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Autore: Il Pavone e la Piantana    27/01/2015    3 recensioni
Junior e Willow sono i figli di una nuova Panem, nata sulle ceneri dei caduti e sulle cicatrici di una libertà pagata con il sangue. Sono i figli della rinascita e del dolore, della promessa di un nuovo futuro e dei fantasmi del passato, spesso talmente oscuri da adombrare perfino il giallo brillante della speranza.
«Credevo fosse normale...» Dico, in un sussurro. Mi sembra brutto dirlo a voce troppo alta, come se lo rendesse più reale.
«Ma è normale. Esattamente come te». Risponde, fredda, con un'espressione seria sul viso. Perché io sono come lei, sono il figlio di eroi di guerra che portano sulle loro spalle i dolori del passato, rendendo le nostre vite più difficili di quelle di chiunque altro.
[…]
Mi allungo nell'erba, strofinando lente le braccia lungo i fianchi, fingendo di essere di nuovo una bambina che disegna con il proprio calore una ghiandaia nella neve fresca. Ma non c'è neve da raccogliere, qui. Solo cocci, gusci vuoti di conchiglie e un listello di legno che ormai suona solo note stonate.

{Fa parte della serie Colors. || Fanfiction fortemente psicologica che tratta in modo esplicito alcune patologie psichiche}
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bimba Mellark, Bimbo Cresta-Odair, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Colors.'
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XVI.




«Allora dimmi tu come mi vuoi.»
La sua voce rotta continua a girare nel frammento di me che resta, dopo le fiamme, come un ritornello.
Tremo, battendo i denti, troppo inebetita e addolorata perfino per sedermi.
Crack. Cling. Crack.
I vetri continuano a rimbalzare sul metallo, ma la mia pelle è troppo carbonizzata perché riescano a ferirmi.
Non sento nulla se non la sua voce, che gira e gira e uccide un pezzo di me in più ad ogni passaggio.
Si distrugge tutto ciò che si tocca.
L’ho fatto. Ho distrutto tutto.
Me stessa e Junior e la felicità e le candele e le conchiglie.
Non sono state le mani di Junior, ma le mie. E la mia voce petulante e le mie pretese e i dubbi e la paura del futuro.
Cling. Crack. Cling.
È il suono del futuro che avremmo potuto avere che va in frantumi, schegge troppo piccole anche per occhi che non annegano nelle proprie lacrime.
Perché non mi vorrà più, avendomi vista per quella che sono davvero: una mocciosa egoista e disattenta, incapace di tenere una conchiglia fra le mani senza frantumarla.
Poi i rumori si fermano.
Ne avverto l’assenza più della presenza, con questi timpani arsi e devastati.
E ne inizia un altro. È sommesso e disarticolato, e talmente estraneo e fuori posto che non riesco a capire cosa sia.
So che fa male, però. Sono aghi negli occhi, fuoco sotto la pelle, sale su una piaga. Brucia e mi strazia, ma non riesco a non avvicinarmi alla sua fonte.
Combatto contro le gambe di piombo, il pavimento diventato paludoso, le ginocchia liquide e le mani che tremano. Avanzo, le unghie conficcate nei palmi fino a farli sanguinare, la bocca piena di sangue e gli occhi annebbiati dalle lacrime, svoltando l’angolo della cucina.
È lì, ripiegato su sé stesso ai piedi del lavabo, con la testa fra le mani.
Sembra piccolissimo, rannicchiato con i capelli fra le ginocchia. E piange.
Trema, coprendosi gli occhi con i palmi, e i suoi singhiozzi si ripercuotono su di me, aprendomi una voragine nel petto.
Non si piange, Junior.
Il mare stesso annega, nei suoi occhi. Il suo dolore è una cosa solida, notte vischiosa che mi soffoca, uccidendomi. Riempie tutta la stanza, ogni ricordo, ogni speranza. Diventa tutto nero, fra le sue dita piene di perle.
«Non si piange, mocciosa.»
Ogni lacrima, ogni singhiozzo, ridefinisce nel mio cuore un nuovo concetto di dolore.
E io credo di non essermi più sentita più inetta e fragile e inutile e stupida di così.
«Vattene!» Singhiozza, e la sua voce non è più sua. È diventata notte e oscurità e buio, e io non riesco a fare altro che piangere più forte, sperando che i miei lamenti scaccino i mostri, riportandoli al loro posto fra le ombre, sotto la caduta della coperta o dietro l’anta di un armadio. Ma non funziona, perché non funziona mai. Quando hai così paura, niente basta mai. «Vattene, cazzo!» Junior continua a piangere e il buio mi strangola, rubandomi gli occhi e il cuore.
