della movida della Tokio per bene. Un luogo dove ciò che cercavi lo trovavi; chiunque ci andasse era sempre alla ricerca di qualcosa: dall’erba alle droghe più pesanti e costose, dalla compagnia di una notte alla storia più romantica di quella di Cenerentola, dalla semplice fuga dalla monotonia alla ricerca di qualcuno da amare e che amasse a sua volta.
Il Black Star poteva sembrare il centro del mondo.
Era veramente un mondo a parte; una “stella nera” in un oceano di luce a volte troppo soffocante.
[AVVISO: per un mio errore la storia è stata cancellata così ho provveduto a inserirla nuovamente, con l'aggiunta di un nuovo capitolo!]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Nuovo Personaggio, Pegasus Seiya, Saori Kido, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Eccomi qua! Sono tornata J

Lo so: sono praticamente scomparsa! Perdonatemi, ma l’università ha deciso di rapirmi…

Però, per farmi perdonare, ecco un capitolo decisamente più lungo degli altri. Ben 16 pagine di word! Sì, ho preso paura anch’io quando me ne sono accorta. E in più l’arrivo nuovi personaggi (qualcuno decisamente bastardo xD)…

Sono stata parecchio in dubbio sul tagliare il capitolo oppure lasciarlo così. Alla fine ho propeso per la seconda ipotesi, perché altrimenti alcuni fatti che qui leggerete si sarebbero sovrapposti ad altri, andando a creare un qualcosa d’ingarbugliato da cui avrei rischiato di non uscire nemmeno io.

Buona lettura.

LadyBlueSky

 

 

 

 

11. Quando il passato si prende gioco di te.

 

Mi stiracchiai sollevando le braccia da sotto le coperte e un brivido mi scosse: iniziava a fare davvero freddo! Ma in fondo eravamo quasi a fine ottobre, e per quanto la temperatura fosse realmente di qualche grado sotto la norma non potevo aspettarmi in ogni caso niente di diverso.

Sgusciai fuori dal tepore del mio letto non del tutto convinta, e i sibili che provenivano dalla finestra mi fecero capire che quel giorno il vento soffiava forte.

Non ero mai stata un’amante del freddo, e in particolar modo del vento. Preferivo i climi temperati, come quelli della Spagna o dell’Italia. Ma non per questo disdegnavo una bella sciata in montagna. Sempre a patto che non ci fosse vento. In quel caso me ne restavo chiusa al calduccio dentro un rifugio, magari a mangiare qualche dolce o a bere una deliziosa cioccolata calda.

In ogni caso, in barba al vento, quel giorno dovevo uscire comunque. C’era la scuola, da portare Anna all’asilo, il club di tiro con l’arco – m’interessava soprattutto sapere dove ci saremmo esercitati viste le raffiche – e chissà cos’altro che al momento mi sfuggiva. Una normale giornata, per così dire.

Far alzare mi figlia quel giorno si era rivelato più facile del solito visto che, non appena avevo detto la parola vento, lei era saltata giù dal letto e aveva raggiunto la finestra con la stessa velocità con cui Superman era capace di volare. Anna adorava il vento. Le piaceva, mentre camminava con me, piroettare tra i mulinelli di foglie secche che andavano a crearsi; oppure si faceva sospingere pian piano dalle raffiche, rischiando sempre di cadere dato ch’era magra come un fuscello quella bambina. E dire che mangiava quasi più di me! E anch’io, quando mi ci mettevo, ero una buona forchetta.

 

Arrivai a scuola in perfetto orario dopo aver lasciato Anna all’asilo e aver ricordato a Mylock che quel giorno avrebbe dovuto andare lui a prenderla perché io avevo le attività del club.

Mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano. Il normale cicaleccio che ogni giorno animava l’edificio era decisamente più rumoroso; senza mettere in conto i gridolini eccitati delle ragazze e le risate sguainate dei ragazzi. Cosa stava succedendo?

“ Buongiorno Isabel!” Trillò June travolgendomi con uno dei suoi abbracci che rischiavano ogni volta di farmi collassare un polmone. “ Hai visto che bello? Sono tutti in fermento. E anche io lo sono. Insomma. È una delle cose belle di questo periodo. Non vedo l’ora. Tu non sei eccitata?”

Ci misi un attimo a riprendermi da quel fiume di parole, che tra le altre cose la ragazza aveva pronunciato senza nemmeno prendere fiato. Ci misi, per precisare, il tempo esatto che serviva agli altri per raggiungerci.

“ Mi sono persa qualcosa?” Domandai dopo un lungo respiro. June mi guardò curiosa; gli altri erano palesemente divertiti.

“ Scusa?”

“ Sono per caso finita in un mondo parallelo?” Domandai di nuovo.

“ No, semplicemente June ha parlato senza spiegare nulla.” Disse all’improvviso Seiya, scoppiando a ridere prima di beccarsi un pugno dalla bionda, che un attimo dopo mise su un broncio che assomigliava tremendamente a quello che faceva Anna quando la sgridavo.

“ Tra pochi giorni sarà Halloween, Isabel.” Iniziò a spiegarmi Shun, anima pia di quel gruppo di scalmanati. “ Ed è tradizione del nostro istituto che si organizzi una grande festa, con tutte le classi del comprensorio.”

“ Con tutte le classi intendi dire che partecipano anche l’istituto medio, quello elementare e la materna?” Domandai curiosa, cercando al contempo di capire come fosse possibile.

“ Esattamente. Anche se va ammesso che gli unici che veramente fanno festa siamo noi, e alcune volte quelli delle medie.” Precisò Daisy, rimasta in disparte fino a quel momento.

“ E in cosa consisterebbe?” Chiesi ancora. Purtroppo per me in quel momento suonò la campanella ed entrò il professore. Il tutto si rimandava ad ora di pranzo.

 

“ Una prova di coraggio?” Domandai perplessa e confusa.

L’ora di pranzo, dopo una mattinata che di soporifero aveva avuto tutto, finalmente era arrivata. E visto che il vento si era un po’ calmato avevamo deciso di goderci il tiepido sole di ottobre che faceva capolino dalle nuvole, mangiando così in giardino. E tra un boccone e l’altro i ragazzi mi avevano raccontato cosa fosse questa fantomatica festa di Halloween che da quella mattina era sulla bocca di tutti.

“ Sì. In poche parole ogni istituto organizza una prova di coraggio per gli studenti, con la collaborazione di tutti. I bambini delle elementari la organizzano per quelli della materna; quelli delle medie per quelli delle elementari; e noi per quelli delle medie. Ogni classe di un istituto si prende la responsabilità di una classe dell’istituto inferiore e poi si gioca. Delle 21.00 in poi, a blocchi orari diversi così che i bambini della materna siano i primi a finire e i primi ad andare a dormire.” Mi spiegò Daisy, arricchendo il discorso di gesti. Gli altri ascoltavano ridacchiando, probabilmente memori degli Halloween passati.

Era una bella iniziativa, pensai in quel momento. Portava i ragazzi a collaborare tra di loro, e a interagire con i più piccoli. Cancellava, almeno per una notte, la differenza d’età.

“ E a noi chi prepara la prova di coraggio?” Chiesi addentando una mela, curiosa.

“ I professori. Con l’aiuto di qualche ex alunno.” Disse Seiya divertito. Riconobbi immediatamente quel suo ridacchiare.

“ Fammi indovinare: Ikki, Hyoga e Shiryu sono tra gli ex studenti.”

“ Ikki è presente da due anni. L’anno scorso ci ha fatti ammattire. Shiryu e Hyoga hanno promesso che quest’anno non si lasceranno sfuggire l’occasione. Anche Esmeralda ha detto che vuole partecipare. E a dar man forte c’è sempre mia sorella.” Ammise il castano, iniziando a sfregarsi le mani.

“ Perché fa così?” Domandai a Daisy. “ Se ho ben capito saranno gli altri ad organizzare la prova per noi, non noi a loro.”

“ Seiya è in vena di vendette. L’anno scorso Ikki ci ha giocato un tiro mancino, e Seiya ha promesso che gliel’avrebbe fatta pagare.” Disse la ragazza scuotendo la testa. Probabilmente prevedeva già guai.

Anch’io avrei dovuto farlo, sebbene per motivi diversi. Avrei dovuto sentire quella stretta allo stomaco, che mi prendeva sempre quando sentivo che c’era qualcosa che non andava; ormai si trattava quasi di un automatismo, come se a forza di finire in guai più o meno seri il mio sesto senso si allertasse da solo.

