Eccomi
qua! Sono tornata J
Lo so:
sono praticamente scomparsa! Perdonatemi, ma l’università ha deciso di rapirmi…
Però,
per farmi perdonare, ecco un capitolo decisamente più lungo degli altri. Ben 16
pagine di word! Sì, ho preso paura anch’io quando me ne sono accorta. E in più
l’arrivo nuovi personaggi (qualcuno decisamente bastardo xD)…
Sono stata
parecchio in dubbio sul tagliare il capitolo oppure lasciarlo così. Alla fine
ho propeso per la seconda ipotesi, perché altrimenti alcuni fatti che qui
leggerete si sarebbero sovrapposti ad altri, andando a creare un qualcosa d’ingarbugliato
da cui avrei rischiato di non uscire nemmeno io.
Buona lettura.
LadyBlueSky
11. Quando il passato si prende gioco di te.
Mi stiracchiai
sollevando le braccia da sotto le coperte e un brivido mi scosse: iniziava a
fare davvero freddo! Ma in fondo eravamo quasi a fine ottobre, e per quanto la
temperatura fosse realmente di qualche grado sotto la norma non potevo
aspettarmi in ogni caso niente di diverso.
Sgusciai fuori dal
tepore del mio letto non del tutto convinta, e i sibili che provenivano dalla
finestra mi fecero capire che quel giorno il vento soffiava forte.
Non ero mai stata
un’amante del freddo, e in particolar modo del vento. Preferivo i climi
temperati, come quelli della Spagna o dell’Italia. Ma non per questo disdegnavo
una bella sciata in montagna. Sempre a patto che non ci fosse vento. In quel
caso me ne restavo chiusa al calduccio dentro un rifugio, magari a mangiare
qualche dolce o a bere una deliziosa cioccolata calda.
In ogni caso, in barba
al vento, quel giorno dovevo uscire comunque. C’era la scuola, da portare Anna
all’asilo, il club di tiro con l’arco – m’interessava soprattutto sapere dove
ci saremmo esercitati viste le raffiche – e chissà cos’altro che al momento mi
sfuggiva. Una normale giornata, per così dire.
Far alzare mi figlia
quel giorno si era rivelato più facile del solito visto che, non appena avevo
detto la parola vento, lei era saltata giù dal letto e aveva raggiunto la
finestra con la stessa velocità con cui Superman era capace di volare. Anna
adorava il vento. Le piaceva, mentre camminava con me, piroettare tra i
mulinelli di foglie secche che andavano a crearsi; oppure si faceva sospingere
pian piano dalle raffiche, rischiando sempre di cadere dato ch’era magra come
un fuscello quella bambina. E dire che mangiava quasi più di me! E anch’io,
quando mi ci mettevo, ero una buona forchetta.
Arrivai a scuola in
perfetto orario dopo aver lasciato Anna all’asilo e aver ricordato a Mylock che
quel giorno avrebbe dovuto andare lui a prenderla perché io avevo le attività
del club.
Mi accorsi subito che
c’era qualcosa di strano. Il normale cicaleccio che ogni giorno animava
l’edificio era decisamente più rumoroso; senza mettere in conto i gridolini
eccitati delle ragazze e le risate sguainate dei ragazzi. Cosa stava
succedendo?
“ Buongiorno Isabel!”
Trillò June travolgendomi con uno dei suoi abbracci che rischiavano ogni volta
di farmi collassare un polmone. “ Hai visto che bello? Sono tutti in fermento.
E anche io lo sono. Insomma. È una delle cose belle di questo periodo. Non vedo
l’ora. Tu non sei eccitata?”
Ci misi un attimo a
riprendermi da quel fiume di parole, che tra le altre cose la ragazza aveva
pronunciato senza nemmeno prendere fiato. Ci misi, per precisare, il tempo
esatto che serviva agli altri per raggiungerci.
“ Mi sono persa
qualcosa?” Domandai dopo un lungo respiro. June mi guardò curiosa; gli altri
erano palesemente divertiti.
“ Scusa?”
“ Sono per caso finita
in un mondo parallelo?” Domandai di nuovo.
“ No, semplicemente June
ha parlato senza spiegare nulla.” Disse all’improvviso Seiya, scoppiando a
ridere prima di beccarsi un pugno dalla bionda, che un attimo dopo mise su un
broncio che assomigliava tremendamente a quello che faceva Anna quando la
sgridavo.
“ Tra pochi giorni sarà
Halloween, Isabel.” Iniziò a spiegarmi Shun, anima pia di quel gruppo di
scalmanati. “ Ed è tradizione del nostro istituto che si organizzi una grande
festa, con tutte le classi del comprensorio.”
“ Con tutte le classi
intendi dire che partecipano anche l’istituto medio, quello elementare e la
materna?” Domandai curiosa, cercando al contempo di capire come fosse
possibile.
“ Esattamente. Anche se
va ammesso che gli unici che veramente fanno festa siamo noi, e alcune volte
quelli delle medie.” Precisò Daisy, rimasta in disparte fino a quel momento.
“ E in cosa
consisterebbe?” Chiesi ancora. Purtroppo per me in quel momento suonò la
campanella ed entrò il professore. Il tutto si rimandava ad ora di pranzo.
“ Una prova di
coraggio?” Domandai perplessa e confusa.
L’ora di pranzo, dopo
una mattinata che di soporifero aveva avuto tutto, finalmente era arrivata. E
visto che il vento si era un po’ calmato avevamo deciso di goderci il tiepido
sole di ottobre che faceva capolino dalle nuvole, mangiando così in giardino. E
tra un boccone e l’altro i ragazzi mi avevano raccontato cosa fosse questa
fantomatica festa di Halloween che da quella mattina era sulla bocca di tutti.
“ Sì. In poche parole
ogni istituto organizza una prova di coraggio per gli studenti, con la
collaborazione di tutti. I bambini delle elementari la organizzano per quelli
della materna; quelli delle medie per quelli delle elementari; e noi per quelli
delle medie. Ogni classe di un istituto si prende la responsabilità di una
classe dell’istituto inferiore e poi si gioca. Delle 21.00 in poi, a blocchi orari
diversi così che i bambini della materna siano i primi a finire e i primi ad
andare a dormire.” Mi spiegò Daisy, arricchendo il discorso di gesti. Gli altri
ascoltavano ridacchiando, probabilmente memori degli Halloween passati.
Era una bella
iniziativa, pensai in quel momento. Portava i ragazzi a collaborare tra di
loro, e a interagire con i più piccoli. Cancellava, almeno per una notte, la
differenza d’età.
“ E a noi chi prepara la
prova di coraggio?” Chiesi addentando una mela, curiosa.
“ I professori. Con
l’aiuto di qualche ex alunno.” Disse Seiya divertito. Riconobbi immediatamente
quel suo ridacchiare.
“ Fammi indovinare: Ikki,
Hyoga e Shiryu sono tra gli ex studenti.”
“ Ikki è presente da due
anni. L’anno scorso ci ha fatti ammattire. Shiryu e Hyoga hanno promesso che
quest’anno non si lasceranno sfuggire l’occasione. Anche Esmeralda ha detto che
vuole partecipare. E a dar man forte c’è sempre mia sorella.” Ammise il
castano, iniziando a sfregarsi le mani.
“ Perché fa così?”
Domandai a Daisy. “ Se ho ben capito saranno gli altri ad organizzare la prova
per noi, non noi a loro.”
“ Seiya è in vena di
vendette. L’anno scorso Ikki ci ha giocato un tiro mancino, e Seiya ha promesso
che gliel’avrebbe fatta pagare.” Disse la ragazza scuotendo la testa.
Probabilmente prevedeva già guai.
Anch’io avrei dovuto
farlo, sebbene per motivi diversi. Avrei dovuto sentire quella stretta allo
stomaco, che mi prendeva sempre quando sentivo che c’era qualcosa che non
andava; ormai si trattava quasi di un automatismo, come se a forza di finire in
guai più o meno seri il mio sesto senso si allertasse da solo.
Ma quella mattina ero
troppo intenta ad ascoltare i racconti degli Halloween passati per poter far
caso ad altre cose. Ero troppo concentrata sulla festa che si sarebbe tenuta di
lì a pochi giorni. Troppo persa nei ricordi di come, anni prima, festeggiavo
quella che in realtà non era una nostra tradizione, ma che era diventata parte
integrante della nostra cultura. Più per un fatto commerciale che per altro.
C’era davvero poco di genuino, se non la voglia di divertirsi indossando abiti
tratti da personaggi dell’orrore, cupi e affascinanti come il mondo dal quale
prendevano vita. Un mondo che affascinava e creava terrore. Un mondo nel quale
mi immergevo ormai solo grazie ad Anna, che si divertita a fare ‘Dolcetto o
Scherzetto’ accompagnata da me. Un mondo che tuttavia mi aveva da sempre
attirata.
Non appena misi il piede
dentro casa Anna mi saltò in braccio, tutta eccitata, iniziando a parlare a
raffica. Della festa di Halloween. A quanto pareva la maestra aveva informato i
bambini della prova di coraggio, e mia figlia sembrava gradire l’idea.
