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Autore: AlexEinfall    26/01/2015    3 recensioni
[Casey/Severide] Prima mia long-fic su questa coppia, che credo abbia un grosso potenziale.
Severide affronta Casey circa il suo comportamento sconsiderato, ma le cose non vanno mai come ci si aspetta. Questo è l'inizio di qualcosa oppure le resistenze e l'antico astio ostacoleranno la loro strada?
Un giorno qualunque alla Caserma 51 è destinato a cambiare ogni cosa.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Prima di tutto, ringrazio di cuore chi sta seguendo questa storia e mi sta lasciando il suo parere. Poi, vorrei scusarmi per l'assenza; ho passato un mese senza connessione stabile, con solo uno zaino e un cane, seguito da altri mesi in cui il computer e lo scrivere non potevano essere messi al primo posto (per quanto mi dispiacesse). Ora sono tornata e...sì, ho intenzione di continuare questa storia e di scriverne altre. Questa pausa ha portanto una nuova "consapevolezza" su cosa voglia dire per me scrivere, e almeno di questo ne sono grata. Ma sto divagando-
  Aggiornerò presto.
  Alex.



4

 Le nostre colpe pesanti
   

   
    Il respiro rantolava appena, come un soffio spezzato a metà. Il petto si alzava ed abbassava velocemente, appesantito e stanco. La pelle era ancora bianca, ma riprendeva colore: Dowson poteva vederla nettamente più rosea e sana.
   «Stai meglio» disse la ragazza, dimenticando il tono interrogativo.
  Matt stirò le labbra e disse, con voce roca: «Diciamo che me la cavo bene.»
  Si tirò su, per stare seduto, non sopportando oltre il ruolo di malato. «Vorrei solo uscire di qui.»
  Dowson sorrise, tirandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. Lo sguardo nervoso percorreva la stanza: le mura pallide, le tende sottili, il letto pulito ma disfatto, come se le ultime notti il suo occupante fosse rimasto inquieto. Non le risultava difficile immaginare il tenente Casey a rigirarsi tra le lenzuola, stanco di quel materasso e di quell'ospedale.
   «Presto potrai uscire, secondo il medico anche stasera.»
   Il barlume di una quieta gioia apparì negli occhi verdi e il volto si illuminò di un sincero sorriso. «Finalmente!» Nel dirlo una tosse convulsa lo assalì e come un colpo di fucile svanì in un sospiro.
   Dowson si accigliò, ma resistette alla tentazione di posargli una mano sulla spalla. «Devi riposare, però. I tuoi polmoni sono sofferenti e devono riprendersi. La tua capacità respiratoria-»
   «Lo so» la interruppe bruscamente, fissandola con un astio che svanì subito, soppiantato dal rammarico di fronte all'espressione turbata del paramedico. «Perdonami, hai ragione. Questa storia...voglio solo lasciarmela alle spalle.» Si fissò le mani arrossate e il suo sguardo si accigliò. «So che di te posso fidarmi.»
   A quelle parole, Gabby avvertì un tuffo al cuore e deglutì a fatica. «Certo.»
   Matt non parve notare il tremolio nella voce del paramedico, e continuò: «Cosa sai di quello che è successo?»
   A Dowson la formulazione della domanda apparve strana, come se non dovesse essere posta così, ma attribbuì la cosa alla stanchezza del tenente. Si sedette e prese un grosso respiro. «Siamo accorsi sul ponte per un incidente tra un SUV e una monovolume e-»
   «Sì, questo lo ricordo.»
   «E il resto?»
   Matt sospirò. Sembrava che l'intera faccenda, quel dover porre domande, gli pesasse immensamente. «Ricordo delle urla e di aver battuto la schiena contro la balaustra. Ma è tutto confuso.»
   Gabby era imbarazzata: come dirgli che nessuno sapeva cosa esattamente fosse successo? Si fece forza e scosse la testa. «Mi dispiace, Casey, ma non sappiamo altro.»
   Il tenente annuì, con lo sguardo profondo posato negli occhi della ragazza. «Capisco.» Poi sorrise, inaspettatamente. «Va bene così.»
   «Oggi incontrerò Antonio, sono certa che riusciremo a risalire al colpevole» disse Gabby speranzosa, ma si accorse che Casey non la ascoltava più. Ebbe la strana sensazione che al tenente non interessasse molto quella parte della storia, e la cosa le sembrava inconciliabile con lui. Soprattutto non riusciva a capire cosa si aspettasse di sapere, perché farle quella domanda. Una vocina nella testa le sussurrava che c'era qualcosa che Casey non voleva che lei sapesse, che nessuno sapesse, ma la sua parte razionale la teneva lontano da questi pensieri. Perché mai Matthew Casey avrebbe dovuto tener nascosto qualcosa? Cosa poteva mai nascondere l'integerrimo tenente della Caserma 51?