Ma quella mattina ero troppo intenta ad ascoltare i racconti degli Halloween passati per poter far caso ad altre cose. Ero troppo concentrata sulla festa che si sarebbe tenuta di lì a pochi giorni. Troppo persa nei ricordi di come, anni prima, festeggiavo quella che in realtà non era una nostra tradizione, ma che era diventata parte integrante della nostra cultura. Più per un fatto commerciale che per altro. C’era davvero poco di genuino, se non la voglia di divertirsi indossando abiti tratti da personaggi dell’orrore, cupi e affascinanti come il mondo dal quale prendevano vita. Un mondo che affascinava e creava terrore. Un mondo nel quale mi immergevo ormai solo grazie ad Anna, che si divertita a fare ‘Dolcetto o Scherzetto’ accompagnata da me. Un mondo che tuttavia mi aveva da sempre attirata.

 

Non appena misi il piede dentro casa Anna mi saltò in braccio, tutta eccitata, iniziando a parlare a raffica. Della festa di Halloween. A quanto pareva la maestra aveva informato i bambini della prova di coraggio, e mia figlia sembrava gradire l’idea.

“ Ci sarai anche tu, mamma?” Mi chiede ad un certo punto, guardandomi implorante.

“ Certo che sì. Sai, anche a noi organizzano la prova di coraggio.” Le spiegai prima di darle un bacio e appoggiarla a terra. “ Forza. Ora fila a finire i tuoi disegni che tra un po’ si cena.”

Guardai mia figlia trotterellare via e solo dopo mi accorsi di Mylock, intento a fissarmi serio. Era ritto in piedi, rigido come una statua di marmo. La cosa non mi piaceva affatto. Che avesse qualcosa contro la partecipazione mia e di Anna alla festa di Halloween?

“ Cosa c’è?” Gli domandai dopo un attimo, sconfitta. sapevo perfettamente che se non avessi iniziato io il discorso, lui sarebbe rimasto in quella posizione ancora a lungo. E questo, a rigor di logica, significata che qualunque fosse la notizia che l’uomo stava per darmi non era piacevole.

“ Stamani è arrivata questa, Milady.” Mi disse dopo un attimo porgendomi una busta. La presi insicura.

Era bianca, chiusa da un sigillo in cera lacca. Il mio cuore perse un battito. No! Non di nuovo! Perché? Perché non mi lasciavano in pace? Cosa volevano ora da me?

“ Proviene dalla famiglia Solo.” Borbottò Mylock, non troppo entusiasta.

Lo sapevo perfettamente: il sigillo impresso era inconfondibile. E questo riuscì ad agitarmi ancora di più. Per questo esitati per un momento, prima di decidermi e lacerare la busta con le unghie. Non era impazienza la mia. Era rabbia.

 

“ All’attenzione dell’illustre Contessa Isabel Kido.

 

Sono lieto d’invitarla al Ballo che si terrà in onore dei

miei 20 anni, il giorno 27 ottobre, a Villa Solo.

Mi auspico la sua partecipazione.

Cordialmente,

Julian Solo”

 

Tutto l’invito era stato scritto con una calligrafia, eccetto il nome del mittente, chiaro segno che Julian aveva firmato a mano, figlio dopo foglio. Quanta pomposità! Come se la carta pregiata, in color avorio, e la chiara presenza di una stilografica di un certo livello a scrivere quelle parole non fossero già abbastanza. Ma con Julian Solo era così: lui ostentava, sempre e comunque. Come tutti in quel mondo.

Rimasi a fissare il biglietto per un tempo incalcolabile, stringendolo sempre di più tra le dita. La rabbia, dentro di me, stava montando sempre più ferocemente. Prendere quel pezzo di carta e farlo a pezzetti tanto piccoli da rendere impossibile un loro rimodellamento sarebbe stato estremamente appagante in quel momento.

“ Milady.” Il richiamo secco di Mylock, improvvisamente, mi riportò alla realtà. “ Dovrebbe andarci.” Disse a bassa voce, quasi stesse azzardando un consiglio non richiesto. E questo m’incuriosì.

“ E perché dovrei?” Domandai dura, fissandolo dritto negli occhi. Cosa mi stava nascondendo? Cosa non mi voleva rivelare?

“ Sarebbe giusto che lei presenziasse, in qualità di Contessa Kido. È un suo obbligo visto il ruolo che lei ricopre all’interno del…”

“ Mylock! La verità!” Chiosai secca, bloccandolo. Stava sproloquiando a vuoto, e questo accentuava il fatto che c’era qualcosa che non voleva dirmi. E la cosa mi stava facendo imbestialire.

L’uomo davanti a me mi fissò intensamente, preoccupato e indeciso. Poi sospirò.

“ Non è un mio diritto, Milady. Non posso dirle io, la verità. Ma ritengo giusto sia lo stesso Julian Solo a raccontargliela. La prego. Presenzi a quel ballo.” Mi supplicò alla fine, gli occhi lucidi.

Ufficialmente: c’era qualcosa di grosso in quella storia.

“ E va bene. Così sia. Andrò a questo cavolo di ballo.” Cedetti alla fine, più per curiosità che per altro. Mylock sospirò, sollevato. “ Ma sappi che non mi prendo la responsabilità delle mie azioni. Quindi regolati di conseguenza.” Aggiunsi superandolo, lanciandogli un sassolino che lui solo avrebbe potuto raccogliere.

Anche se non si parlava proprio apertamente, con Mylock c’era ormai la certezza che lui avrebbe ascoltato i miei silenzi, e scavato nelle mie parole. E se un tempo l’uomo si sarebbe comportato da impeccabile maggiordomo, sempre pronto a servire e riverire, ora invece di quell’ossequiosità era rimasto ben poco, se non granelli difficili da cancellare perché troppo radicati. Ero diventata quasi una figlia, per lui. L’affetto che nutriva per me e per Anna era qualcosa di immenso. E per quell’affetto, e per l’appoggio che continuava a darmi anche se a modo suo, non potei che ringraziarlo silenziosamente.

 

Mi guardai allo specchio e questo mi rimandò un’immagine spezzata.

Avevo una faccia orrenda. Gli occhi erano circondati da pesanti occhiaie blu e la pelle era pallida, più del solito. Chiunque avrebbe intuito che quella notte non avevo chiuso occhio.

Per una volta il motivo non erano stati gli incubi, o la stretta allo stomaco che mi procuravano i ricordi. No, era stata la rabbia a togliermi il sonno. Quella viscerale, dirompente e tuttavia sottile rabbia; quella che non sfociava nella furia, ma rimaneva in bilico, sospesa, facendoti sempre credere che l’esplosione fosse vicina, ma non facendola mai arrivare. Era stancante. Era deleterio. Era snervante. La rabbia non mi offuscava la vista, portandomi ad azioni che altrimenti non avrei mai compiuto. Quello lo faceva la furia. La rabbia mi lasciava la coscienza di me stessa, facendomi ragionare invece che sragionare. La rabbia era utile, così come la paura. Fino a quando queste emozioni non sfuggivano al controllo si rivelavano spesso e volentieri piuttosto versatili nel loro uso. Ma tenerle sotto controllo era difficile, decisamente sfiancante. Anche per questo, quella mattina, avevo lo stesso incarnato di uno zombie.

 

La porta di aprì di colpo proiettando dentro il bagno le ombre allungate di June e Daisy.

Erano ferme, una con le mani sui fianchi e l’altra decisamente più composta, e mi fissavano serie.

“ Che c’è?” Chiesi loro prima di sciacquarmi ancora una volta la faccia con l’acqua fredda. Avevo sperato nel suo potere rivitalizzante, ma non sentivo alcun effetto positivo. La stanchezza non accennava a lasciarmi.

“ Stai bene?” Mi chiese June, mani sui fianchi e cipiglio severo. Quasi assomigliava a me quando sgridavo Anna. Ridacchiai a questo pensiero.

“ Sto bene. Semplicemente non ho chiuso occhio, stanotte.” Dissi reprimendo uno sbadiglio, prima di bagnarmi anche i polsi e il collo con l’acqua. Inutile comunque.

“ Sicura? Hai una faccia.” Disse Daisy, mimando poi quella che a logica era la mia espressione quel giorno. Peccato, non le riusciva molto bene.

“ Con quella faccia sembro un’indemoniata, non una che non ha dormito.” Risi osservando il suo volto, seguita a ruota da June che non poté esimersi dopo aver visto la performance dell’amica. Daisy sbuffò infastidita e incrociò le braccia al seno con stizza, cosa che ci fece ridere ancora di più. “ Sinceramente, ragazze. Sto bene. Sono solo stanca.” Dissi poi, quando finalmente riuscii a riprendermi dalle risa.

“ Ma dormire la notte no, eh?” MI chiese June divertita ed esasperata, scuotendo la testa.

“ In verità a me piacerebbe dormire, la notte. Ma la cosa risulta difficile quando la gente è capace di farmi arrabbiare fino a togliermi il sonno.” Sbuffai, prendendo un pezzo di carta e asciugandomi il viso ancora bagnato. Un moto di stizza mi colse immediatamente nel ripensare alla lettera di Julian, e mi trovai a sfregarmi il volto con forse troppa forza.