“ Ci sarai anche tu,
mamma?” Mi chiede ad un certo punto, guardandomi implorante.
“ Certo che sì. Sai,
anche a noi organizzano la prova di coraggio.” Le spiegai prima di darle un
bacio e appoggiarla a terra. “ Forza. Ora fila a finire i tuoi disegni che tra
un po’ si cena.”
Guardai mia figlia
trotterellare via e solo dopo mi accorsi di Mylock, intento a fissarmi serio.
Era ritto in piedi, rigido come una statua di marmo. La cosa non mi piaceva
affatto. Che avesse qualcosa contro la partecipazione mia e di Anna alla festa
di Halloween?
“ Cosa c’è?” Gli
domandai dopo un attimo, sconfitta. sapevo perfettamente che se non avessi
iniziato io il discorso, lui sarebbe rimasto in quella posizione ancora a
lungo. E questo, a rigor di logica, significata che qualunque fosse la notizia
che l’uomo stava per darmi non era piacevole.
“ Stamani è arrivata
questa, Milady.” Mi disse dopo un attimo porgendomi una busta. La presi
insicura.
Era bianca, chiusa da un
sigillo in cera lacca. Il mio cuore perse un battito. No! Non di nuovo! Perché?
Perché non mi lasciavano in pace? Cosa volevano ora da me?
“ Proviene dalla
famiglia Solo.” Borbottò Mylock, non troppo entusiasta.
Lo sapevo perfettamente:
il sigillo impresso era inconfondibile. E questo riuscì ad agitarmi ancora di
più. Per questo esitati per un momento, prima di decidermi e lacerare la busta
con le unghie. Non era impazienza la mia. Era rabbia.
“ All’attenzione
dell’illustre Contessa Isabel Kido.
Sono lieto
d’invitarla al Ballo che si terrà in onore dei
miei 20 anni, il giorno 27 ottobre, a Villa
Solo.
Mi auspico la
sua partecipazione.
Cordialmente,
Julian Solo”
Tutto l’invito era stato
scritto con una calligrafia, eccetto il nome del mittente, chiaro segno che
Julian aveva firmato a mano, figlio dopo foglio. Quanta pomposità! Come se la
carta pregiata, in color avorio, e la chiara presenza di una stilografica di un
certo livello a scrivere quelle parole non fossero già abbastanza. Ma con
Julian Solo era così: lui ostentava, sempre e comunque. Come tutti in quel
mondo.
Rimasi a fissare il
biglietto per un tempo incalcolabile, stringendolo sempre di più tra le dita.
La rabbia, dentro di me, stava montando sempre più ferocemente. Prendere quel
pezzo di carta e farlo a pezzetti tanto piccoli da rendere impossibile un loro
rimodellamento sarebbe stato estremamente appagante in quel momento.
“ Milady.” Il richiamo
secco di Mylock, improvvisamente, mi riportò alla realtà. “ Dovrebbe andarci.”
Disse a bassa voce, quasi stesse azzardando un consiglio non richiesto. E
questo m’incuriosì.
“ E perché dovrei?”
Domandai dura, fissandolo dritto negli occhi. Cosa mi stava nascondendo? Cosa
non mi voleva rivelare?
“ Sarebbe giusto che lei
presenziasse, in qualità di Contessa Kido. È un suo obbligo visto il ruolo che
lei ricopre all’interno del…”
“ Mylock! La verità!”
Chiosai secca, bloccandolo. Stava sproloquiando a vuoto, e questo accentuava il
fatto che c’era qualcosa che non voleva dirmi. E la cosa mi stava facendo
imbestialire.
L’uomo davanti a me mi
fissò intensamente, preoccupato e indeciso. Poi sospirò.
“ Non è un mio diritto,
Milady. Non posso dirle io, la verità. Ma ritengo giusto sia lo stesso Julian
Solo a raccontargliela. La prego. Presenzi a quel ballo.” Mi supplicò alla
fine, gli occhi lucidi.
Ufficialmente: c’era
qualcosa di grosso in quella storia.
“ E va bene. Così sia.
Andrò a questo cavolo di ballo.” Cedetti alla fine, più per curiosità che per
altro. Mylock sospirò, sollevato. “ Ma sappi che non mi prendo la
responsabilità delle mie azioni. Quindi regolati di conseguenza.” Aggiunsi
superandolo, lanciandogli un sassolino che lui solo avrebbe potuto raccogliere.
Anche se non si parlava
proprio apertamente, con Mylock c’era ormai la certezza che lui avrebbe
ascoltato i miei silenzi, e scavato nelle mie parole. E se un tempo l’uomo si
sarebbe comportato da impeccabile maggiordomo, sempre pronto a servire e
riverire, ora invece di quell’ossequiosità era rimasto ben poco, se non granelli
difficili da cancellare perché troppo radicati. Ero diventata quasi una figlia,
per lui. L’affetto che nutriva per me e per Anna era qualcosa di immenso. E per
quell’affetto, e per l’appoggio che continuava a darmi anche se a modo suo, non
potei che ringraziarlo silenziosamente.
Mi guardai allo specchio
e questo mi rimandò un’immagine spezzata.
Avevo una faccia
orrenda. Gli occhi erano circondati da pesanti occhiaie blu e la pelle era
pallida, più del solito. Chiunque avrebbe intuito che quella notte non avevo
chiuso occhio.
Per una volta il motivo
non erano stati gli incubi, o la stretta allo stomaco che mi procuravano i
ricordi. No, era stata la rabbia a togliermi il sonno. Quella viscerale,
dirompente e tuttavia sottile rabbia; quella che non sfociava nella furia, ma
rimaneva in bilico, sospesa, facendoti sempre credere che l’esplosione fosse
vicina, ma non facendola mai arrivare. Era stancante. Era deleterio. Era
snervante. La rabbia non mi offuscava la vista, portandomi ad azioni che
altrimenti non avrei mai compiuto. Quello lo faceva la furia. La rabbia mi
lasciava la coscienza di me stessa, facendomi ragionare invece che sragionare.
La rabbia era utile, così come la paura. Fino a quando queste emozioni non
sfuggivano al controllo si rivelavano spesso e volentieri piuttosto versatili nel
loro uso. Ma tenerle sotto controllo era difficile, decisamente sfiancante.
Anche per questo, quella mattina, avevo lo stesso incarnato di uno zombie.
La porta di aprì di
colpo proiettando dentro il bagno le ombre allungate di June e Daisy.
Erano ferme, una con le
mani sui fianchi e l’altra decisamente più composta, e mi fissavano serie.
“ Che c’è?” Chiesi loro
prima di sciacquarmi ancora una volta la faccia con l’acqua fredda. Avevo
sperato nel suo potere rivitalizzante, ma non sentivo alcun effetto positivo.
La stanchezza non accennava a lasciarmi.
“ Stai bene?” Mi chiese
June, mani sui fianchi e cipiglio severo. Quasi assomigliava a me quando
sgridavo Anna. Ridacchiai a questo pensiero.
“ Sto bene. Semplicemente
non ho chiuso occhio, stanotte.” Dissi reprimendo uno sbadiglio, prima di
bagnarmi anche i polsi e il collo con l’acqua. Inutile comunque.
“ Sicura? Hai una
faccia.” Disse Daisy, mimando poi quella che a logica era la mia espressione
quel giorno. Peccato, non le riusciva molto bene.
“ Con quella faccia
sembro un’indemoniata, non una che non ha dormito.” Risi osservando il suo
volto, seguita a ruota da June che non poté esimersi dopo aver visto la
performance dell’amica. Daisy sbuffò infastidita e incrociò le braccia al seno
con stizza, cosa che ci fece ridere ancora di più. “ Sinceramente, ragazze. Sto
bene. Sono solo stanca.” Dissi poi, quando finalmente riuscii a riprendermi
dalle risa.
“ Ma dormire la notte
no, eh?” MI chiese June divertita ed esasperata, scuotendo la testa.
“ In verità a me
piacerebbe dormire, la notte. Ma la cosa risulta difficile quando la gente è
capace di farmi arrabbiare fino a togliermi il sonno.” Sbuffai, prendendo un
pezzo di carta e asciugandomi il viso ancora bagnato. Un moto di stizza mi
colse immediatamente nel ripensare alla lettera di Julian, e mi trovai a
sfregarmi il volto con forse troppa forza.
“ Uh?” Fecero le due
bionde in contemporanea, quasi spaventate all’idea di aver fatto loro qualcosa
di sbagliato. Chissà poi perché l’avevano pensato?
“ Tranquille. Non ce
l’ho con voi.” Le rassicurai sospirando e appoggiandomi al lavandino con la
schiena.
“ E con chi, allora?”
Domandò Daisy, la voce addolcita. A volte, quando faceva così, assomigliava
molto ad una mamma. Il suo volto si scioglieva in un’espressione delicata,
quasi materna. Chissà se anch’io aveva la medesima espressione quando guardavo
Anna.
“ Storia lunga.”
Borbottai a mezza voce, senza troppa voglia di parlarne.