«Non ti lascio andare in ogni caso, Junior. Neanche se mi cacci e mi respingi e smetti di volermi. Non ti lascio mai, non l'ho mai fatto.»
«Non ti lascio.» Il mio sussurro si infrange contro il muro di sofferenza che ha innalzato, ma sono io il muro di gomma, adesso.
I mostri non sono sotto il letto, sono negli occhi di papà.
Ho paura. Paura che vada a largo, lasciandomi la mano; paura che si faccia del male; paura del mio stesso dolore,dei mostri della mia infanzia, delle urla che grattano il legno, delle sue lacrime, di averlo spezzato, di essermi spezzata.
Ho paura, tanta da non riuscire a muovermi, paralizzata al centro della cucina, ma non lascio che vada via da me. E il mio corpo è ancora troppo piccolo per contenere tutta questa angoscia e questo terrore, e so che non sarà mai grande abbastanza, ma stavolta, stavolta è troppo importante.
Sono al cospetto del suo cuore, esposto dal suo costato aperto, e non posso permettermi di fuggire dietro le gambe di qualcuno, aspettando che la tempesta passi.
Il mio posto è qui, fra le lacrime e la paura e i tagli sulle sue mani e la sua camicia macchiata di sangue, non importa quanto male faccia.
«Io resto.» Ripeto, sedendomi sul pavimento a gambe incrociate, a qualche passo da lui.
Junior alza un attimo lo sguardo. Le lacrime aprono crepe di dolore sulla bellezza del suo viso e nel mio cuore, ma non cedo. Resto a lasciarmi ferire dal suono dei suoi singhiozzi, dal rossore del suo viso, dalla disperazione con cui si passa le dita fra i capelli, tirandoseli.
Continua a piangere e a chiedermi, sempre più debolmente, di andarmene, e io continuo a non cedere, sforzandomi di rimanere insieme per essere la sua vela in questo mare gonfio di tempesta.
Le lenzuola bianche frusciano sotto i piccolissimi pugni di Rye. Gattona fra di noi e ogni tanto mi colpisce in testa col suo sonaglio. Mi fa male alla fronte, ma lo lascio fare perché la cosa lo fa ridere. E se Rye ride sorride anche la mamma.
Mamma è rimasta a letto, oggi. Io dovevo andare a scuola, ma non ha lasciato che nessuno di noi uscisse di casa.
Ha pianto tanto da convincere papà, stringendomi al petto tanto stretta da farmi male.
«Non lasciare che me la portino via.» Ha detto, aggrappata a papà e a me e a Rye come se avesse paura di vederci sparire, e papà le ha scostato i capelli dal viso con un’espressione tristissima e ha annuito, allungandosi nel letto insieme a noi, anche se si era già vestito.
Papà si è disteso sulle lenzuola, vicino alla mamma, abbracciandoci tutti. È una cosa strana, perché noi siamo tutti vestiti e mamma ha la vestaglia, e mi è anche venuta voglia di piangere, anche se non so bene perché.
Forse perché la mamma continua a piangere in quel modo che fa tanta paura, con gli occhi persi e stringendoci forte, e vedo che vorrebbe piangere anche papà.
«Stiamo tutti bene, Katniss… Siamo tutti qui.» Papà lo dice piano piano all’orecchio della mamma, ma sembra il gioco del silenzio, e io lo sento lo stesso, nonostante il sonaglio di Rye. E mi sento ancora più triste, perché papà la consola, ma la mamma non smette. E allora piango anch’io, ma la mamma continua ad abbracciarmi e non mi guarda, e papà mi accarezza i capelli e mi chiede scusa, ma non so per cosa.
«Fai smettere la mamma, papà.» Lo singhiozzo, troppo triste per sopportare altre lacrime. «Per favore, falla smettere.» Papà annuisce piano, accarezzandomi la testa.
Bacia i capelli di mamma, sospirando, e le mormora qualcosa all’orecchio. Non lo sento, stavolta, perché papà non è bravo a nascondino come mamma, che riesce ad arrivare in ogni stanza senza fare rumore, ma è bravissimo a parlare sottovoce, quando non vuole che noi lo sentiamo.