“ Uh?” Fecero le due bionde in contemporanea, quasi spaventate all’idea di aver fatto loro qualcosa di sbagliato. Chissà poi perché l’avevano pensato?

“ Tranquille. Non ce l’ho con voi.” Le rassicurai sospirando e appoggiandomi al lavandino con la schiena.

“ E con chi, allora?” Domandò Daisy, la voce addolcita. A volte, quando faceva così, assomigliava molto ad una mamma. Il suo volto si scioglieva in un’espressione delicata, quasi materna. Chissà se anch’io aveva la medesima espressione quando guardavo Anna.

“ Storia lunga.” Borbottai a mezza voce, senza troppa voglia di parlarne.

“ Tanto ormai la lezione è iniziata. Se entriamo adesso la prof ci squarta. E io preferirei vivere ancora a lungo.” Disse June sorridendo, dopo una rapida occhiata all’orologio.

Immediatamente guardai anch’io il mio, curiosa di sapere se aveva ragione. Ed era proprio così. La campanella aveva suonato già una decina di minuti prima, e io non me n’era neanche accorta.

Mi trovai a sospirare nuovamente, prima di guardare gli occhi imploranti delle altre due.

Iniziare a fidarsi, Isabel…

Chissà perché mi risuonarono nella mente di nuovo quelle parole. A quanto pareva il mini dibattito con annessa ramanzina di Death a qualcosa era servito, dato che mi rimbombava nella testa senza darmi tregua. Maledizione a lui.

“ Stasera devo andare ad un ballo.” Dissi semplicemente.

“ E allora? I balli sono divertenti. Ed eleganti. E…”

“ Si tratta di un ballo dell’alta società. Per i vent’anni del figlio del magnate Solo, Julian.” Specificai, interrompendo il fiume di parole di June. La sua faccia e quella di Daisy si aprirono in un’espressione di sconcerto quasi comica.

“ E come mai sei stata invitata anche tu?”

“ Oh. Non dirmelo. Tu sei quella Isabel Kido? La nipote di Mitsumasa Kido, l’uomo più ricco del Giappone?” Domandò di scatto Daisy, rispondendo alla domanda della sua bionda amica che, a quelle parole, mi fissò stupefatta, scuotendo la testa.

“ Già. Pesavi ad un caso di omonimia?” Le chiesi dopo aver annuito. Immaginavo dall’inizio che fosse così. Anche perché era difficile credere che qualcuno così in vista frequentasse una semplice scuola pubblica.

“ Sì.”

“ Sei davvero la Duchessina Isabel Kido?”

“ Sì, June. Sono io.”

Calò improvvisamente il silenzio nel bagno. Le due ragazze davanti a me mi guardavano sorprese come mai le avevo viste. Chissà cosa stavano pensando in quel momento. Io, dal canto mio, iniziavo a chiedermi se fosse stata un’idea intelligente dir loro la verità. La loro reazione non mi sembrava propriamente buona. Se non altro non era stata neanche terribile. Era a metà tra le due.

“ Non capisco.” Sbottò June ad un certo punto. La guardai senza capire. “ Avevo sentito dire che tutti i figli degli uomini di politica frequentavano l’Istituto Privato Sanctuary, il più prestigioso della città. Perché tu studi qui?”

“ Ho frequentato anch’io quell’Istituto. Fino ad un anno fa.” Spiegai dopo un attimo di silenzio che mi parve durare un’eternità.

In quel momento avrei voluto guardarmi allo specchio. E al contempo ne avevo paura. Volevo e non volevo vedere la mia espressione, la sfumatura che avevano preso i miei occhi. Riuscivo ad ammettere a me stessa senza problemi che quella scuola, per alcuni versi, mi mancava; non tanto l’edificio quanto alcune delle persone con cui avevo condiviso buona parte della mia vita scolastica e non. E tuttavia proprio questa mancanza mi dava fastidio. Perché erano state proprio quelle persone che avevo chiamato ‘amici’ a spingermi alla decisione di cambiare scuola, a parlarmi alle spalle e a disprezzarmi. E tutto questo solo per la presenza di Anna.

“ Perché te ne sei andata?” Mi chiese Daisy, rompendo il silenzio che io stessa avevo fatto cadere. Mi trovai a sollevare lo sguardo all’improvviso, sentendo il tono di voce con cui aveva posto la domanda. Non c’era scherno, curiosità, divertimento o la qualsivoglia intenzione di entrare a forza nei miei pensieri. Era una semplice domanda. Genuina. Tuttavia non fui io a rispondere.

“ È stato per Anna, vero? È stato per la bambina.” Mi anticipò June, guardandomi dritta negli occhi.

Già, proprio così. Era stato per Anna. Come tutto quello che avevo fatto negli ultimi quattro anni. Era stato per quella bambina dagli occhi verdi, innocenti, che avevo spezzato i legami che mi ancoravano all’alta società; era stato per lei che avevo cambiato scuola, districandomi dai fili che mi stringevano quasi soffocandomi alla vita di persone che ormai mi disprezzavano.

Annuii piano.

E poi fu silenzio. Di nuovo. Nessuna di noi parlò più, probabilmente tutte e tre perse nei nostri pensieri che, per qualche ragione, ero certa convergessero in un’unica direzione.

Mi ritrovai a stringere i pugni, inghiottendo a forza e facendo violenza su me stessa per non ripensare a quei giorni. Ingoiai il dolore. No, non dovevo permettere che mi prendesse. Sapevo che non sarei riuscita a controllarlo. Troppi ricordi riuscivano ancora a farsi strada nella mia mente, ed era devastante sapere che erano pregni di felicità e innocenza. Sì, ero stata felice nonostante tutto. E questo rendeva il tutto più difficile.

“ Isabel!” Il semi urlo di June mi riportò con i piedi per terra. La fissai perplessa. “ È mezz’ora che ti chiamo!”

“ Scusami. Stavo pensando. Che c’è?” Le chiesi poi, seriamente curiosa di sapere con cosa se ne sarebbe saltata fuori stavolta.

“ Hai già un vestito per stasera?” Brutta, bruttissima domanda. Davvero pessima.

“ Ho appuntamento per questo pomeriggio al ‘Roses’. Perché?”

Il ghigno che spuntò sulle labbra di June non mi piacque affatto, ma fu la risposta alla mia domanda. Una risposta indiretta, ma decisamente comprensibile. E ne ebbi paura.

“ Noi veniamo con te.”

 

Eravamo davanti al Roses già da un paio di minuti, ma io non mi decidevo ad entrare. June e Daisy, invece, non vedevano l’ora. Poco prima avevano piantato Seiya e Shun con una scusa molto poco plausibile e poi mi avevano trascinata via, nel senso stretto del termine.

“ Allora? Stiamo qui a fare la muffa o entriamo?” Domandò June, elettrizzata. Quanto avrei voluto avere il suo stesso entusiasmo. Proprio come la prima volta che avevo messo piede dentro quell’atelier.

Non appena entrammo due cose mi colpirono immediatamente: la quantità smisurata di abiti, di tutti i tipi e colori e per tutte le occasioni, e l’intenso profumo di rosa. A quanto sembrava i gusti di Aphrodite non erano cambiati affatto.

Mi voltai leggermente verso le miei due bionde amiche e le trovai a guardarsi intorno ammirate, con gli occhi che quasi luccicavano davanti a tutti quei vestiti splendidi. O meglio, solo alcuni erano splendidi. Altri erano dei veri e propri obbrobri. Almeno questo era quello che il mio senso del gusto estetico registrò al volo, dopo aver adocchiato quella che sembrava un’enorme tenda piena di balze, più che un vestito.

“ Ma non c’è nessuno?” Domandò Daisy, ancora guardandosi intorno. Le sorrisi tranquilla.

“ Ad Aphrodite piacciono le entrate in scena. Vedrai che arriverà.”

Quasi l’avessi evocato un uomo si fece avanti alla scala a chiocciola che stava sulla destra. Lunghi capelli biondo scuro inframezzati da ciocche azzurre, occhi chiari, rossetto sulle labbra e neo sotto l’occhio sinistro. Indossava un paio di pantaloni scuri e una camicia color glicine, sbottonata, con tanto di foulard bianco intorno a collo e scarpe coordinate. No, non era proprio cambiato.

“ Isy! La mia piccola Isy!” Esclamò non appena mi vide, venendomi incontro a passo svelto e serrandomi in un abbraccio caloroso, di quelli che mi aveva riservato ogni volta che ero entrata nel suo negozio.

“ Ciao Aphro.” Dissi stringendolo a mia volta, respirando il suo profumo di rosa. Mi era in qualche modo mancato quel profumo, così come mi era mancato quel bizzarro individuo che a volte sembrava essere uscito da qualche tavola dei fumetti. Era sempre stato particolare, Aphrodite, già dal nome che usava nell’ambiente che era suo. Aphrodite, il nome della Dea dell’Amore e della Bellezza. E lui inneggiava alla bellezza, la considerava la forma più sublime dell’arte. E c’era così tanto amore in ogni vestito che creava. Era una sorta di esteta, anche se decisamente più moderato di quelli del tempo passato.