   Il corpo di Matthew sotto le sue dita era stato caldo e teso. Aveva sentito il sospiro nel suo petto, attraverso il proprio. Aveva respirato il suo odore che, come da una fornace, si alzava dalla sua pelle sempre più intenso.
   Dopo solo meno di ventiquattro ore, lo aveva sollevato, freddo e rigido. Il petto schiacciato contro il proprio era rimasto immobile, privo dell'alito vitale. L'odore sembrava essere morto nelle acque gelide, trascinato via dalla corrente, sotto il ponte.
   Severide affondò la testa tra le mani, non riuscendo a risolvere il dissidio tra quei due corpi, appartenuti allo stesso uomo, così dissimili, così lontani. Quella diversità gli lasciava uno stupore sconvolgente, un'impressione feroce, che non gli permetteva di allontanarsi da quelle preoccupazioni.
   Alzò lo sguardo verso il muro, decorato dai distintivi e dalle foto dei vigili morti in servizio. C'era sempre un posto vuoto, su quella tetra e orgogliosa parete, un posto che prima o poi sarebbe potuto toccare a ognuno di loro. Andy glielo aveva insegnato, morendo in un giorno qualunque. E Casey glielo aveva ricordato, cadendo da un ponte in un giorno qualunque.
   Con un sospiro, si alzò, incrociando lo sguardo di Antonio. Il ragazzo gli rivolse un rapido sorriso e gli fece cenno di seguirlo. La sorella, alle sue spalle, sembrava persa nei propri pensieri.
    Quando entrò nell'ufficio di Boden, gli sembrò che quelle mura fossero troppo strette.
    Il detective e il comandante si strinsero la mano, e nel volto del più anziano si leggeva una inquieta attesa.
   «Novità?» tagliò corto.
   Antonio scosse la testa, sconfitto. «L'uomo alla guida del SUV è morto stamattina, insufficienza cardiaca.»
   Un lamento sfuggì dalle labbra di Gabby.
   «Mi dispiace» le disse il fratello, prima di cambiare argomento. «Per quanto riguarda l'uomo che ha spinto Casey, non abbiamo nessun indizio. Nessuno dei presenti è stato in grado di identificarlo.»
   «C'era molta confusione» ammise Gabby.
   Antonio annuì. «In questi casi, è sempre difficile trovare l'ago nel pagliaio.»
   «Le auto?» chiese Boden, stringendo le dita sui fianchi.
   «Anche qui, una pista morta. Tutte le auto sono state identificate, tutte le targhe rintracciate. Potrebbe essere chiunque, o nessuno di loro.»
   «Di quante persone parliamo?»
   «Vicine all'incidente? Circa cinquanta.»
   Gabby lanciò un'imprecazione a denti stretti.
   «Ci vorrà un po' per interrogarli tutti» continuò Antonio.
   «La donna della monovolume? Magari sa qualcosa» ipotizzò Gabby.
   Antonio scosse la testa. «Si è salvata per miracolo e, come tutti, non ha visto nulla. Stiamo ancora lavorando per ricostruire la dinamica dell'incidente.»
   La stanza si riempì di un lungo silenzio, rotto dalla voce di Boden. Severide si rese conto solo allora di non aver detto nulla e di essere chiamato in causa.
   «Severide, tu cosa dici?»
   Il tenente fece spallucce. La sua mente si era accartocciata come un vecchio giornale sotto la pioggia, dimenticato sulle scale fredde. Per tutto il tempo non era riuscito a pensare a nulla. La rabbia che credeva avrebbe provato non c'era; la sete di vendetta era solo una nuvola scura dietro di lui.
   «Non ho visto nulla» disse, schiarendosi la voce. Avvertiva di essere al centro delle sorprese attenzioni dei presenti, eppure non riusciva a reagire. Tentò di riprendere il controllo del proprio corpo. «Lo troverai» disse, guardando Antonio negli occhi. Il detective annuì con aria solenne, ma tutti sapevano che l'unico in grado di manter fede a quella promessa si trovava in un letto d'ospedale.
   «Ho le foto di tutti i presenti, tutti possibili sospettati» disse Antonio, indicando il fascicolo stretto nella mano. «Come sta Casey? È in grado di aiutarci?»
   Gabby annuì, incerta.«Bhe...non ricorda molto. Ma sta meglio.»
   «Bene. Andrò da lui, voglio vedere se riesce a indicarci qualcuno.» Prima di uscire, lanciò uno sguardo a Severide. «Tu vieni con me? C'è bisogno che qualcuno mostri le foto alla donna della monovolume.»
   Sentendo gli sguardi di Dowson e Boden puntati su di lui, annuì e seguì Antonio fuori dalla porta. Si morse il labbro, non potendo fuggire oltre il confronto con l'altro tenente.