Mamma scuote la testa, aggrappandosi forte alla sua mano, e io ho paura che gli faccia male, perché la mano di papà e tutta bianca e rossa ma lui non dice niente.
Poi succede una cosa: papà si stacca dalla mamma, liberandosi dalla sua stretta con l’altra mano, ed esce dalla stanza. Sento il suo passo pesante per le scale e ho paura che vada via, lasciandoci soli con la mamma che piange e mi abbraccia fino a soffocarmi.
Deve aver dimenticato qualcosa, perché sento di nuovo la gamba artificiale che pesta il legno. La porta cigola piano e il cielo torna a brillare nella stanza.
Papà ha un sorriso triste e ha in mano il libro suo e della mamma. Si avvicina più piano che può, ritrovando il suo spazio sulle lenzuola aggrovigliate. Accarezza i capelli della mamma con una mano, e con l’altra sfoglia il libro. È così concentrato, mentre sfoglia, che la mamma inizia a singhiozzare più piano, forse per non disturbarlo.
Quando trova la pagina, posandola delicatamente sul grembo della mamma, vicino al mio fianco, mamma sbatte le palpebre un paio di volte, trattenendo il fiato.
E come se si svegliasse davvero, non come stamattina, e le sue braccia mi stringono un po’ meno forte.
«Ti va di cantare per Willow, amore?» Papà non smette di accarezzarle i capelli arruffati, sorridendo «Lo farei io, ma non voglio farla piangere ancora…» mi strizza un occhio e il suo sorriso è un po’ meno triste, ora che la mamma ci guarda come se ci vedesse davvero, battendo le palpebre per liberare le ciglia dalle lacrime. Si trascina a sedere contro la spalliera e i suoi capelli scuri si aprono come foglie su un ramo contro il legno chiaro. Si schiarisce la gola un paio di volte, deglutendo, e guarda papà, che annuisce piano.

Deep in the meadow, under the willow
A bed of grass, a soft green pillow
Lay down your head, and close your sleepy eyes
And when again they open, the sun will rise.
La sua voce, trema, all’inizio, ma ad ogni nota è come se il cielo si aprisse, nascondendo le sue nuvole. Si asciuga le guance col dorso della mano, posando la testa sulla spalla di papà, e la sua morsa diventa una carezza delicata ai miei capelli.
La voce della mamma è così bella che non ho il coraggio neanche di respirare. Trattengo il fiato, ascoltando il silenzio degli uccelli, fuori dalla finestra.

Deep in the meadow, under the willow
A bed of grass, a soft green pillow
Lay down your head, and close your sleepy eyes
And when again they open, the sun will rise.
Here it's safe, here it's warm
Here the daisies guard you from every harm
Here your dreams are sweet and tomorrow brings them true
Here is the place where I love you.
Tacciono tutti.
È come diceva papà: quando la mamma canta le ghiandaie non hanno il coraggio di disturbare la melodia col loro canto.
È una magia.
Papà ride della mia espressione meravigliata e sulle labbra della mamma fiorisce, lento, un sorriso.

È un ricordo triste, ma mi suggerisce cosa fare.
Lancio un ultimo sguardo alle spalle di Junior, scosse dai singhiozzi, e faccio leva sulle braccia per alzarmi dal pavimento.
«Il libro serve a questo, tesoro.» Papà sorride, facendo saltare un pancake nella piccola padella «Per non dimenticare. Coloro che non ci sono più, come il papà di Junior, e le cose buone che hanno fatto per noi.» La frittella scivola nel mio piatto e papà mi bacia i capelli mentre afferro coltello e forchetta per mostrargli quanto sono diventata brava a tagliare da sola la mia colazione. «E per ricordare che dopo ogni nuvola, per quanto pioggia porti, c’è sempre un raggio di sole.»
Mi muovo a fatica nella penombra, cercando a tentoni l'interruttore. Le mie dita non trovano ostacoli. I muri sono lisci e freddi. Dove a casa delle zie ci sono reti e conchiglie e stelle marine e foto, c'è il vuoto bianco e onnicomprensivo dell'intonaco.
Click.
La lampadina illumina gli spazi vuoti: il soffitto bianco, il tavolo sgombro, le sedie senza cuscini accostate alle estremità del tavolo, una cassettiera di legno chiaro. Faccio scivolare i polpastrelli sulla superficie grezza, cercando un granello di polvere, una sbavatura.
Niente. Solo il metallo delle chiavi, abbandonate in un angolo.