Sciolse il nostro abbraccio e mi prese le mani.

“ Quando la mia segretaria ha preso l’appuntamento non mi ha detto che sarebbe stato per te. Grazie a Dio! Non ne posso più delle ragazzine che si presentano qui dentro chiedendo null’altro che abiti pomposi e decisamente scollacciati. Oppure le signore anziane che credono ancora di essere ventenni e pretendono di portesi vestire come se lo fossero. E gli uomini sono anche peggio. Grazie a Dio! Almeno tu hai buon gusto per quanto riguarda la moda e la decenza.”

Risi apertamente allo sproloquio dell’uomo, ben sapendo a cosa si riferisse. Le feste dall’alta società avevano sempre più iniziato ad assomigliare ad una sorta di indecorosa sfilata di moda, o ad un carnevale di pessimo gusto. Era comico vedere come certa gente si agghindasse, risultando solamente ridicola.

“ Tranquillo: conosci i miei gusti.” Lo rassicurai stringendogli le mani e sorridendogli. “ Ah, loro sono June e Daisy, due miei amiche.” Dissi poi, voltandomi e facendo le presentazioni.

“ Incantato, signorine. Io sono Aphrodite, stilista e creatore di ogni abito che vedrete in questo atelier. È per me un onore fare la vostra conoscenza. Siete compagne di classe?” Si presentò l’uomo esibendosi in un inchino e poi in un baciamano degno dei gentiluomini di altri tempi.

“ Piacere nostro. Sì, siamo compagne di classe.” Confermò June, con un sorriso frizzante, imitata da Daisy. Almeno non dimostravano reticenze verso Aphro, cosa che succedeva spesso e volentieri. Un po’ per il suo atteggiamento egocentrico, un po’ per la sua omosessualità. Anzi. Sembravano averlo preso in simpatia.

“ E ditemi, mie care, Isy si comporta bene? Niente marachelle?”

“ Aphro! Per chi mi hai presa?” Sbottai divertita, mettendomi le mani sui fianchi e guardandolo fintamente male.

“ La tua capacità di combinare guai è proverbiale. I tuoi scherzi qua e là sono storia vecchia, mia cara ragazza.” Si difese lui, guardandomi di sottecchi decisamente divertito. Io sbuffai prima di rifilargli una linguaccia.

“ Oh, non c’è da preoccuparti. Isabel si comporta benissimo.” Mi venne in soccorso Daisy, sorridendo affabile.

“ Davvero? Sono realmente sorpreso.”

“ Guarda che sono una mamma, adesso. Devo dare il buon esempio a mia figlia.”

“ E come sta la piccolina? È un secolo che non la vedo.” Domandò Aphro, con un sorriso dolcissimo. Quell’uomo era innamorato di Anna, e spesso e volentieri l’aveva usata come modella in miniatura quand’era più piccola. Sorrisi anch’io.

“ Sta bene, grazie. È rimasta lo stessa diavoletta che ricordi.”

“ O Dei del Cielo. Ricordo che una volta è riuscita a mettere a soqquadro tutto l’atelier. Ancora mi chiedo come una bimba di tre anni possa esserci riuscita. Che confusione quella volta.” Esclamò in modo molto teatrale, ripensando a quanto era successo circa un anno prima, in quello stesso negozio.

“ E ti ricordi anche che abbiamo perso quasi sei ore a rimettere tutto a posto? Che faticaccia quella volta.” Risi io. Sì, era stata davvero una faticaccia. Ma alla fine, ormai a notte fonda, ci eravamo trovati soddisfatti del nostro lavoro.

“ Sono cose che non si dimenticano. Ma ora passiamo oltre.” Affermò Aphro prima di abbracciare l’interno negozio con un gesto delle mani. “ Siete nel più grande atelier di tutta Tokio. Qui dentro troverete abiti per ogni gusto, età e occasione. E allora ditemi, qual è questa occasione?”

Ridacchiai piano di quella sua teatralità mentre June e Daisy sembravano aver bisogno di un attimo per riprendersi da tutto quello che avevano sentito e visto.

“ L’occasione è il ballo che si terrà a Villa Sounion per i vent’anni di Julian Solo.” Spiegai ad Aphro, divertita da cosa avrebbe detto non appena avrebbe sentito il nome di Julian.

“ Oh! Miei Dei! Un altro ballo che quel bimbetto viziato organizza. Ho paura di sapere cosa ne verrà fuori questa volta. Prevedo già uno scempio di gusto ed estetica.” Disse il mio amico, portandosi una mano sugli occhi. Noi tre ragazze non potemmo che scoppiare a ridere. “ Ma dimmi, Isy, quand’è il ballo?”

Aphro mi avrebbe uccisa. Quando avrebbe saputo del poco tempo che avevamo mi avrebbe sicuramente uccisa. Odiava lavorare in velocità. Diceva che la ricerca dell’abito giusto era come dipingere un quadro o scolpire una statua o comporre con la musica; qualcosa che richiedeva tempo, pazienza, passione e dedizione.

“ Stasera…” Dissi piano, preparandomi mentalmente alla scenata che ne sarebbe seguita. E come volevasi dimostrare mi fissò stupefatto e orripilato.

“ Stasera? Dei del Cielo! Non c’è tempo.” Esclamò scuotendo la testa con diniego.

“ Aphro, per favore. Già non ho troppa voglia di andarci. Ti prego di non darmi una buona motivazione per far arrabbiare Mylock. Non so perché ma ci tiene davvero.” Lo pregai svelta, sperando che servisse.

“ Ma per te, Isy, ce la faremo. Hai un fisico perfetto e un ottimo gusto. Sono sicuro che troveremo un abito meraviglioso. E poi qui con te ci sono le tue amiche. Ditemi, mie care, vorreste aiutarmi in quest’impresa?” Chiese poi Aphrodite rivolgendosi a June e Daisy, che rimasero entusiaste dell’idea.

O.Miei.Dei. Sì, era una frase di Aphro, ma in quel momento non potei che ripetermela anch’io nella testa. Avevo già sperimentato l’entusiasmo delle due ragazze quando si trattava di fare le stiliste e, per quanto fosse servita una grossa dose di pazienza, ero sopravvissuta alla grande. Il problema andava a crearsi nel momento in cui a quelle due ci si aggiungeva Aphro: su una scala da uno a dieci il mio amico era mille volte peggio di loro. E sommandoli tutti e tre insieme ebbi la sgradevole sensazione che sarebbe stato un pomeriggio estenuante.

 

Ero comodamente seduta su un divano rosso bordeaux, gambe accavallate e un flûte di ottimo champagne in mano. Tutto regolare per quel posto, insomma.

Sì, io me ne stavo lì, comoda, e June, Daisy e Aphro si erano infilati tra le migliaia di abiti alla ricerca di un vestito che potesse andarmi bene e che, soprattutto, mi piacesse. Ardua impresa per loro.

Bevvi un sorso di champagne e mi guardai intorno con dolce famigliarità. Lì dentro tutto era rimasto uguale. Specialmente nella mansarda sopra l’atelier in cui Aphro ci aveva condotto. Stesse pareti color panna, marmorizzate; stesso parquet di legno chiaro, tirato a lucido; stessa fila infinita di specchi senza ombra di un solo alone; stesso intenso aroma di rosa. Stare lì dentro era un po’ come stare a casa. Quel posto mi trasmetteva calore, passione e tranquillità. Mi faceva strano esserci di nuovo, e non riuscii a non rilassarmi ripensando a tutti i pomeriggi passati lì, a scegliere abiti e a ridere con Aphro e Sara.

“ Eccoci qua!” Esclamò June, arrivando seguita a ruota da Daisy e Aphrodite. Avevano tutti e tre le bracca cariche di abiti, cosa che mi spaventò non poco.

“ Avete saccheggiato l’intero atelier?” Domandai cercando di metterla sul ridere, ben sapendo che quella non era che un piccola parte della quantità di vestiti presenti lì dentro.

“ Questi sono bazzecole, Isy mia cara.” Mi sorrise Aphro, con un gesto della mano. “ Iniziamo subito a guardarli. Non abbiamo tanto tempo. Mia cara June, vuoi iniziare tu?”

“ Certamente! Che ne dici di questo?” Mi chiese la bionda mostrandomi un vestito blu chiaro, corto.

“ No. No. Quello non va bene. È una ballo, cara ragazza. Non sono ammessi abiti corti. Solo abiti lunghi fino a terra. Con alcune eccezioni per le persone più anziane.” La riprese immediatamente Aphro, venuto a sedersi accanto a me, spiegandole alcuni dei concetti alla base delle feste dell’alta società.

“ Ah. Ok. Certo che ce ne sono di regole.” Disse la bionda mettendo via il vestito e guardandomi perplessa.