“ Tanto ormai la lezione
è iniziata. Se entriamo adesso la prof ci squarta. E io preferirei vivere
ancora a lungo.” Disse June sorridendo, dopo una rapida occhiata all’orologio.
Immediatamente guardai
anch’io il mio, curiosa di sapere se aveva ragione. Ed era proprio così. La
campanella aveva suonato già una decina di minuti prima, e io non me n’era
neanche accorta.
Mi trovai a sospirare
nuovamente, prima di guardare gli occhi imploranti delle altre due.
Iniziare
a fidarsi, Isabel…
Chissà perché mi risuonarono
nella mente di nuovo quelle parole. A quanto pareva il mini dibattito con
annessa ramanzina di Death a qualcosa era servito, dato che mi rimbombava nella
testa senza darmi tregua. Maledizione a lui.
“ Stasera devo andare ad
un ballo.” Dissi semplicemente.
“ E allora? I balli sono
divertenti. Ed eleganti. E…”
“ Si tratta di un ballo
dell’alta società. Per i vent’anni del figlio del magnate Solo, Julian.”
Specificai, interrompendo il fiume di parole di June. La sua faccia e quella di
Daisy si aprirono in un’espressione di sconcerto quasi comica.
“ E come mai sei stata
invitata anche tu?”
“ Oh. Non dirmelo. Tu
sei quella Isabel Kido? La nipote di Mitsumasa Kido, l’uomo più ricco del
Giappone?” Domandò di scatto Daisy, rispondendo alla domanda della sua bionda
amica che, a quelle parole, mi fissò stupefatta, scuotendo la testa.
“ Già. Pesavi ad un caso
di omonimia?” Le chiesi dopo aver annuito. Immaginavo dall’inizio che fosse
così. Anche perché era difficile credere che qualcuno così in vista frequentasse
una semplice scuola pubblica.
“ Sì.”
“ Sei davvero la
Duchessina Isabel Kido?”
“ Sì, June. Sono io.”
Calò improvvisamente il
silenzio nel bagno. Le due ragazze davanti a me mi guardavano sorprese come mai
le avevo viste. Chissà cosa stavano pensando in quel momento. Io, dal canto
mio, iniziavo a chiedermi se fosse stata un’idea intelligente dir loro la
verità. La loro reazione non mi sembrava propriamente buona. Se non altro non
era stata neanche terribile. Era a metà tra le due.
“ Non capisco.” Sbottò
June ad un certo punto. La guardai senza capire. “ Avevo sentito dire che tutti
i figli degli uomini di politica frequentavano l’Istituto Privato Sanctuary, il
più prestigioso della città. Perché tu studi qui?”
“ Ho frequentato anch’io
quell’Istituto. Fino ad un anno fa.” Spiegai dopo un attimo di silenzio che mi
parve durare un’eternità.
In quel momento avrei
voluto guardarmi allo specchio. E al contempo ne avevo paura. Volevo e non
volevo vedere la mia espressione, la sfumatura che avevano preso i miei occhi.
Riuscivo ad ammettere a me stessa senza problemi che quella scuola, per alcuni
versi, mi mancava; non tanto l’edificio quanto alcune delle persone con cui
avevo condiviso buona parte della mia vita scolastica e non. E tuttavia proprio
questa mancanza mi dava fastidio. Perché erano state proprio quelle persone che
avevo chiamato ‘amici’ a spingermi alla decisione di cambiare scuola, a
parlarmi alle spalle e a disprezzarmi. E tutto questo solo per la presenza di
Anna.
“ Perché te ne sei
andata?” Mi chiese Daisy, rompendo il silenzio che io stessa avevo fatto
cadere. Mi trovai a sollevare lo sguardo all’improvviso, sentendo il tono di
voce con cui aveva posto la domanda. Non c’era scherno, curiosità, divertimento
o la qualsivoglia intenzione di entrare a forza nei miei pensieri. Era una
semplice domanda. Genuina. Tuttavia non fui io a rispondere.
“ È stato per Anna,
vero? È stato per la bambina.” Mi anticipò June, guardandomi dritta negli
occhi.
Già, proprio così. Era
stato per Anna. Come tutto quello che avevo fatto negli ultimi quattro anni.
Era stato per quella bambina dagli occhi verdi, innocenti, che avevo spezzato i
legami che mi ancoravano all’alta società; era stato per lei che avevo cambiato
scuola, districandomi dai fili che mi stringevano quasi soffocandomi alla vita
di persone che ormai mi disprezzavano.
Annuii piano.
E poi fu silenzio. Di
nuovo. Nessuna di noi parlò più, probabilmente tutte e tre perse nei nostri
pensieri che, per qualche ragione, ero certa convergessero in un’unica
direzione.
Mi ritrovai a stringere
i pugni, inghiottendo a forza e facendo violenza su me stessa per non ripensare
a quei giorni. Ingoiai il dolore. No, non dovevo permettere che mi prendesse.
Sapevo che non sarei riuscita a controllarlo. Troppi ricordi riuscivano ancora
a farsi strada nella mia mente, ed era devastante sapere che erano pregni di
felicità e innocenza. Sì, ero stata felice nonostante tutto. E questo rendeva
il tutto più difficile.
“ Isabel!” Il semi urlo
di June mi riportò con i piedi per terra. La fissai perplessa. “ È mezz’ora che
ti chiamo!”
“ Scusami. Stavo
pensando. Che c’è?” Le chiesi poi, seriamente curiosa di sapere con cosa se ne
sarebbe saltata fuori stavolta.
“ Hai già un vestito per
stasera?” Brutta, bruttissima domanda. Davvero pessima.
“ Ho appuntamento per
questo pomeriggio al ‘Roses’.
Perché?”
Il ghigno che spuntò
sulle labbra di June non mi piacque affatto, ma fu la risposta alla mia
domanda. Una risposta indiretta, ma decisamente comprensibile. E ne ebbi paura.
“ Noi veniamo con te.”
Eravamo davanti al Roses già da un paio di minuti, ma io
non mi decidevo ad entrare. June e Daisy, invece, non vedevano l’ora. Poco
prima avevano piantato Seiya e Shun con una scusa molto poco plausibile e poi
mi avevano trascinata via, nel senso stretto del termine.
“ Allora? Stiamo qui a
fare la muffa o entriamo?” Domandò June, elettrizzata. Quanto avrei voluto
avere il suo stesso entusiasmo. Proprio come la prima volta che avevo messo
piede dentro quell’atelier.
Non appena entrammo due
cose mi colpirono immediatamente: la quantità smisurata di abiti, di tutti i
tipi e colori e per tutte le occasioni, e l’intenso profumo di rosa. A quanto
sembrava i gusti di Aphrodite non erano cambiati affatto.
Mi voltai leggermente
verso le miei due bionde amiche e le trovai a guardarsi intorno ammirate, con
gli occhi che quasi luccicavano davanti a tutti quei vestiti splendidi. O
meglio, solo alcuni erano splendidi. Altri erano dei veri e propri obbrobri.
Almeno questo era quello che il mio senso del gusto estetico registrò al volo,
dopo aver adocchiato quella che sembrava un’enorme tenda piena di balze, più
che un vestito.
“ Ma non c’è nessuno?”
Domandò Daisy, ancora guardandosi intorno. Le sorrisi tranquilla.
“ Ad Aphrodite piacciono
le entrate in scena. Vedrai che arriverà.”
Quasi l’avessi evocato
un uomo si fece avanti alla scala a chiocciola che stava sulla destra. Lunghi
capelli biondo scuro inframezzati da ciocche azzurre, occhi chiari, rossetto
sulle labbra e neo sotto l’occhio sinistro. Indossava un paio di pantaloni
scuri e una camicia color glicine, sbottonata, con tanto di foulard bianco
intorno a collo e scarpe coordinate. No, non era proprio cambiato.
“ Isy! La mia piccola
Isy!” Esclamò non appena mi vide, venendomi incontro a passo svelto e
serrandomi in un abbraccio caloroso, di quelli che mi aveva riservato ogni
volta che ero entrata nel suo negozio.
“ Ciao Aphro.” Dissi
stringendolo a mia volta, respirando il suo profumo di rosa. Mi era in qualche
modo mancato quel profumo, così come mi era mancato quel bizzarro individuo che
a volte sembrava essere uscito da qualche tavola dei fumetti. Era sempre stato
particolare, Aphrodite, già dal nome che usava nell’ambiente che era suo.
Aphrodite, il nome della Dea dell’Amore e della Bellezza. E lui inneggiava alla
bellezza, la considerava la forma più sublime dell’arte. E c’era così tanto
amore in ogni vestito che creava. Era una sorta di esteta, anche se decisamente
più moderato di quelli del tempo passato.
Sciolse il nostro
abbraccio e mi prese le mani.
“ Quando la mia
segretaria ha preso l’appuntamento non mi ha detto che sarebbe stato per te.
Grazie a Dio! Non ne posso più delle ragazzine che si presentano qui dentro
chiedendo null’altro che abiti pomposi e decisamente scollacciati. Oppure le
signore anziane che credono ancora di essere ventenni e pretendono di portesi
vestire come se lo fossero. E gli uomini sono anche peggio. Grazie a Dio!