È tutto così essenziale e asettico da dare l'impressione di una casa giocattolo, in attesa delle sue bambole vestite di pizzi per riempire la voragine delle sedie vuote.
Il vuoto è immanente e solido, una presenza tangibile nella stanza quanto il ripiano di legno della cassettiera e gli schienali delle sedie, e mi opprime, schiacciandomi il petto.
A casa mia, nel dodici, non c'è una stanza che non abbia una foto fuori posto, una maglietta nascosta sotto un lenzuolo, qualche moneta perduta nell'imbottitura del divano, una macchia di tempera su una parete o su un mobile.
«Non puoi passare la vita a pulire i segni del fatto che viviamo qui, Katniss.» Papà mi sporca la punta del naso di tempera rossa, sorridendo. E poi fa lo stesso con la mamma, con il verde. E sulla fronte di Rye, con il giallo, che addenta il suo indice con i dentini da latte.
La mamma si accarezza la pancia e ride, dimenticando lo straccio, e disegna un piccolo cuore sulla guancia di papà.
Ho i capelli sporchi di bianco e le mani imbrattate di rosa, ma non è importante. Papà ride e la mamma canta e io dipingo stelle marine e delfini. E non è più importante quanto io e papà riusciamo a sporcare, perché ci sarà tempo per pulire, e se non ci sarà le macchie di tempera diverranno un ricordo felice, la foto di una giornata di maggio in cui abbiamo disegnato e mangiato fragole che sapevano di colori a olio e cantato e papà ha baciato la mamma e l'ha fatto in quel modo speciale che ha, quando succede qualcosa di bello, stringendola come ogni bacio fosse un segreto fra loro.
Siamo felici.

Una casa felice è una casa che porta i segni di coloro che la abitano: ci sono i segni delle unghie di mio padre, su schienali come questi, mentre qui sembra non essersi mai seduto nessuno; sul nostro tavolo da pranzo c'è l'impronta dei denti da latte di Rye e i muri sono ingombri di cornici, tele e fotografie. Casa di Junior, invece, cancella i segni della sua presenza come un'onda cancella orme nella sabbia.
Non c'è il profumo di cannella, che aleggia leggero nella cucina di papà, né quello di mare e shampoo alla frutta e uova bruciacchiate di casa delle zie.
Non ha odore, né colori.
C'è solo assenza, qui. E tristezza, solitudine, fuga. Questi muri bianchi sono lo specchio di una vita che non vuole essere vissuta.
Quante cose non so di te, Junior?
Le mie dita cercano frenetiche il contatto ruvido della carta fra le dita.
Un foglio, un quaderno, una penna. Qualsiasi cosa mi permetta di lasciare un segno, in questo baratro, che ricordi che Junior esiste. E vive qui.
E non è solo, perché io lo vedo.
Apro ogni cassetto del mobile, trovandolo pieno di cose inutili: ricevute, promemoria, mappe marine, rose dei venti, cartografie. Le mie mani si scontrano contro il vuoto, di nuovo, e la frustrazione, buttando all'aria tutte le cartine, calciandole sotto il tavolo.
Non ti lascio la mano, neanche dopo averti visto crollare.
Giro in tondo per la stanza, scostando le sedie e scambiando l'ordine dei cuscini del divano, delusa dalla mia stessa cecità.
L'amore non è l'unica risposta.
Credevo di essere incompleta, autocommiserandomi per l'amore non corrisposto di Junior, e non ho mai capito fino in fondo quanto fosse lui, quello irrisolto.
Mi sono lasciata inondare dalla luce, calpestando le sue ombre.
Non vedi a un palmo dal tuo naso, stupida mocciosa.
Ho preteso e preteso e preteso ancora, senza riuscire a vedere realmente quanto mi stesse dando, lasciando che riempissi un po' dei suoi punti ciechi, mentre credevo che lui stesse colmando i miei.
In questa stanza vuota, con l'eco del suo pianto, l'ordine asettico riesce a mettere in fila anche i miei pensieri aggrovigliati, schiacciandomi nella sua limpida evidenza: non sono io, quella che ha bisogno che la sabbia si infiltri fra le crepe per non afflosciarsi come un sacco vuoto.
È Junior.

Vago per l'ingresso finché i miei piedi non imparano a memoria la consistenza di ognuna delle assi del pavimento.
Trascino i mobili finché la milza e le braccia non mi fanno tanto male che controllo che non stiano per staccarsi, sperando che i piedi lascino piccoli solchi sul legno dei listelli.