“ Più di quante tu possa immaginare.” Borbottai divertita, ripensando alle lezioni che avevo dovuto seguire quand’ero piccola.

“ Passiamo a questo, allora.”

Un abito lungo, bianco candido, con scollo a cuore e la gonna che si apriva ampia verso terra.

“ Non mi devo mica sposare.” Ridacchiai divertita.

“ E poi il bianco non va bene.” Scosse la testa Aphro.

“ Perché?”

“ Vedete, mie care ragazze, il bianco è un colore estremamente complesso. Molto difficile da portare. È probabile vederlo addosso ad una bambina, ma su una giovane donna può stonare molto. È il colore dell’innocenza e della genuinità; per questo, un tempo, le donne si sposavano in bianco: erano immacolate, illibate, non avevano conosciuto il tocco di un uomo. Il bianco simboleggiava la verginità della novella sposa. Ora ovviamente tutto questo concetto è andato perduto, ma la tradizione è rimasta. E tuttavia è ancora il colore dell’innocenza. Ed è difficile da indossare per un donna.” Spiegò ancora una volta Aphro, con un sorriso. Era questo che adoravo di lui. Sapeva davvero consigliare, perché conosceva ogni colore e ogni sfumatura delle cose.

“ Sinceramente parlando non me la sento di indossare un abito bianco.” Dissi a mia volta, scuotendo la testa.

“ Va bene. Questo?”

Un abito stavolta rosa confetto, con le spalline strette e una vaporosa gonna.

“ Non ho sei anni. E non sono una principessa Disney.”

“ Il rosa è il colore dall’infanzia per le bambine. Isy è ormai una giovane donna.”

“ Questo?”

Un abito nero, a maniche lunghe, con le braccia in pizzo e la gonna che da sotto il ginocchio diventava trasparente.

“ A metà tra una suora e una prostituta?”

Ridemmo tutti di quella mia battuta, divertiti.

“ Questo?”

Un abito rosso fuoco, monospalla, con l’unico braccio presente in pizzo e leggere grinze sulla zona del seno per poi scendere morbido lungo tutta la linea.

“ Rosso? Non è proprio il mio colore.”

“ Il rosso è il colore della passione. Dubito che tu ti senta così passionale, mia cara Isy.”

“ Questo?”

Un abito verde bottiglia, con lo scollo a cuore e un amarcord di brillanti lungo la linea della vita.

“ No. No. Non mi piace affatto per te.” Negò Aphro convinto.

“ Questo?”

“ Che è? L’abito di Cenerentola?”

“ Questo?”

“ Un tendone rosa e bianco.”

“ Questo?”
Un vestito blu, tutto d’un pezzo e con il collo alto.

“ Non vado mica in convento.”

“ Questo?”

Un vestito color oro, luccicante come pochi, con lo scollo anch’esso a cuore e la vita stretta.

“ Troppo pacchiano. E poi odio il modello a sirena.”

“ Questo?”

Un abito azzurro, in stile impero e senza maniche, che scendeva fino a terra finendo poi in piccole balze.

“ Con questo sembrerei incinta.”

“ Questo?”

Un abito nero, in pelle, con il collo di pelo bianco.

“ Stiamo scherzando?”

“ No. No. Isy è contro la vera pelle e il vero pelo. È un’animalista.”

“ Mi considero una persona sensibile, Aphro.”

“ Non è quello che ho detto?”

“ Questo?”

“ È da strip club.”

 

“ Oddio!” Sbottò June, seduta a terra, mentre cercava di uscire dal cumulo di stoffe e vestiti nel quale si era incastrata.

“ Altro che gusti difficili. Tu hai gusti impossibili.” Disse Daisy, mezza svaccata sul divanetto. Io feci spallucce. “ Mi sa che qui dobbiamo arrenderci. Non abbiamo trovato assolutamente nulla. E siamo qui da due ore.”

Già, avevamo perso ben due ore a guardare abiti e poi a scartarli. Non ce n’era uno che mi piacesse o anche solo m’ispirasse qualcosa. June e Daisy erano decisamente a pezzi: non credevano che sarebbe stata così dura. Stavano iniziando a gettare la spugna.

“ Ah. Trovato.” Esultò improvvisamente Aphro, apparendo alle mie spalle. Quando diavolo se n’era andato? Aveva tra le mani la custodia di un abito, e un sorriso trionfante sulle labbra.

“ Cos’è?” Chiesi avvicinandomi imitata dalle altre due ragazze. Aphro mi guardò attentamente.

“ L’ho disegnato e realizzato molto tempo fa. Un’ispirazione improvvisa. Ma non ho mai avuto cuore di mostrarlo a qualcuna. Nessuna sembrava adatta ad indossarlo. Però sono certo che sarà perfetto su di te. Avanti. Provalo mia cara.”

Presi l’abito e mi diressi nel camerino. Non appena aprii la custodia e lo vidi pensai che fosse bellissimo. Semplice, privo di fronzoli e delicato come nessun altro vestito che avevo visto. Me lo infilai facendo attenzione e presi ben presto a litigare con la cerniera sulla schiena. Ma perché sempre sulla schiena dovevano metterle?

“ Isy, tesoro, vuoi una mano?” Mi venne in soccorso Aphro, bussando alla porta.

“ Sì, grazie. Non riesco a chiuderlo.”
Un secondo dopo Aphrodite era già entrato e mi aveva chiuso la cerniera.

“ Ti sta davvero d’incanto, mi cara.” Sussurrò guardando nello specchio, le mani appoggiate sulle mie spalle.

Era un abito rosa antico che scendeva dolcemente lungo tutta la mia figura, mettendo in risolto le mie forme senza mai scivolare nel volgare, inframezzato da intarsi di stoffa nera a dargli un che di aggressivo. Era davvero una meraviglia.

“ Perché proprio questo vestito?” Chiesi improvvisamente al mio amico guardandolo attraverso lo specchio. Ero certa che non l’avesse scelto a caso. Lui non sceglieva mai un abito a caso.

“ Perché credo di averlo inconsciamente disegnato per te.” Ammise Aphro, guardandomi con dolcezza. “ Si tratta di un abito di un color pastello, molto delicato, messo in evidenza dal nero che ne smorza la monotonia. È un abito stretto ma non attillato, che segue con dolcezza la tua fisionomia. Un abito elegante e seducente al tempo stesso. Un abito perfetto per la donna che vedo in te e che sta lentamente e gentilmente sbocciando. Sei in quell’età di mezzo, Isy, dove i più grandi ti considerano una bambina e i più piccoli una donna. Ma non sei nessuna di queste cose. Lo vedo dai tuoi occhi. Non sei ancora davvero un donna, anche se hai affrontato prove che avrebbero piegato qualsiasi adulto. E nonostante il dolore sei ancora gentile, hai ancora una bontà d’animo così profonda e sottile al contempo. È ora di mostrarlo al mondo, quello che sei. Quello che sei diventata. E io spero che questo abito possa aiutarti proprio in questo.”

Mi volta di scatto e lo abbracciai. Aphro aveva visto dove nessun altro era arrivato. Mi aveva osservata e aveva scavato dentro i miei occhi.

Lo abbracciai con quanta forza avevo in corpo e lui rispose allo stesso modo. Non ci furono lacrime. La nostra commozione si evidenziava dai nostri sguardi, così com’erta stato un tempo.

“ Vieni. Facciamo vedere alle tue amiche quanto sei bella.” Mi sussurrò dolcemente lui, aprendomi la porta del camerino e porgendomi la mano per accompagnarmi.

 

“ UAO!”

Questo fu quello che urlarono June e Daisy in sincrono non appena uscii dal camerino.

“ Sei bellissima.”
“ Una meraviglia. Davvero”

“ Grazie ragazze.” Dissi loro, avvicinandomi. “ Per tutto. So che non è stato facile sopportarmi per tutto il pomeriggio. Vi ho fatte impazzire a forza di scartare abiti con battutine.”

“ Se devo essere sincera mi sono divertita come una pazza. Hai un senso dell’ironia incredibile. Ancora un po’ e mi soffocavo tra le risate.” Disse Daisy, ridacchiando. E ripensando a tutto quello che avevo detto scoppiai a ridere anch’io, seguita a ruota da June e Aphro.

“ Grazie ragazze.” Sussurrai quando smisi di ridere.

Fu un attimo. Quasi non me ne accorsi. Le due ragazze ci gettarono su di me e ci trovammo a stringerci tutte e tre in un abbraccio carico di calore e amicizia, come non ne sentivo da tempo. forse Death aveva ragione; forse iniziare a fidarsi degli altri non era poi una cosa così terribile. E per la prima volta dopo quattro anni ebbi la certezza di aver trovato due amiche. Due vere amiche.

Scansai un braccio e lo tesi verso Aphro, invitandolo ad unirsi a noi. Un secondo dopo da tre eravamo diventati quattro.

Era così bello. Così piacevole. Così intenso.