Almeno tu hai buon gusto per quanto riguarda la moda e la decenza.”
Risi apertamente allo
sproloquio dell’uomo, ben sapendo a cosa si riferisse. Le feste dall’alta
società avevano sempre più iniziato ad assomigliare ad una sorta di indecorosa sfilata
di moda, o ad un carnevale di pessimo gusto. Era comico vedere come certa gente
si agghindasse, risultando solamente ridicola.
“ Tranquillo: conosci i
miei gusti.” Lo rassicurai stringendogli le mani e sorridendogli. “ Ah, loro
sono June e Daisy, due miei amiche.” Dissi poi, voltandomi e facendo le
presentazioni.
“ Incantato, signorine.
Io sono Aphrodite, stilista e creatore di ogni abito che vedrete in questo
atelier. È per me un onore fare la vostra conoscenza. Siete compagne di
classe?” Si presentò l’uomo esibendosi in un inchino e poi in un baciamano
degno dei gentiluomini di altri tempi.
“ Piacere nostro. Sì,
siamo compagne di classe.” Confermò June, con un sorriso frizzante, imitata da
Daisy. Almeno non dimostravano reticenze verso Aphro, cosa che succedeva spesso
e volentieri. Un po’ per il suo atteggiamento egocentrico, un po’ per la sua
omosessualità. Anzi. Sembravano averlo preso in simpatia.
“ E ditemi, mie care,
Isy si comporta bene? Niente marachelle?”
“ Aphro! Per chi mi hai
presa?” Sbottai divertita, mettendomi le mani sui fianchi e guardandolo
fintamente male.
“ La tua capacità di
combinare guai è proverbiale. I tuoi scherzi qua e là sono storia vecchia, mia
cara ragazza.” Si difese lui, guardandomi di sottecchi decisamente divertito.
Io sbuffai prima di rifilargli una linguaccia.
“ Oh, non c’è da
preoccuparti. Isabel si comporta benissimo.” Mi venne in soccorso Daisy, sorridendo
affabile.
“ Davvero? Sono
realmente sorpreso.”
“ Guarda che sono una
mamma, adesso. Devo dare il buon esempio a mia figlia.”
“ E come sta la
piccolina? È un secolo che non la vedo.” Domandò Aphro, con un sorriso
dolcissimo. Quell’uomo era innamorato di Anna, e spesso e volentieri l’aveva
usata come modella in miniatura quand’era più piccola. Sorrisi anch’io.
“ Sta bene, grazie. È
rimasta lo stessa diavoletta che ricordi.”
“ O Dei del Cielo.
Ricordo che una volta è riuscita a mettere a soqquadro tutto l’atelier. Ancora
mi chiedo come una bimba di tre anni possa esserci riuscita. Che confusione
quella volta.” Esclamò in modo molto teatrale, ripensando a quanto era successo
circa un anno prima, in quello stesso negozio.
“ E ti ricordi anche che
abbiamo perso quasi sei ore a rimettere tutto a posto? Che faticaccia quella
volta.” Risi io. Sì, era stata davvero una faticaccia. Ma alla fine, ormai a
notte fonda, ci eravamo trovati soddisfatti del nostro lavoro.
“ Sono cose che non si
dimenticano. Ma ora passiamo oltre.” Affermò Aphro prima di abbracciare
l’interno negozio con un gesto delle mani. “ Siete nel più grande atelier di
tutta Tokio. Qui dentro troverete abiti per ogni gusto, età e occasione. E
allora ditemi, qual è questa occasione?”
Ridacchiai piano di
quella sua teatralità mentre June e Daisy sembravano aver bisogno di un attimo
per riprendersi da tutto quello che avevano sentito e visto.
“ L’occasione è il ballo
che si terrà a Villa Sounion per i vent’anni di Julian Solo.” Spiegai ad Aphro,
divertita da cosa avrebbe detto non appena avrebbe sentito il nome di Julian.
“ Oh! Miei Dei! Un altro
ballo che quel bimbetto viziato organizza. Ho paura di sapere cosa ne verrà
fuori questa volta. Prevedo già uno scempio di gusto ed estetica.” Disse il mio
amico, portandosi una mano sugli occhi. Noi tre ragazze non potemmo che
scoppiare a ridere. “ Ma dimmi, Isy, quand’è il ballo?”
Aphro mi avrebbe uccisa.
Quando avrebbe saputo del poco tempo che avevamo mi avrebbe sicuramente uccisa.
Odiava lavorare in velocità. Diceva che la ricerca dell’abito giusto era come
dipingere un quadro o scolpire una statua o comporre con la musica; qualcosa
che richiedeva tempo, pazienza, passione e dedizione.
“ Stasera…” Dissi piano,
preparandomi mentalmente alla scenata che ne sarebbe seguita. E come volevasi
dimostrare mi fissò stupefatto e orripilato.
“ Stasera? Dei del
Cielo! Non c’è tempo.” Esclamò scuotendo la testa con diniego.
“ Aphro, per favore. Già
non ho troppa voglia di andarci. Ti prego di non darmi una buona motivazione
per far arrabbiare Mylock. Non so perché ma ci tiene davvero.” Lo pregai
svelta, sperando che servisse.
“ Ma per te, Isy, ce la
faremo. Hai un fisico perfetto e un ottimo gusto. Sono sicuro che troveremo un
abito meraviglioso. E poi qui con te ci sono le tue amiche. Ditemi, mie care,
vorreste aiutarmi in quest’impresa?” Chiese poi Aphrodite rivolgendosi a June e
Daisy, che rimasero entusiaste dell’idea.
O.Miei.Dei. Sì, era una
frase di Aphro, ma in quel momento non potei che ripetermela anch’io nella
testa. Avevo già sperimentato l’entusiasmo delle due ragazze quando si trattava
di fare le stiliste e, per quanto fosse servita una grossa dose di pazienza,
ero sopravvissuta alla grande. Il problema andava a crearsi nel momento in cui
a quelle due ci si aggiungeva Aphro: su una scala da uno a dieci il mio amico
era mille volte peggio di loro. E sommandoli tutti e tre insieme ebbi la
sgradevole sensazione che sarebbe stato un pomeriggio estenuante.
Ero comodamente seduta
su un divano rosso bordeaux, gambe accavallate e un flûte di ottimo champagne
in mano. Tutto regolare per quel posto, insomma.
Sì, io me ne stavo lì,
comoda, e June, Daisy e Aphro si erano infilati tra le migliaia di abiti alla
ricerca di un vestito che potesse andarmi bene e che, soprattutto, mi piacesse.
Ardua impresa per loro.
Bevvi un sorso di
champagne e mi guardai intorno con dolce famigliarità. Lì dentro tutto era
rimasto uguale. Specialmente nella mansarda sopra l’atelier in cui Aphro ci
aveva condotto. Stesse pareti color panna, marmorizzate; stesso parquet di
legno chiaro, tirato a lucido; stessa fila infinita di specchi senza ombra di
un solo alone; stesso intenso aroma di rosa. Stare lì dentro era un po’ come
stare a casa. Quel posto mi trasmetteva calore, passione e tranquillità. Mi faceva
strano esserci di nuovo, e non riuscii a non rilassarmi ripensando a tutti i
pomeriggi passati lì, a scegliere abiti e a ridere con Aphro e Sara.
“ Eccoci qua!” Esclamò
June, arrivando seguita a ruota da Daisy e Aphrodite. Avevano tutti e tre le
bracca cariche di abiti, cosa che mi spaventò non poco.
“ Avete saccheggiato
l’intero atelier?” Domandai cercando di metterla sul ridere, ben sapendo che
quella non era che un piccola parte della quantità di vestiti presenti lì
dentro.
“ Questi sono bazzecole,
Isy mia cara.” Mi sorrise Aphro, con un gesto della mano. “ Iniziamo subito a guardarli.
Non abbiamo tanto tempo. Mia cara June, vuoi iniziare tu?”
“ Certamente! Che ne
dici di questo?” Mi chiese la bionda mostrandomi un vestito blu chiaro, corto.
“ No. No. Quello non va
bene. È una ballo, cara ragazza. Non sono ammessi abiti corti. Solo abiti
lunghi fino a terra. Con alcune eccezioni per le persone più anziane.” La
riprese immediatamente Aphro, venuto a sedersi accanto a me, spiegandole alcuni
dei concetti alla base delle feste dell’alta società.
“ Ah. Ok. Certo che ce
ne sono di regole.” Disse la bionda mettendo via il vestito e guardandomi
perplessa.
“ Più di quante tu possa immaginare.”
Borbottai divertita, ripensando alle lezioni che avevo dovuto seguire quand’ero
piccola.
“ Passiamo a questo,
allora.”
Un abito lungo, bianco
candido, con scollo a cuore e la gonna che si apriva ampia verso terra.
“ Non mi devo mica
sposare.” Ridacchiai divertita.
“ E poi il bianco non va
bene.” Scosse la testa Aphro.