  Shiela Telmon era una mamma full time, con lunghi capelli castani e il viso pallido scevro dal trucco. Le labbra sottili si stesero in una linea meditabonda, mentre con mani incerte sfogliava le foto. Sospirò e alzò lo sguardo sul tenente.
  «Mi dispiace, ma non riconosco nessuno» disse, portandosi poi la mano alla fronte. La benda che copriva la ferita era immacolata e lei non poteva davvero credere di essere ancora viva. Severide lo comprese dallo sguardo liquido.
  Sorrise, prendendo le foto e rimettendole nella cartella. «Non si preoccupi» le disse per alleviare la tensione. «Si riprenda e se le viene in mente qualcosa, chiami questo numero» aggiunse, porgendole il cartoncino bianco che Antonio gli aveva dato. Lasciando la stanza della donna e tornando nel corridoio dell'ospedale, non poté fare a meno di prestare attenzione a un dettaglio: in altre circostanze, Kelly avrebbe dato il proprio numero. Scosse la testa e si massaggiò la tempia, conscio che quello non era un incidente qualunque.
   Lo sguardo si perse nel corridoio e si fissò sull'ultima stanza a destra. Sospirò e si avviò in quella direzione. La porta era aperta, ma lui bussò lo stesso sullo stipite.
  Antonio si voltò e gli fece cenno di entrare, mentre Casey, seduto con la schiena sorretta da due cuscini, gli lanciò appena uno sguardo. Il biondo tornò alle foto, sventolandole in un gesto di resa e passandole al detective.
  «Nulla, non riconosco nessuno» disse, accigliandosi.
  Antonio rinfoderò le foto nel fascicolo e gli diede un colpetto amichevole sulla spalla. «Tranquillo, Casey, lo troveremo.»
 Lui annuì distrattamente e reclinò la testa contro il cuscino. Severide era rimasto indietro, scrutando la situazione e desiderando fare qualcosa, qualunque cosa, pur di evadere quel peso sullo stomaco. Con stupore si accorse, incrociando per un attimo gli occhi verdi, di cosa quel macigno contenesse: senso di colpa. Non poteva crederci. Uscì dalla sua trance solo quando Antonio gli passò affianco, prima di uscire dalla porta. Girò su se stesso, con l'intenzione di seguirlo, ma poi ci ripensò.
  Guardò Casey e le flebo alle quali era collegato, cercando di reprimere un inquieto senso di inadeguatezza.
  «Come te la passi?» chiese, attirando la sua attenzione.
  Casey rivolse al soffitto un ghigno, diverso da qualunque sua solita espressione. Severide lo vide stringere i dentì e trattenere a stento un colpo di tosse, prima di schiarirsi la gola e dire: «Giorni migliori...hai presente?»
  Severide cercò di ridere, ma il nervosismo gli strozzò ogni intenzione. C'era qualcosa che non gli piaceva nella situazione. Si massaggiò il collo con una mano, tenendo l'altra saldamente ancorata al fianco. «Senti, se hai bisogno di qualcosa-»
  «Sono a posto, Severide» lo interruppe lui, guardandolo negli occhi. Malgrado le labbra fossero tirate in un sorriso tranquillo, lo sguardo era freddo e distaccato.
  Il moro si massaggiò le mani e sorrise. «D'accordo, allora...bhe, riprenditi.»
  Casey non attese che Severide lasciasse la stanza, per voltare la testa e chiudere gli occhi.