Quando ci staccammo ridevamo tutti, forse un po’ scioccamente.

“ Sai, Isabel… Io non so perché tu sia così reticente all’idea di andare a questa festa. Immagino che le persone che vedrai stasera tu le conosca bene. E in qualche modo intuisco anche che ti hanno fatta soffrire. Però…” June si bloccò un attimo, abbassando lo sguardo e prendendo un grosso respiro. Quando rialzò gli occhi però, in essi, leggi il divertimento. “ Però stasera falli a pezzi. Tutti.”

E scoppiammo a ridere di nuovo.

Quel pomeriggio era servito a qualcosa. Mi sentivo più serena, e avevo la sensazione di poter affrontare qualsiasi cosa. Mi sentivo davvero forte per la prima volta dopo tanto tempo.

 

Villa Sounion era proprio come la ricordavo. Enorme. Sfarzosa. Piena di niente e vuota di tutto.

Ci avevo messo relativamente poco a prepararmi. I capelli li avevo lasciati scioli, acconciati il morbidi boccoli che scendevano sulle spalle; il trucco era leggero e nonostante questo sofisticato, tanto che quella sera ero certa di dimostrare qualche anno in più dei miei diciotto.

Mi ero avviata a passo spedito verso la sala in cui si sarebbe tenuta la festa. Non volevo essere lì, e prima avessi scoperto cosa fosse tutto quel mistero che Mylock aveva fatto aleggiare prima me ne sarei tornata a casa.

Me ne stavo in cima alla scalinata principale, aspettando solo che venisse annunciato il mio nome. Sapevo perfettamente come funzionava: l’intera sala si sarebbe voltata a fissarmi, con occhi da avvoltoi e la derisione e il disgusto luccicanti negli sguardi. Sospirai a fondo. Alla fine della scala Mylock mi aspettava immobile, in silenzio. Sapevo perfettamente che il motivo principale per cui era lì era sorreggermi una volta che la mia discesa fosse finita.

“ La Duchessa Saori Kido.”

Eccolo il momento. Un numero imprecisato di occhi si voltarono a fissarmi, interrompendo quello che stavano facendo. Il vociare basso si propagò all’istante.

Respirai a fondo e poi aprii gli occhi iniziando a scendere le scale.

Sguardo duro. Testa alta. Sii fiera e incrollabile. Non mostrare loro nient’altro che la tua superiorità. Guardali e non guardarli. Scivola sui loro volti e sulle loro parole con disinteresse. Nessuno è più forte di te.

Quel mantra quasi arrogante me lo ripetei lungo tutta la discesa. Sapevo che dovevo fare così, come Sara mi aveva detto tanto tempo prima. Sapevo che dovevo farlo per il semplice fatto che così sarei riuscita a lasciare fuori tutto e tutti; niente e nessuno sarebbe entrato, e il mio sguardo sarebbe stato una difesa inespugnabile.

Non appena arrivai all’ultimo gradino Mylock si fece avanti porgendomi la mano e accompagnandomi prima in mezzo alla sala e poi in un angolo più tranquillo. Non appena ci arrivammo lasciò la presa e respirò a fondo.

“ E anche questa è andata.” Borbottò più tranquillo.

“ Pensavo molto peggio.” Dissi seriamente stupita.

“ Meglio che sia andata così.”

“ Perdonate la mia intrusione.” Una voce ci fece voltare entrambi. Davanti a noi, nella sua piena alterigia, stava Julian Solo. Capelli lunghi e chiari; occhi azzurri come il mare; completo bianco tirato a lucido. “ Mi dispiace interrompere, ma vorrei chiedere alla signorina Kido di farmi il piacere di seguirmi.”

Dio! Neanche ero arrivata a lui già voleva avere tutta la mia attenzione. Quando si dice essere egocentrici.

“ Ma certo, Mr. Solo. Siamo venuti qui solo per questo.” Disse Mylock, guardando il ragazzo con qualcosa nello sguardo che non riuscii a decifrare e poi rivolgendo un inchino prima di farsi da parte.

“ Allora, Milady, vogliamo andare?” Mi chiese Julian porgendomi la mano. Mano che osservai per una manciata di secondi prima di iniziare ad incamminarmi verso la terrazza che dava sul cortile. Se davvero dovevamo parlare e forse addirittura discutere era meglio farlo in un luogo appartato, il più lontano possibile dal resto degli invitati. Avevo promesso che non avrei fatto scenate o quant’altro, ma la prudenza non era mai troppa in certi casi.

Sentii Julian alle mie spalle ridacchiare piano prima di venirmi dietro. In quel momento lo associai ad un cagnolino.

Fu in quel momento, nel breve tragitto verso il terrazzo che notai qualcuno che mi stava fissando più insistentemente degli altri. Una donna dai capelli scuri e gli occhi chiari, stretta in un abito color cielo e agghindata con diamanti. Loren Solo, la madre di Julian. Mi stava guardando senza preoccuparsi di risultare maleducata. E c’era qualcosa in quello sguardo. Sembrava dolore, che si mescolava al rimorso e al rimpianto. Perché mi guardava con quegli occhi?

 

Arrivammo sulla terrazza e io mi appoggiai al parapetto incrociando le braccia sotto al seno. Fissai Julian negli occhi, seria e diretta. Volevo sapere cosa ci fosse sotto, e il prima possibile.

“ Non trovi che sia proprio una bella serata?” Mi chiese lui, sorridendomi sensuale.

Nel corso degli anni non era cambiato. Sempre con quel sorriso tentatore e i modi da abile seduttore, per i quali molte ragazze erano cadute ai suoi piedi. Peccato che con me non attaccasse. Julian aveva una doppia faccia, come tutti in quel mondo dopotutto. E a me quella faccia che sempre nascondeva dava fastidio.

“ Julian. Non sono qui per fare conversazione con te. Al contrario tuo non passo la giornata a girarmi i pollici o ad oziare perché ogni notte non torno a casa visto che sono fuori a fare baldoria. Vado a scuola, ho una figlia di cui occuparmi e sai, di tanto in tanto, devo anche gestire la Fondazione. Quindi perdonami se sarò troppo diretta, ma vai subito al dunque e non girarci intorno perché sono stanca, e in questo momento vorrei solo essere a casa a dormire. Ah, e le tue tattiche per sedurmi puoi anche ingoiartele: non attaccano.”

Julian si voltò a guardarmi per un secondo prima di scoppiare a ridere. Ecco, forse avrebbe iniziato a fare sul serio.

“ Quello che dicono di te è vero. Non sei una persona molto paziente.” M’istigò, divertito.

“ Ti sbagli. Mi reputo una persona estremamente paziente. Tranne nel momento in cui vengo praticamente obbligata a partecipare ad una festa verso cui non nutro interesse alcuno solo perché c’è qualcosa di cui devo essere messa al corrente. E a quanto pare sei tu quello che mi deve informare. Una semplice telefonata no, eh?” Gli chiesi poi, ironica, fissandolo con scherno.

“ Non è qualcosa di cui si possa parlare al telefono.”

Ancora quel sorrisetto. Avrei tanto voluto elargirgli un sonore pugno in faccia, solo per vedere se la sua espressione sarebbe cambiata oppure sarebbe rimasta quella di un’imbecille.

“ Sono qui. Quindi dimmi quello che mi devi dire. E, per favore, se tu riuscissi a farne anche un riassunto te ne sarei davvero grata.”

A queste parole Julian mi fissò per un minuto buono, senza smettere di sorridere. Sapevo che aveva qualcosa in mente. La sua espressione la diceva lunga. Era come se lui fosse certo di avere una vittoria schiacciante in mano. Ma la vittoria di cosa? Avevamo forse iniziato un battaglia della quale non ero stata informata?

“ Vuoi che sei diretto, Isabel? Allora lo sarò. Ma sappi che questo tuo atteggiamento dovrai cambiarlo a breve.”
“ Ah, davvero? E quando di grazia?”

“ Quando diventeremo marito e moglie.”

 

Porca puttana! Porca di quella grandissima e maledettissima puttana!

Sì, era stato proprio questo che mi era passato per la testa non appena Julian aveva detto quella frase.

Lo fissavo con sguardo fermo, ma non lo vedevo. Mi chiedevo se fosse uno scherzo, di quelli che fanno spesso alla televisione, e se a breve non sarebbe saltato fuori qualcuno con una telecamera in mano ridendo come un pazzo. Ma niente di tutto questo accadde. Rimanemmo semplicemente immobili come due cretini, a fissarci.

Stavo cercando mi metabolizzare la cosa, ma si stava rivelando un’impresa quasi disperata.

Non riuscivo a capire se il ragazzo davanti a me scherzasse o se facesse sul serio. E al contempo avevo la terribile sensazione che fosse tutto vero, e che ancora una volta altri si fossero arrogati il diritto di decidere me. E questo mi fece imbestialire. Fu come se tutto il resto fosse improvvisamente scomparso, lasciando posto solo alla rabbia.