“ Perché?”
“ Vedete, mie care
ragazze, il bianco è un colore estremamente complesso. Molto difficile da
portare. È probabile vederlo addosso ad una bambina, ma su una giovane donna
può stonare molto. È il colore dell’innocenza e della genuinità; per questo, un
tempo, le donne si sposavano in bianco: erano immacolate, illibate, non avevano
conosciuto il tocco di un uomo. Il bianco simboleggiava la verginità della
novella sposa. Ora ovviamente tutto questo concetto è andato perduto, ma la
tradizione è rimasta. E tuttavia è ancora il colore dell’innocenza. Ed è
difficile da indossare per un donna.” Spiegò ancora una volta Aphro, con un
sorriso. Era questo che adoravo di lui. Sapeva davvero consigliare, perché
conosceva ogni colore e ogni sfumatura delle cose.
“ Sinceramente parlando
non me la sento di indossare un abito bianco.” Dissi a mia volta, scuotendo la
testa.
“ Va bene. Questo?”
Un abito stavolta rosa
confetto, con le spalline strette e una vaporosa gonna.
“ Non ho sei anni. E non
sono una principessa Disney.”
“ Il rosa è il colore
dall’infanzia per le bambine. Isy è ormai una giovane donna.”
“ Questo?”
Un abito nero, a maniche
lunghe, con le braccia in pizzo e la gonna che da sotto il ginocchio diventava
trasparente.
“ A metà tra una suora e
una prostituta?”
Ridemmo tutti di quella
mia battuta, divertiti.
“ Questo?”
Un abito rosso fuoco,
monospalla, con l’unico braccio presente in pizzo e leggere grinze sulla zona
del seno per poi scendere morbido lungo tutta la linea.
“ Rosso? Non è proprio
il mio colore.”
“ Il rosso è il colore
della passione. Dubito che tu ti senta così passionale, mia cara Isy.”
“ Questo?”
Un abito verde
bottiglia, con lo scollo a cuore e un amarcord di brillanti lungo la linea
della vita.
“ No. No. Non mi piace
affatto per te.” Negò Aphro convinto.
“ Questo?”
“ Che è? L’abito di
Cenerentola?”
“ Questo?”
“ Un tendone rosa e
bianco.”
“ Questo?”
Un vestito blu, tutto d’un pezzo e con il collo alto.
“ Non vado mica in
convento.”
“ Questo?”
Un vestito color oro,
luccicante come pochi, con lo scollo anch’esso a cuore e la vita stretta.
“ Troppo pacchiano. E
poi odio il modello a sirena.”
“ Questo?”
Un abito azzurro, in
stile impero e senza maniche, che scendeva fino a terra finendo poi in piccole
balze.
“ Con questo sembrerei incinta.”
“ Questo?”
Un abito nero, in pelle,
con il collo di pelo bianco.
“ Stiamo scherzando?”
“ No. No. Isy è contro
la vera pelle e il vero pelo. È un’animalista.”
“ Mi considero una
persona sensibile, Aphro.”
“ Non è quello che ho
detto?”
“ Questo?”
“ È da strip club.”
“ Oddio!” Sbottò June,
seduta a terra, mentre cercava di uscire dal cumulo di stoffe e vestiti nel
quale si era incastrata.
“ Altro che gusti
difficili. Tu hai gusti impossibili.” Disse Daisy, mezza svaccata sul
divanetto. Io feci spallucce. “ Mi sa che qui dobbiamo arrenderci. Non abbiamo
trovato assolutamente nulla. E siamo qui da due ore.”
Già, avevamo perso ben
due ore a guardare abiti e poi a scartarli. Non ce n’era uno che mi piacesse o
anche solo m’ispirasse qualcosa. June e Daisy erano decisamente a pezzi: non
credevano che sarebbe stata così dura. Stavano iniziando a gettare la spugna.
“ Ah. Trovato.” Esultò
improvvisamente Aphro, apparendo alle mie spalle. Quando diavolo se n’era
andato? Aveva tra le mani la custodia di un abito, e un sorriso trionfante
sulle labbra.
“ Cos’è?” Chiesi
avvicinandomi imitata dalle altre due ragazze. Aphro mi guardò attentamente.
“ L’ho disegnato e
realizzato molto tempo fa. Un’ispirazione improvvisa. Ma non ho mai avuto cuore
di mostrarlo a qualcuna. Nessuna sembrava adatta ad indossarlo. Però sono certo
che sarà perfetto su di te. Avanti. Provalo mia cara.”
Presi l’abito e mi
diressi nel camerino. Non appena aprii la custodia e lo vidi pensai che fosse
bellissimo. Semplice, privo di fronzoli e delicato come nessun altro vestito
che avevo visto. Me lo infilai facendo attenzione e presi ben presto a litigare
con la cerniera sulla schiena. Ma perché sempre sulla schiena dovevano
metterle?
“ Isy, tesoro, vuoi una
mano?” Mi venne in soccorso Aphro, bussando alla porta.
“ Sì, grazie. Non riesco
a chiuderlo.”
Un secondo dopo Aphrodite era già entrato e mi aveva chiuso la cerniera.
“ Ti sta davvero
d’incanto, mi cara.” Sussurrò guardando nello specchio, le mani appoggiate
sulle mie spalle.
Era un abito rosa antico
che scendeva dolcemente lungo tutta la mia figura, mettendo in risolto le mie
forme senza mai scivolare nel volgare, inframezzato da intarsi di stoffa nera a
dargli un che di aggressivo. Era davvero una meraviglia.
“ Perché proprio questo
vestito?” Chiesi improvvisamente al mio amico guardandolo attraverso lo
specchio. Ero certa che non l’avesse scelto a caso. Lui non sceglieva mai un
abito a caso.
“ Perché credo di averlo
inconsciamente disegnato per te.” Ammise Aphro, guardandomi con dolcezza. “ Si
tratta di un abito di un color pastello, molto delicato, messo in evidenza dal
nero che ne smorza la monotonia. È un abito stretto ma non attillato, che segue
con dolcezza la tua fisionomia. Un abito elegante e seducente al tempo stesso.
Un abito perfetto per la donna che vedo in te e che sta lentamente e
gentilmente sbocciando. Sei in quell’età di mezzo, Isy, dove i più grandi ti
considerano una bambina e i più piccoli una donna. Ma non sei nessuna di queste
cose. Lo vedo dai tuoi occhi. Non sei ancora davvero un donna, anche se hai
affrontato prove che avrebbero piegato qualsiasi adulto. E nonostante il dolore
sei ancora gentile, hai ancora una bontà d’animo così profonda e sottile al
contempo. È ora di mostrarlo al mondo, quello che sei. Quello che sei diventata.
E io spero che questo abito possa aiutarti proprio in questo.”
Mi volta di scatto e lo
abbracciai. Aphro aveva visto dove nessun altro era arrivato. Mi aveva
osservata e aveva scavato dentro i miei occhi.
Lo abbracciai con quanta
forza avevo in corpo e lui rispose allo stesso modo. Non ci furono lacrime. La
nostra commozione si evidenziava dai nostri sguardi, così com’erta stato un
tempo.
“ Vieni. Facciamo vedere
alle tue amiche quanto sei bella.” Mi sussurrò dolcemente lui, aprendomi la
porta del camerino e porgendomi la mano per accompagnarmi.
“ UAO!”
Questo fu quello che
urlarono June e Daisy in sincrono non appena uscii dal camerino.
“ Sei bellissima.”
“ Una meraviglia. Davvero”
“ Grazie ragazze.” Dissi
loro, avvicinandomi. “ Per tutto. So che non è stato facile sopportarmi per
tutto il pomeriggio. Vi ho fatte impazzire a forza di scartare abiti con
battutine.”
“ Se devo essere sincera
mi sono divertita come una pazza. Hai un senso dell’ironia incredibile. Ancora
un po’ e mi soffocavo tra le risate.” Disse Daisy, ridacchiando. E ripensando a
tutto quello che avevo detto scoppiai a ridere anch’io, seguita a ruota da June
e Aphro.
“ Grazie ragazze.”
Sussurrai quando smisi di ridere.
Fu un attimo. Quasi non
me ne accorsi. Le due ragazze ci gettarono su di me e ci trovammo a stringerci
tutte e tre in un abbraccio carico di calore e amicizia, come non ne sentivo da
tempo. forse Death aveva ragione; forse iniziare a fidarsi degli altri non era
poi una cosa così terribile. E per la prima volta dopo quattro anni ebbi la
certezza di aver trovato due amiche. Due vere amiche.
Scansai un braccio e lo
tesi verso Aphro, invitandolo ad unirsi a noi. Un secondo dopo da tre eravamo
diventati quattro.
Era così bello. Così
piacevole. Così intenso.
Quando ci staccammo
ridevamo tutti, forse un po’ scioccamente.