 
  Il gomito poggiato sullo sportello e il pugno sotto il mento, Matt guardava distrattamente il paesaggio oltre il finestrino. Christie cambiò per l'ennesima volta la stazione radio, facendolo sorridere.
  «Che c'è?» sbuffò lei, le mani salde sul volante.
  «Certe cose non cambiano mai» mormorò lui, senza staccare gli occhi dagli edifici che scorrevano piano.
 Lei gli lanciò uno sguardo interrogativo, prima di tornare alla strada.
 Matt scivolò sul sedile, reclinando la testa e chiudendo gli occhi. Continuava a rivedere, dietro le palpebre, lo sguardo confuso di Severide, turbato come ben poche volte in passato. Una parte di sé condannava se stesso per la sua reazione alla visita del moro, ma l'altra parte, quella che si alimentava di rabbia e risentimento, avrebbe voluto dire parole di fuoco. Non aveva mentito del tutto quando aveva detto di non ricordare nulla dell'incidente, sebbene avesse preferito tenere per sé un dettaglio: lui si era distratto. Ricordava vagamente la sensazione che lo aveva colto scendendo dal camion, come ogni volta; quella volta era diverso. La sua mente era vuota e non per l'urgenza di agire, ma per il senso di confusione che, fin dal mattino, non lo aveva mai lasciato. Matt si era svegliato con i visibili postumi di una sbronza e la percezione di non aver dormito affatto. Avrebbe dovuto vergognarsi di se stesso per aver osato presentarsi a lavoro in quelle condizioni, sebbene nessuno sembrasse averlo notato. Ma lui aveva un condice morale ben preciso: se non sei al cento per cento, non sei pronto. Se non puoi fidarti del tuo corpo e della tua mente, non puoi prendere che la tua squadra si fidi di te. Il problema di questo codice era come stimare quel cento per cento, perché lui aveva imparato presto a sovrastimarsi, per il semplice bisogno di dare ogni parte di sé nel suo lavoro.
  Scosse la testa quando si rese conto che l'auto si era fermata nel vialetto di casa. Sospirò e si allungò sul sedile posteriore, afferrando la borsa che Christie gli aveva portato in ospedale.
  Una volta entrato in casa, portò la borsa in camera e chiuse la porta, rimandando a dopo una doccia della quale aveva estrema necessità. Nel momento esatto in cui sentì l'odore del caffé provenire dalla cucina, la sua mente cominciò a elaborare la domanda che dal suo risveglio in ospedale lo assillava. Poggiò la spalla alla cornice di legno della cucina, osservando la sorella armeggiare con le tazze.
  «Christie.»
  Lei si voltò appena, tornando poi a versare il caffé. «Non ci provare, Matt. Non dirmi di andarmene. Voglio assicurarmi-»
  Lui fece un passo avanti, accorciando le distanze, e le prese un polso per bloccarla e attirarne l'attenzione.
  «Cosa?» chiese con voce incerta, incontrando gli occhi bui del fratello.
  «Devo chiederti una cosa» disse lui, lasciando andare la presa sul suo polso e poggiando il palmo della mano sul marmo bianco, lo sguardo perso oltre la finestra. «Ricordi un ragazzo di nome Edward?»
  Christie sbattè le palpebre, palesemente confusa.
  «Era un mio amico, ai tempi del liceo.»
  Lei meditò, annuendo piano. «Flick? Il fratello di Mary, certo. Lei era nella mia squadra di nuoto, prima che mi spedissero in collegio.»
  Matt si passò la lingua sul labbro inferiore, sentendo il cuore accellerare e il respiro divenire troppo corto per i suoi polmoni. Guardò la sorella, che ricambiò con uno sguardo confuso.
  «Perché mi chiedi di lui? E' successo qualcosa? Ricordo che fu mandato in un'accademia militare o qualcosa del genere.» Christie strinse le braccia al petto, insospettita dal silenzio del fratello. «Papà credeva che quel ragazzo avesse una brutta influenza su di te.»
  Gli angoli della bocca di Matt si sollevarono in un sorriso triste. Secondo Gregory Casey, quel ragazzo aveva decisamente una cattiva influenza sul suo debole e influenzabile figlio. Sentì un groppo alla gola formarsi improvvisamente. Sentire la sorella parlare di quello che era accaduto, rendeva tutto reale. Non era solo un vago sogno adolescenziale, un ricordo alimentato dai rimpianti: era accaduto realmente. Anche se Christie non poteva sapere i dettagli, anche se era convinta che quel ragazzo fosse solo uno sbandato che il padre aveva allontanato a calci dalla vita del figlio, era reale.
  «Matt?» tentò Christie, visibilmente preoccupata dal pallore sul volto del fratello. Lui si riscosse e cercò di sorridere con noncuranza, afferrando una tazza piena e prendendo un sorso di caffé.
  «Una settimana fa è morto, in Afganistan» disse, cercando di dare un tono neutrale alla sua voce e poggiando la tazza. «Puoi andare, Christie. Io faccio una doccia» aggiunse da dietro le spalle, ignorando lo sguardo confuso della sorella. L'ultima cosa che voleva sentire erano parole di dispiacere o altre domande.
   Il suo senso di colpa era lì, pesante come un gabbia di ferro intorno al suo torace. Il ricordo delle camice di flanella, di quella particolare camicia nascosta sotto il suo letto, del sangue che usciva dal naso di Edward e che colava dalle nocche di suo padre... Era colpa sua se il padre di Edward lo aveva disconosciuto e spedito in una scuola militare; era colpa sua che quella scuola lo aveve portato a indossare una divisa e impugnare un fucile; era colpa sua la sua morte...
  Sotto il getto della doccia, gli parve che neanche l'acqua potesse lavar via le sue memorie.
  
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