“ Cos’è? Hai per caso perso la tua lingua lunga?” Mi domandò Julian, rompendo il silenzio ch’era andato a crearsi. E davanti al suo sarcasmo capii che non sarei riuscita a trattenermi. No, non avrei fatto una scenata. Avrei fatto qualcosa di peggio probabilmente.

“ Chi l’ha deciso?” Chiesi solo, lasciando fuori tutto il resto. Non m’importava più se fosse vero o meno, perché avevo già capito da sola che lo era.

“ Prego?”

“ Ti ho chiesto chi l’ha deciso, Julian.” Ringhiai furente, stringendo i pugni così forte che ebbi la certezza che se avessi continuato le unghie si sarebbero conficcate nella carne.

“ Ma è ovvio. Tuo nonno, mia cara. Lui e mio padre hanno siglato il contratto prematrimoniale quando tu avevi quattordici anni e io sedici. Dovevamo solo aspettare che tu raggiungessi la maggiore età.” Mi spiegò il ragazzo davanti a me, con noncuranza. Sembrava che la cosa non lo riguardasse, che non ne fosse coinvolto. “ Oh, non fare quella faccia. Si tratta solo di affari. Solo di una firma.”
“ Io non sono un affare! Io non sono una firma!” Sbottai alzando gli occhi su Julian e ancorandolo al terreno. Non mi sarebbe scappato. “ Io sono una persona. Non sono un oggetto, un pacco postale da spedire qua e là. Sono stata chiara, Julian?” Gli chiesi poi, melliflua, sentendo qualcosa spezzarsi dentro di me.

Il ragazzo rimase a fissarmi, sconvolto. Ma sapevo comunque che avrebbe fatto il passo sbagliato, che avrebbe detto la cosa sbagliata. E io non vedevo l’ora.

Tutto quello che avevo sigillato dentro di me per quattro anni stava sbucando fuori ad una velocità impressionante. E non sarei riuscita a fermarlo. Perché l’altra me, la Isabel di quei giorni che sembravano distanti come ere geologiche, stava tornando alla ribalta. E con essa tutta la cattiveria che da sempre avevo covato gelosamente dentro.

Ma Julian era solo un’imbecille. E quella sera ne ebbi la prova.

“ Non puoi farci niente. Ormai è tutto deciso. Noi due ci sposeremo. Non serve che tu finisca la scuola. Ritirati pure, tanto una femmina con una cultura non è mai servita a nessuno. E, per favore, trova un collegio o un orfanotrofio abbastanza distante dal paese in cui mandare quella specie di orripilante mostriciattolo che ti si attacca alla sottana. Grazie. Non serve a nessuno. E poi avrai tempo per sfornare degli eredi degni della casata Solo.”

 

Tutto si era spento.

Vuoto. Perdita. Dolore. Rancore. Rabbia. Odio. Disprezzo.

Mi si contrassero le viscere; il mio corpo iniziò a tremare violentemente; un conato di vomito mi salì lungo la gola; i denti perforarono la tenera carne del labbro inferiore.

Maledetto bastardo!

“ Cos’hai detto?” Chiesi in un sussurro, cercando di controllare la voce. Inutile. Ormai avevo raggiunto il punto di non ritorno.

“ Non hai sentito? Sei forse sorda?”

“ Tu!” Il sussurro divenne un sibilo, e vidi Julian immobilizzarsi sul posto, rimanendo voltato di spalle. “ Piccolo, schifoso essere ignobile. Tu! Cosa credi? Di poter decidere della mia vita? Credi di avere un qualche valore, un qualche potere che ti fa stare sopra di me?”

“ Non osare donna!”

Julian si voltò di scatto, arrabbiato per tutte le offese che gli avevo rivolto. Io le avrei chiamate verità. Ma non fu quella la goccia che fece traboccare il vaso. No, fu ben altro.

Il ragazzo sollevò la mano pronto a colpirmi con un sonoro e doloroso ceffone. Imbecille.

Non ebbe il tempo di rendersi conto di quanto stava succedendo. Quando il colpo calò su di me io ero già pronta. Strinsi il pugno destro e irrigidì il braccio per parare; ruotai il polso e afferrai il suo stringendolo tanto forte da fermare quasi la circolazione del sangue; andai con la mano sinistra al suo gomito e spinsi su di questo, obbligandolo a curvarsi per il dolore; sollevai il piede destro e con la precisione di un cecchino colpii con la punta della scarpa il retro del suo ginocchio, facendolo crollare a terra tra gemiti e imprecazioni. E tutto questo nel giro di una manciata di secondi.

“ Non ci provare mai più! Ho tre titoli nazionali di karatè alle spalle, e un anno intero di difesa personale.” Gli sussurrai all’orecchio, spingendo ancora di più sul gomito. “ Non azzardarti nemmeno a pensare di potermi colpire, o anche solo toccare. E non osare mai più parlare di mia figlia in questo modo, o giuro che ti spezzo le ossa una alla volta.” Diedi un ultimo colpo al gomito e Julian rotolò per terra, dolorante. Gli voltai le spalle. “ Ah, e non darmi mai più della puttana. Non sono una delle troiette che ti scopi una notte sì e l’altra anche. Io so cos’è il rispetto, e so guadagnarmelo. Ma se tu non vorrai darmelo, allora non c’è problema. Non potrò costringerti a rispettarmi, ma potrò obbligarti a temermi.”

E l’occhiata di puro gelo e fuoco che gli lanciai lo fece fremere di paura. Aveva capto che non stavo scherzando, e che la minaccia che avevo pronunciato l’avrei messa in atto. Avevo già iniziato, in verità. Perché Julian aveva già iniziato a temermi.

 

Un applauso alle mie spalle mi fece voltare, e davanti a me trovai la figura di una donna anziana, vestita con un lungo abito scuro e un’espressione soddisfatta. Conoscevo quella donna, anche se mai avevo avuto modo di parlarle. Era Keiko Solo, la nonna paterna di Julian.

“ Complimenti.” Disse la donna rivolgendomi un sorriso. “ E tu, mio caro nipote, vedi di darti una regolata. Sei davvero una persona di merda.” Chiosò, rivolgendosi al ragazzo e poi avvicinandomi e prendendomi a braccetto. “ Vieni, mia cara. Sono sicura che serva qualcosa di forte adesso.” E mi trascinò via non badando alle imprecazioni di suo nipote.

 

“ Ah, finalmente sole.” Esclamò la signora Keiko non appena ci fummo chiuse la porta di uno dei salotti privati della residenza alle spalle.

Mi guardava con un’espressione strana, tra il divertito e l’ammirato. Sembrava che non le importasse che avevo appena rischiato di picchiare a sangue suo nipote. Anzi. Ne sembrava entusiasta.

“ Qui ci vuole davvero qualcosa di forte. Lo Champagne non aiuta in questi casi. Che ne dici di uno Scotch piuttosto? Sai, tengo in questa stanza la mia riserva personale.” Disse mentre armeggiava con alcuni pensili fino a tirarne fuori una bottiglia dal liquido ambrato e un paio di bicchieri. “ Prego. Siediti pure. Non mordo mica.” Ridacchiò poi, vedendomi ancora ferma in piedi come uno stoccafisso.

Le rivolsi un sorriso di ringraziamento e poi accettai il suo invito a sedermi.

Mentre lei trafficava con la bottiglia e riempiva i bicchieri io la fissai. Quella donna era praticamente un’istituzione nel mondo dell’alta società. Anche se erano in molti quella che la definivano ‘strana’. E in fondo un po’ strana lo era davvero.

Era diversa dal resto della sua famiglia. Lei, al contrario loro, non ostentava nulla. Preferiva la semplicità e la tranquillità.

Di lei avevo sentito dire molte cose. La prima in assoluto era che fosse un’accanita bevitrice, ipotesi di cui stavo avendo la prova. La seconda era che dell’alta società lei disprezzava tutto, dal più grande degli affari commerciali al più piccolo capello delle persone. La terza era che non aveva peli sulla lingua, e che diceva in faccia alla gente tutto quello che pensava. La quarta era che parecchie volte tendeva ad essere molto poco politically correct.

Sapevo che la maggior parte delle persone di quel mondo fatto di lusso sfrenato non la considerava nemmeno degna di nota. Ma sapevo anche che lei e mio nonno erano sempre stati in buoni rapporti nel corso degli anni.

Mio nonno…

“ Non fare quella faccia, Isabel. E non avercela con tuo nonno.” Mi disse quasi distrattamente, togliendomi dai miei pensieri. Mi passò un bicchiere. “ Sai, ragazza mia, tuo nonno era una persona che rispettavo molto. E verso cui nutrivo un affetto smisurato. E credimi quando ti dico che quell’uomo aveva la passione dei trabocchetti.”

“ Trabocchetti?” Chiesi senza capire.