“ Sai, Isabel… Io non so
perché tu sia così reticente all’idea di andare a questa festa. Immagino che le
persone che vedrai stasera tu le conosca bene. E in qualche modo intuisco anche
che ti hanno fatta soffrire. Però…” June si bloccò un attimo, abbassando lo
sguardo e prendendo un grosso respiro. Quando rialzò gli occhi però, in essi,
leggi il divertimento. “ Però stasera falli a pezzi. Tutti.”
E scoppiammo a ridere di
nuovo.
Quel pomeriggio era
servito a qualcosa. Mi sentivo più serena, e avevo la sensazione di poter
affrontare qualsiasi cosa. Mi sentivo davvero forte per la prima volta dopo
tanto tempo.
Villa Sounion era
proprio come la ricordavo. Enorme. Sfarzosa. Piena di niente e vuota di tutto.
Ci avevo messo
relativamente poco a prepararmi. I capelli li avevo lasciati scioli, acconciati
il morbidi boccoli che scendevano sulle spalle; il trucco era leggero e
nonostante questo sofisticato, tanto che quella sera ero certa di dimostrare
qualche anno in più dei miei diciotto.
Mi ero avviata a passo
spedito verso la sala in cui si sarebbe tenuta la festa. Non volevo essere lì,
e prima avessi scoperto cosa fosse tutto quel mistero che Mylock aveva fatto
aleggiare prima me ne sarei tornata a casa.
Me ne stavo in cima alla
scalinata principale, aspettando solo che venisse annunciato il mio nome.
Sapevo perfettamente come funzionava: l’intera sala si sarebbe voltata a
fissarmi, con occhi da avvoltoi e la derisione e il disgusto luccicanti negli
sguardi. Sospirai a fondo. Alla fine della scala Mylock mi aspettava immobile,
in silenzio. Sapevo perfettamente che il motivo principale per cui era lì era
sorreggermi una volta che la mia discesa fosse finita.
“ La Duchessa Saori
Kido.”
Eccolo il momento. Un
numero imprecisato di occhi si voltarono a fissarmi, interrompendo quello che
stavano facendo. Il vociare basso si propagò all’istante.
Respirai a fondo e poi
aprii gli occhi iniziando a scendere le scale.
Sguardo
duro. Testa alta. Sii fiera e incrollabile. Non mostrare loro nient’altro che
la tua superiorità. Guardali e non guardarli. Scivola sui loro volti e sulle
loro parole con disinteresse. Nessuno è più forte di te.
Quel mantra quasi
arrogante me lo ripetei lungo tutta la discesa. Sapevo che dovevo fare così,
come Sara mi aveva detto tanto tempo prima. Sapevo che dovevo farlo per il
semplice fatto che così sarei riuscita a lasciare fuori tutto e tutti; niente e
nessuno sarebbe entrato, e il mio sguardo sarebbe stato una difesa
inespugnabile.
Non appena arrivai
all’ultimo gradino Mylock si fece avanti porgendomi la mano e accompagnandomi
prima in mezzo alla sala e poi in un angolo più tranquillo. Non appena ci
arrivammo lasciò la presa e respirò a fondo.
“ E anche questa è
andata.” Borbottò più tranquillo.
“ Pensavo molto peggio.”
Dissi seriamente stupita.
“ Meglio che sia andata
così.”
“ Perdonate la mia
intrusione.” Una voce ci fece voltare entrambi. Davanti a noi, nella sua piena
alterigia, stava Julian Solo. Capelli lunghi e chiari; occhi azzurri come il
mare; completo bianco tirato a lucido. “ Mi dispiace interrompere, ma vorrei
chiedere alla signorina Kido di farmi il piacere di seguirmi.”
Dio! Neanche ero
arrivata a lui già voleva avere tutta la mia attenzione. Quando si dice essere
egocentrici.
“ Ma certo, Mr. Solo.
Siamo venuti qui solo per questo.” Disse Mylock, guardando il ragazzo con
qualcosa nello sguardo che non riuscii a decifrare e poi rivolgendo un inchino
prima di farsi da parte.
“ Allora, Milady,
vogliamo andare?” Mi chiese Julian porgendomi la mano. Mano che osservai per
una manciata di secondi prima di iniziare ad incamminarmi verso la terrazza che
dava sul cortile. Se davvero dovevamo parlare e forse addirittura discutere era
meglio farlo in un luogo appartato, il più lontano possibile dal resto degli
invitati. Avevo promesso che non avrei fatto scenate o quant’altro, ma la
prudenza non era mai troppa in certi casi.
Sentii Julian alle mie
spalle ridacchiare piano prima di venirmi dietro. In quel momento lo associai
ad un cagnolino.
Fu in quel momento, nel
breve tragitto verso il terrazzo che notai qualcuno che mi stava fissando più
insistentemente degli altri. Una donna dai capelli scuri e gli occhi chiari,
stretta in un abito color cielo e agghindata con diamanti. Loren Solo, la madre
di Julian. Mi stava guardando senza preoccuparsi di risultare maleducata. E
c’era qualcosa in quello sguardo. Sembrava dolore, che si mescolava al rimorso
e al rimpianto. Perché mi guardava con quegli occhi?
Arrivammo sulla terrazza
e io mi appoggiai al parapetto incrociando le braccia sotto al seno. Fissai
Julian negli occhi, seria e diretta. Volevo sapere cosa ci fosse sotto, e il
prima possibile.
“ Non trovi che sia
proprio una bella serata?” Mi chiese lui, sorridendomi sensuale.
Nel corso degli anni non
era cambiato. Sempre con quel sorriso tentatore e i modi da abile seduttore,
per i quali molte ragazze erano cadute ai suoi piedi. Peccato che con me non
attaccasse. Julian aveva una doppia faccia, come tutti in quel mondo dopotutto.
E a me quella faccia che sempre nascondeva dava fastidio.
“ Julian. Non sono qui
per fare conversazione con te. Al contrario tuo non passo la giornata a girarmi
i pollici o ad oziare perché ogni notte non torno a casa visto che sono fuori a
fare baldoria. Vado a scuola, ho una figlia di cui occuparmi e sai, di tanto in
tanto, devo anche gestire la Fondazione. Quindi perdonami se sarò troppo
diretta, ma vai subito al dunque e non girarci intorno perché sono stanca, e in
questo momento vorrei solo essere a casa a dormire. Ah, e le tue tattiche per
sedurmi puoi anche ingoiartele: non attaccano.”
Julian si voltò a
guardarmi per un secondo prima di scoppiare a ridere. Ecco, forse avrebbe
iniziato a fare sul serio.
“ Quello che dicono di
te è vero. Non sei una persona molto paziente.” M’istigò, divertito.
“ Ti sbagli. Mi reputo
una persona estremamente paziente. Tranne nel momento in cui vengo praticamente
obbligata a partecipare ad una festa verso cui non nutro interesse alcuno solo
perché c’è qualcosa di cui devo essere messa al corrente. E a quanto pare sei
tu quello che mi deve informare. Una semplice telefonata no, eh?” Gli chiesi
poi, ironica, fissandolo con scherno.
“ Non è qualcosa di cui
si possa parlare al telefono.”
Ancora quel sorrisetto.
Avrei tanto voluto elargirgli un sonore pugno in faccia, solo per vedere se la
sua espressione sarebbe cambiata oppure sarebbe rimasta quella di un’imbecille.
“ Sono qui. Quindi dimmi
quello che mi devi dire. E, per favore, se tu riuscissi a farne anche un
riassunto te ne sarei davvero grata.”
A queste parole Julian
mi fissò per un minuto buono, senza smettere di sorridere. Sapevo che aveva
qualcosa in mente. La sua espressione la diceva lunga. Era come se lui fosse
certo di avere una vittoria schiacciante in mano. Ma la vittoria di cosa?
Avevamo forse iniziato un battaglia della quale non ero stata informata?
“ Vuoi che sei diretto,
Isabel? Allora lo sarò. Ma sappi che questo tuo atteggiamento dovrai cambiarlo
a breve.”
“ Ah, davvero? E quando di grazia?”
“ Quando diventeremo
marito e moglie.”
Porca puttana! Porca di
quella grandissima e maledettissima puttana!
Sì, era stato proprio
questo che mi era passato per la testa non appena Julian aveva detto quella
frase.
Lo fissavo con sguardo
fermo, ma non lo vedevo. Mi chiedevo se fosse uno scherzo, di quelli che fanno
spesso alla televisione, e se a breve non sarebbe saltato fuori qualcuno con
una telecamera in mano ridendo come un pazzo. Ma niente di tutto questo
accadde. Rimanemmo semplicemente immobili come due cretini, a fissarci.
Stavo cercando mi
metabolizzare la cosa, ma si stava rivelando un’impresa quasi disperata.
Non riuscivo a capire se
il ragazzo davanti a me scherzasse o se facesse sul serio. E al contempo avevo
la terribile sensazione che fosse tutto vero, e che ancora una volta altri si
fossero arrogati il diritto di decidere me. E questo mi fece imbestialire. Fu
come se tutto il resto fosse improvvisamente scomparso, lasciando posto solo
alla rabbia.
“ Cos’è? Hai per caso
perso la tua lingua lunga?” Mi domandò Julian, rompendo il silenzio ch’era
andato a crearsi. E davanti al suo sarcasmo capii che non sarei riuscita a
trattenermi. No, non avrei fatto una scenata. Avrei fatto qualcosa di peggio
probabilmente.
“ Chi l’ha deciso?”
Chiesi solo, lasciando fuori tutto il resto. Non m’importava più se fosse vero
o meno, perché avevo già capito da sola che lo era.
“ Prego?”
“ Ti ho chiesto chi l’ha
deciso, Julian.” Ringhiai furente, stringendo i pugni così forte che ebbi la
certezza che se avessi continuato le unghie si sarebbero conficcate nella
carne.
“ Ma è ovvio. Tuo nonno,
mia cara. Lui e mio padre hanno siglato il contratto prematrimoniale quando tu
avevi quattordici anni e io sedici. Dovevamo solo aspettare che tu raggiungessi
la maggiore età.” Mi spiegò il ragazzo davanti a me, con noncuranza. Sembrava
che la cosa non lo riguardasse, che non ne fosse coinvolto. “ Oh, non fare
quella faccia. Si tratta solo di affari. Solo di una firma.”
“ Io non sono un affare! Io non sono una firma!” Sbottai alzando gli occhi su
Julian e ancorandolo al terreno. Non mi sarebbe scappato. “ Io sono una
persona. Non sono un oggetto, un pacco postale da spedire qua e là. Sono stata
chiara, Julian?” Gli chiesi poi, melliflua, sentendo qualcosa spezzarsi dentro
di me.
Il ragazzo rimase a
fissarmi, sconvolto. Ma sapevo comunque che avrebbe fatto il passo sbagliato,
che avrebbe detto la cosa sbagliata. E io non vedevo l’ora.
Tutto quello che avevo
sigillato dentro di me per quattro anni stava sbucando fuori ad una velocità
impressionante. E non sarei riuscita a fermarlo. Perché l’altra me, la Isabel
di quei giorni che sembravano distanti come ere geologiche, stava tornando alla
ribalta. E con essa tutta la cattiveria che da sempre avevo covato gelosamente
dentro.
Ma Julian era solo
un’imbecille. E quella sera ne ebbi la prova.
“ Non puoi farci niente.
Ormai è tutto deciso. Noi due ci sposeremo. Non serve che tu finisca la scuola.
Ritirati pure, tanto una femmina con una cultura non è mai servita a nessuno.
E, per favore, trova un collegio o un orfanotrofio abbastanza distante dal
paese in cui mandare quella specie di orripilante mostriciattolo che ti si
attacca alla sottana. Grazie. Non serve a nessuno. E poi avrai tempo per
sfornare degli eredi degni della casata Solo.”
Tutto si era spento.
Vuoto. Perdita. Dolore.
Rancore. Rabbia. Odio. Disprezzo.
Mi si contrassero le
viscere; il mio corpo iniziò a tremare violentemente; un conato di vomito mi
salì lungo la gola; i denti perforarono la tenera carne del labbro inferiore.
Maledetto
bastardo!
“ Cos’hai detto?” Chiesi
in un sussurro, cercando di controllare la voce. Inutile. Ormai avevo raggiunto
il punto di non ritorno.
“ Non hai sentito? Sei
forse sorda?”
“ Tu!” Il sussurro
divenne un sibilo, e vidi Julian immobilizzarsi sul posto, rimanendo voltato di
spalle. “ Piccolo, schifoso essere ignobile. Tu! Cosa credi? Di poter decidere
della mia vita? Credi di avere un qualche valore, un qualche potere che ti fa
stare sopra di me?”
“ Non osare donna!”
Julian si voltò di
scatto, arrabbiato per tutte le offese che gli avevo rivolto. Io le avrei
chiamate verità. Ma non fu quella la goccia che fece traboccare il vaso. No, fu
ben altro.
Il ragazzo sollevò la
mano pronto a colpirmi con un sonoro e doloroso ceffone. Imbecille.
Non ebbe il tempo di
rendersi conto di quanto stava succedendo. Quando il colpo calò su di me io ero
già pronta. Strinsi il pugno destro e irrigidì il braccio per parare; ruotai il
polso e afferrai il suo stringendolo tanto forte da fermare quasi la
circolazione del sangue; andai con la mano sinistra al suo gomito e spinsi su
di questo, obbligandolo a curvarsi per il dolore; sollevai il piede destro e
con la precisione di un cecchino colpii con la punta della scarpa il retro del
suo ginocchio, facendolo crollare a terra tra gemiti e imprecazioni. E tutto
questo nel giro di una manciata di secondi.
“ Non ci provare mai
più! Ho tre titoli nazionali di karatè alle spalle, e un anno intero di difesa
personale.” Gli sussurrai all’orecchio, spingendo ancora di più sul gomito. “
Non azzardarti nemmeno a pensare di potermi colpire, o anche solo toccare. E
non osare mai più parlare di mia figlia in questo modo, o giuro che ti spezzo
le ossa una alla volta.” Diedi un ultimo colpo al gomito e Julian rotolò per
terra, dolorante. Gli voltai le spalle. “ Ah, e non darmi mai più della
puttana. Non sono una delle troiette che ti scopi una notte sì e l’altra anche.
Io so cos’è il rispetto, e so guadagnarmelo. Ma se tu non vorrai darmelo,
allora non c’è problema. Non potrò costringerti a rispettarmi, ma potrò
obbligarti a temermi.”
E l’occhiata di puro
gelo e fuoco che gli lanciai lo fece fremere di paura. Aveva capto che non
stavo scherzando, e che la minaccia che avevo pronunciato l’avrei messa in
atto. Avevo già iniziato, in verità. Perché Julian aveva già iniziato a
temermi.
Un applauso alle mie
spalle mi fece voltare, e davanti a me trovai la figura di una donna anziana,
vestita con un lungo abito scuro e un’espressione soddisfatta. Conoscevo quella
donna, anche se mai avevo avuto modo di parlarle. Era Keiko Solo, la nonna
paterna di Julian.
“ Complimenti.” Disse la
donna rivolgendomi un sorriso. “ E tu, mio caro nipote, vedi di darti una
regolata. Sei davvero una persona di merda.” Chiosò, rivolgendosi al ragazzo e
poi avvicinandomi e prendendomi a braccetto. “ Vieni, mia cara. Sono sicura che
serva qualcosa di forte adesso.” E mi trascinò via non badando alle
imprecazioni di suo nipote.
“ Ah, finalmente sole.”
Esclamò la signora Keiko non appena ci fummo chiuse la porta di uno dei salotti
privati della residenza alle spalle.
Mi guardava con
un’espressione strana, tra il divertito e l’ammirato. Sembrava che non le
importasse che avevo appena rischiato di picchiare a sangue suo nipote. Anzi.
Ne sembrava entusiasta.
“ Qui ci vuole davvero
qualcosa di forte. Lo Champagne non aiuta in questi casi. Che ne dici di uno
Scotch piuttosto? Sai, tengo in questa stanza la mia riserva personale.” Disse
mentre armeggiava con alcuni pensili fino a tirarne fuori una bottiglia dal
liquido ambrato e un paio di bicchieri. “ Prego. Siediti pure. Non mordo mica.”
Ridacchiò poi, vedendomi ancora ferma in piedi come uno stoccafisso.
Le rivolsi un sorriso di
ringraziamento e poi accettai il suo invito a sedermi.
Mentre lei trafficava
con la bottiglia e riempiva i bicchieri io la fissai. Quella donna era
praticamente un’istituzione nel mondo dell’alta società. Anche se erano in
molti quella che la definivano ‘strana’. E in fondo un po’ strana lo era
davvero.
Era diversa dal resto
della sua famiglia. Lei, al contrario loro, non ostentava nulla. Preferiva la
semplicità e la tranquillità.
Di lei avevo sentito
dire molte cose. La prima in assoluto era che fosse un’accanita bevitrice,
ipotesi di cui stavo avendo la prova. La seconda era che dell’alta società lei
disprezzava tutto, dal più grande degli affari commerciali al più piccolo
capello delle persone. La terza era che non aveva peli sulla lingua, e che
diceva in faccia alla gente tutto quello che pensava. La quarta era che
parecchie volte tendeva ad essere molto poco politically correct.
Sapevo che la maggior
parte delle persone di quel mondo fatto di lusso sfrenato non la considerava
nemmeno degna di nota. Ma sapevo anche che lei e mio nonno erano sempre stati
in buoni rapporti nel corso degli anni.
Mio nonno…
“ Non fare quella
faccia, Isabel. E non avercela con tuo nonno.” Mi disse quasi distrattamente,
togliendomi dai miei pensieri. Mi passò un bicchiere. “ Sai, ragazza mia, tuo
nonno era una persona che rispettavo molto. E verso cui nutrivo un affetto
smisurato. E credimi quando ti dico che quell’uomo aveva la passione dei
trabocchetti.”
“ Trabocchetti?” Chiesi
senza capire.
“ Diciamo che sapeva
giocare scorretto quando voleva.” Specificò allora lei, guardandomi da sopra il
bicchiere con quello che sembrava un ghigno.