“ Diciamo che sapeva giocare scorretto quando voleva.” Specificò allora lei, guardandomi da sopra il bicchiere con quello che sembrava un ghigno.

“ Ok. Adesso inizio seriamente a non capirci più niente.” Dissi appoggiando il bicchiere sul tavolino davanti a me e alzandomi in piedi. La donna davanti a me rimase impassibile.

“ Allora prendi questa e tira pure fuori il pacchetto di sigarette. So che fumare di aiuta a ragionare.” M’invitò lanciandomi la mia pochette. La guardai perplessa. “ L’ho recuperata prima di venire a prenderti sulla terrazza.”

C’era qualcosa che non mi quadrava in tutta quella storia. Più di qualcosa ad essere sincera. Per questo me ne restai ferma, con la borsetta in mano, a fissare piena di domande la donna che mi stava davanti e che tranquillamente continuava a bere il suo Scotch. Non sembrava per niente turbata dalla situazione, al contrario mio che continuavo a scervellarmi facendomi venire l’emicrania. Troppe emozioni tutte in un colpo. E lo scoppio con Julian era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Per questo, per tutto quello che mi mescolava dentro come fosse un minestrone, e per la confusione che avevo in testa decisi seduta stante che avrei preteso delle risposte.

“ Sembra che lei mi conosca bene.” Iniziai, tornando a sedermi e prendendo dalla pochette il pacchetto di sigarette e accendendomene una. La nicotina penetrò immediatamente, e quando buttai fuori il fumo mi sentii un po’ più tranquilla.

“ Tuo nonno parlava spesso di te. Anche se sarebbe meglio dire che eri il suo unico argomento di conversazione. O forse il suo preferito.” Mi spiegò la signora Keiko, sorridendomi dolcemente. “ Ti voleva molto bene.”

“ Ah, davvero? Per questo ha siglato un contratto prematrimoniale con quell’essere viscido e poi si è anche premurato di non dirmelo?” Chiesi arrabbiata, buttando giù a collo un paio di sorsate di Scotch. In quel momento, difendere l’uomo che chiamavo nonno, era la cosa peggiore da fare.

“ Ha fatto anche qualcos’altro, in realtà.”

“ Perfetto! Credevo che avessi toccato il fondo nel sapere che dovrei spostare Julian. Cosa che ovviamente non farò a prescindere.”

“ Davvero?” Mi chiese allora la donna davanti a me, con gli occhi illuminati da una strana scintilla.

“ Davvero cosa?”

“ Davvero non hai intenzione di sposare mio nipote? Nonostante il contratto?”

“ No, non ho intenzione di farlo.”

“ Bene.”

Quella conversazione non aveva senso. Per niente. E avevo sempre più la certezza che la signora Keiko mi stesse nascondendo qualcosa di vitale importanza. Lo avevo capito da come aveva parlato fino a quel momento; mi aveva lanciato qualcosa, come un’idea. O forse un fatto.

“ Sei una ragazza decisa, Isabel. E sicuramente hai più palle tu di mio figlio e mio nipote messi insieme. Per questo sei stata messa davanti al fatto compiuto: se tu l’avessi saputo prima che il contratto fosse firmato ti saresti opposta. Cosa che, in ogni caso, hai fatto. Mi piaci, ragazza. Non ti fai mettere i piedi in testa e prosegui sulle tue convinzioni. Per non dire poi che ho adorato il fatto che tu abbia rivoltato un po’ Julian. È stato estremamente divertente.” Si complimentò lei, alzando poi il bicchiere a simulare un brindisi.

“ Sarà anche come dice lei, ma questo a cosa ci porta? O a cosa mi porta, piuttosto?” Le chiesi affranta.

“ Ci porta ad un documento, mia cara. Ad un documento che ha il potere di sciogliere il contratto rendendolo vano.” Mi spiegò, prima di versarsi un’altra generosa dose di Scotch e fare lo stesso con me.

“ Un documento?”

“ Sì, un documento redatto da tuo nonno quattro anni fa, poco prima della sua morte. Un documento per te.”

“ E perché io non ne ero a conoscenza?”

“ Perché all’epoca eri solo una bambina. E parecchio incasinata, aggiungerei. Sì, so di tutti i problemi che hai avuto, e sinceramente parlando non me ne frega niente. Ciò che davvero m’interessava era quello che sarebbe successo questa sera, non appena ti fosse stata data la notizia del matrimonio. E hai reagito proprio come speravo.”

Mi passai una mano tra i capelli e bevvi ancora qualche sorso di Scotch cercando di far mente locale su quanto mi era appena stato detto.

“ Mi ha messo alla prova?” Chiesi poi, sicura che fosse così.

“ Esattamente. È stato tuo nonno a chiedermelo.”

“ Sul serio? E cosa sarebbe successo se io avessi accettato la proposta di Julian?”

“ Non ti avrei detto niente. E non l’avrei fatto nemmeno se tu ti fossi opposta al matrimonio con qualche insulsa motivazione, pestando i piedi per terra come una bambina. Ma hai dimostrato qualcosa, stanotte. E a me tanto è bastato.” Mi spiegò avvicinando il bicchiere al mio e facendoli scontrare. I vetri tintinnarono tra loro ferendomi quasi le orecchie. “ Complimenti. Prova superata.”

“ E cosa ho vinto?” Chiesi allora, seriamente divertita. Quella donna iniziava a piacermi. Certo il suo modo di fare poteva risultare scorretto, ma rispecchiava in pieno il suo non essere proprio politically correct.

“ La possibilità di accedere a quel documento.” Disse sorridendomi. “ Domani recati dal notaio di famiglia e spiegagli la situazione. Il resto lo vedrai da te.”

Il silenzio calò tra di noi. Lei era intenta a bere, io a guardare la sigaretta che piano si consumava tra le mie dita.

“ Sarà davvero così facile?” Domandai poi, decidendomi ad aspirare l’ultimo tipo per poi spegnere il mozzicone nel posacenere appoggiato sul tavolino.

La signora Keiko mi fissò dolcemente, proprio come una nonna. E quanto mi scaldò il cuore, quel sorriso.

“ Non sempre è tutto difficile a questo mondo, Isabel. Specialmente quando c’è qualcuno che si prende cura di noi. So che hai passato l’inferno, e questo a causa delle persone che ti circondavano. Però ti sei dimostrata più forte di loro, più forte del dolore. Qualcosa vorrà pur dire questo, no?” E ridacchiò tranquilla, tornando a versarsi lo Scotch.

Sorrisi anch’io, per la prima volta serena da quando quella serata aveva avuto inizio. Forse aveva ragione la donna anziana che mi stava davanti. In fondo lei aveva vissuto più di me, e sicuramente aveva imparato qualcosa dagli anni che si portava addosso.

Appoggiai il bicchiere sul tavolino e mi alzai, pronta ad andarmene.

“ Allora arrivederci, signora Solo.” La salutai cordialmente con un inchino. Lei sbuffo.

“ Chiamami semplicemente Keiko e dammi del ‘tu’. Sarò anche vecchia ma non sono antidiluviana.” Disse burbera, sventolando una mano come a voler sorpassare quel discorso.

Io ridacchiai e mi diressi alla porta, ma prima di abbassare la maniglia volli sapere un’ultima cosa. La cosa che ancora non riusciva a quadrarmi in quella faccenda.

“ Posso sapere perché lo fa?” Chiesi allora, tornando a voltarmi.

“ Prego?”

“ Perché si schiera contro la sua famiglia? Perché mi aiuta? Mi conosce solo attraverso i racconti di mio nonno.” Specificai allora, guardandola dritta negli occhi. Lei mi restituì lo sguardo, seria.

“ L’hai vista la moglie di mio figlio, Loren?” Annuii senza capire. “ Quella donna non assomiglia per niente alla ragazza che ho conosciuto anni fa. Lei era solare, allegra, spigliata. Aveva un’incredibile voglia di vivere. E mostrava al mondo un sorriso meraviglioso. Quel sorriso le è stato rubato da mio figlio e dal loro matrimonio. Non ha più sorriso, dacché si sono sposati. È sempre triste, amareggiata; si trascina quasi fosse un fantasma. Non voglio che un’altra vita venga rovinata. Non voglio altri rimorsi in questa casa. Lei non l’ho potuta salvare. Forse posso farlo con te.”

Rimasi basita. Quindi era così che stavano le cose. Ripensai a Loren, che prima mi aveva guardata con quello sguardo così particolare. Ora capivo. Vedendomi aveva rivisto se stessa, e sapeva che il dolore che aveva patito lei presto sarebbe stato anche il mio. Per questo quell’occhiata. Mi si strinse il cuore a pensare a quella donna, prigioniera di un matrimonio con un uomo che non era capace di renderla felice. E che probabilmente nemmeno la calcolava.

Mi ritenni fortunata come non mai.

Guardai Keiko un’ultima volta e poi le sorrisi, uscendo da quel salotto.

 

 

 

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