“ Ok. Adesso inizio
seriamente a non capirci più niente.” Dissi appoggiando il bicchiere sul
tavolino davanti a me e alzandomi in piedi. La donna davanti a me rimase
impassibile.
“ Allora prendi questa e
tira pure fuori il pacchetto di sigarette. So che fumare di aiuta a ragionare.”
M’invitò lanciandomi la mia pochette. La guardai perplessa. “ L’ho recuperata
prima di venire a prenderti sulla terrazza.”
C’era qualcosa che non
mi quadrava in tutta quella storia. Più di qualcosa ad essere sincera. Per
questo me ne restai ferma, con la borsetta in mano, a fissare piena di domande
la donna che mi stava davanti e che tranquillamente continuava a bere il suo
Scotch. Non sembrava per niente turbata dalla situazione, al contrario mio che
continuavo a scervellarmi facendomi venire l’emicrania. Troppe emozioni tutte
in un colpo. E lo scoppio con Julian era stata la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso.
Per questo, per tutto
quello che mi mescolava dentro come fosse un minestrone, e per la confusione
che avevo in testa decisi seduta stante che avrei preteso delle risposte.
“ Sembra che lei mi
conosca bene.” Iniziai, tornando a sedermi e prendendo dalla pochette il
pacchetto di sigarette e accendendomene una. La nicotina penetrò
immediatamente, e quando buttai fuori il fumo mi sentii un po’ più tranquilla.
“ Tuo nonno parlava
spesso di te. Anche se sarebbe meglio dire che eri il suo unico argomento di
conversazione. O forse il suo preferito.” Mi spiegò la signora Keiko,
sorridendomi dolcemente. “ Ti voleva molto bene.”
“ Ah, davvero? Per
questo ha siglato un contratto prematrimoniale con quell’essere viscido e poi
si è anche premurato di non dirmelo?” Chiesi arrabbiata, buttando giù a collo
un paio di sorsate di Scotch. In quel momento, difendere l’uomo che chiamavo
nonno, era la cosa peggiore da fare.
“ Ha fatto anche
qualcos’altro, in realtà.”
“ Perfetto! Credevo che
avessi toccato il fondo nel sapere che dovrei spostare Julian. Cosa che
ovviamente non farò a prescindere.”
“ Davvero?” Mi chiese
allora la donna davanti a me, con gli occhi illuminati da una strana scintilla.
“ Davvero cosa?”
“ Davvero non hai
intenzione di sposare mio nipote? Nonostante il contratto?”
“ No, non ho intenzione
di farlo.”
“ Bene.”
Quella conversazione non
aveva senso. Per niente. E avevo sempre più la certezza che la signora Keiko mi
stesse nascondendo qualcosa di vitale importanza. Lo avevo capito da come aveva
parlato fino a quel momento; mi aveva lanciato qualcosa, come un’idea. O forse
un fatto.
“ Sei una ragazza
decisa, Isabel. E sicuramente hai più palle tu di mio figlio e mio nipote messi
insieme. Per questo sei stata messa davanti al fatto compiuto: se tu l’avessi
saputo prima che il contratto fosse firmato ti saresti opposta. Cosa che, in
ogni caso, hai fatto. Mi piaci, ragazza. Non ti fai mettere i piedi in testa e
prosegui sulle tue convinzioni. Per non dire poi che ho adorato il fatto che tu
abbia rivoltato un po’ Julian. È stato estremamente divertente.” Si complimentò
lei, alzando poi il bicchiere a simulare un brindisi.
“ Sarà anche come dice
lei, ma questo a cosa ci porta? O a cosa mi porta, piuttosto?” Le chiesi
affranta.
“ Ci porta ad un
documento, mia cara. Ad un documento che ha il potere di sciogliere il
contratto rendendolo vano.” Mi spiegò, prima di versarsi un’altra generosa dose
di Scotch e fare lo stesso con me.
“ Un documento?”
“ Sì, un documento
redatto da tuo nonno quattro anni fa, poco prima della sua morte. Un documento
per te.”
“ E perché io non ne ero
a conoscenza?”
“ Perché all’epoca eri
solo una bambina. E parecchio incasinata, aggiungerei. Sì, so di tutti i
problemi che hai avuto, e sinceramente parlando non me ne frega niente. Ciò che
davvero m’interessava era quello che sarebbe successo questa sera, non appena
ti fosse stata data la notizia del matrimonio.
E hai reagito proprio come speravo.”
Mi passai una mano tra i
capelli e bevvi ancora qualche sorso di Scotch cercando di far mente locale su
quanto mi era appena stato detto.
“ Mi ha messo alla
prova?” Chiesi poi, sicura che fosse così.
“ Esattamente. È stato
tuo nonno a chiedermelo.”
“ Sul serio? E cosa
sarebbe successo se io avessi accettato la proposta di Julian?”
“ Non ti avrei detto
niente. E non l’avrei fatto nemmeno se tu ti fossi opposta al matrimonio con
qualche insulsa motivazione, pestando i piedi per terra come una bambina. Ma
hai dimostrato qualcosa, stanotte. E a me tanto è bastato.” Mi spiegò avvicinando
il bicchiere al mio e facendoli scontrare. I vetri tintinnarono tra loro
ferendomi quasi le orecchie. “ Complimenti. Prova superata.”
“ E cosa ho vinto?”
Chiesi allora, seriamente divertita. Quella donna iniziava a piacermi. Certo il
suo modo di fare poteva risultare scorretto, ma rispecchiava in pieno il suo
non essere proprio politically correct.
“ La possibilità di
accedere a quel documento.” Disse sorridendomi. “ Domani recati dal notaio di
famiglia e spiegagli la situazione. Il resto lo vedrai da te.”
Il silenzio calò tra di
noi. Lei era intenta a bere, io a guardare la sigaretta che piano si consumava
tra le mie dita.
“ Sarà davvero così
facile?” Domandai poi, decidendomi ad aspirare l’ultimo tipo per poi spegnere
il mozzicone nel posacenere appoggiato sul tavolino.
La signora Keiko mi
fissò dolcemente, proprio come una nonna. E quanto mi scaldò il cuore, quel
sorriso.
“ Non sempre è tutto
difficile a questo mondo, Isabel. Specialmente quando c’è qualcuno che si
prende cura di noi. So che hai passato l’inferno, e questo a causa delle
persone che ti circondavano. Però ti sei dimostrata più forte di loro, più
forte del dolore. Qualcosa vorrà pur dire questo, no?” E ridacchiò tranquilla,
tornando a versarsi lo Scotch.
Sorrisi anch’io, per la
prima volta serena da quando quella serata aveva avuto inizio. Forse aveva
ragione la donna anziana che mi stava davanti. In fondo lei aveva vissuto più
di me, e sicuramente aveva imparato qualcosa dagli anni che si portava addosso.
Appoggiai il bicchiere
sul tavolino e mi alzai, pronta ad andarmene.
“ Allora arrivederci,
signora Solo.” La salutai cordialmente con un inchino. Lei sbuffo.
“ Chiamami semplicemente
Keiko e dammi del ‘tu’. Sarò anche vecchia ma non sono antidiluviana.” Disse
burbera, sventolando una mano come a voler sorpassare quel discorso.
Io ridacchiai e mi
diressi alla porta, ma prima di abbassare la maniglia volli sapere un’ultima
cosa. La cosa che ancora non riusciva a quadrarmi in quella faccenda.
“ Posso sapere perché lo
fa?” Chiesi allora, tornando a voltarmi.
“ Prego?”
“ Perché si schiera
contro la sua famiglia? Perché mi aiuta? Mi conosce solo attraverso i racconti
di mio nonno.” Specificai allora, guardandola dritta negli occhi. Lei mi
restituì lo sguardo, seria.
“ L’hai vista la moglie
di mio figlio, Loren?” Annuii senza capire. “ Quella donna non assomiglia per
niente alla ragazza che ho conosciuto anni fa. Lei era solare, allegra,
spigliata. Aveva un’incredibile voglia di vivere. E mostrava al mondo un
sorriso meraviglioso. Quel sorriso le è stato rubato da mio figlio e dal loro
matrimonio. Non ha più sorriso, dacché si sono sposati. È sempre triste,
amareggiata; si trascina quasi fosse un fantasma. Non voglio che un’altra vita
venga rovinata. Non voglio altri rimorsi in questa casa. Lei non l’ho potuta
salvare. Forse posso farlo con te.”
Rimasi basita. Quindi
era così che stavano le cose. Ripensai a Loren, che prima mi aveva guardata con
quello sguardo così particolare. Ora capivo. Vedendomi aveva rivisto se stessa,
e sapeva che il dolore che aveva patito lei presto sarebbe stato anche il mio.
Per questo quell’occhiata. Mi si strinse il cuore a pensare a quella donna,
prigioniera di un matrimonio con un uomo che non era capace di renderla felice.
E che probabilmente nemmeno la calcolava.
Mi ritenni fortunata
come non mai.
Guardai Keiko un’ultima
volta e poi le sorrisi, uscendo da quel salotto.