La cassettiera dev'essere inchiodata. La spingo fino a farmi lacrimare gli occhi dallo sforzo, ma non si smuove di un millimetro. Nello spazio fra il legno e il muro, però, sbuca un angolo di sughero sottile.
È leggero e flessibile nella mia stretta, e un sottile velo di polvere si deposita sui miei polpastrelli, dopo averlo toccato.
Mi piace, qualsiasi cosa sia.
Le mie mani indolenzite combattono contro il bordo della cassettiera per tirarlo fuori.
È più grande di ciò che sembrava: il mobile è largo e supera di un paio di spanne la mia vita, e riusciva a nasconderlo appena.
Lo appoggio con cautela al muro, cercando di capire se è qualcosa che posso disegnare, o dipingere.
«Cos'è questo?» Daisy mi guarda, pettinando una delle sue bambole. La sua camera ne è tanto piena da darmi il capogiro e così rosa da disturbarmi lo stomaco e gli occhi.
È esploso un porcellino di pizzo rosa, in questa casa, ma nessuno pare accorgersene tranne me.
«È un muro di sughero.» Mi guarda, annoiata, perché evidentemente le ho fatto la domanda più stupida del mondo. «Ma l'ha regalato Warren. Dice che serve per attaccarci cose.» Sbuffa, tornando a concentrarsi sulla sua bambola.
«Cose tipo?» Sfioro il sughero, saggiandone i buchi e la ruvidezza con le dita.
«Cose tipo ricordi. Foto, cose così.» Si stringe nelle spalle «È un regalo stupido, per me.»

Ed è così geniale e perfetto che vorrei baciare Daisy e la sua bambola sulla fronte, pizzicandole le guance da maialino fino a farle lacrimare gli occhi.
Rido e piango, poggiando la fronte al sughero sottile, dandomi grosse pacche sul viso.
Le guance mi bruciano, quando mi accorgo che effettivamente non ho nulla da attaccarci.
Merda.
«Che fai?» La voce di Junior mi fa sobbalzare e la mia fronte sbatte contro il sughero.
Mi volto, carponi sulle ginocchia, forzando il collo in una posizione innaturale per vedere qualcosa oltre alle macchie di sangue sul tessuto bianco della camicia.
I suoi occhi sono cerchiati di rosso e le guance segnate dalle lacrime.
È stravolto.
Sembra dieci anni più vecchio e venti più giovane, insieme. E nei suoi occhi gonfi e arrossati traspare un'espressione sorpresa.
Dove ti aspettavi che fossi, Junior?
Credeva che fossi andata via, ecco perché sembra tanto sorpreso di vedermi.
Il dolore - il vederlo spettinato e sconvolto e sfatto dal pianto, la consapevolezza di quanto poco creda che io tenga a lui, per lasciarlo in lacrime accasciato sotto un lavandino - divampa tutto tra la radice del mio naso e il fondo degli occhi.
Stringo i denti, provando a trattenere le lacrime, ma sento la vista annebbiarsi quasi subito.
Provo ad alzarmi, il petto sconquassato dai singhiozzi, ma ricado due volte sulle ginocchia, che picchiano dolorosamente contro il pavimento, prima di riuscire ad alzarmi.
Junior continua a fissarmi, immobile sulle sue scarpe. I suoi occhi verdi mi bucano da parte a parte, aprendo voragini di tenebra e senso di colpa al centro del mio petto.
Le lacrime mi bagnano il collo, impigliandosi nel bordo del mio vestito.
Vorrei che le mie lacrime asciugassero le sue, perché fa troppo male vederlo così, e fa ancora più male esserne la causa.
«Smettila di piangere, mocciosa.» Si massaggia le palpebre con le dita, smettendo di trapassarmi con quegli occhi cerchiati di dolore. La sua voce è roca e trema ancora. «Ti riporto a casa.»
No!
Esplode dietro le mie palpebre in un fuoco d'artificio di terrore e determinazione. Mi scaglia lontana, staccando le mie ginocchia dal legno.
Se uscissi da qui, ora, chiuderei per sempre la porta su Junior.
Mi sfuggirebbe fra le dita come sabbia scaldata dal sole, e di noi non rimarrebbe niente.
E io questo non posso permetterlo.
Non ti lascio la mano.
Mi lancio contro il suo petto, stringendo più forte che posso le mie fragili, stupide e maldestre braccia intorno alla sua vita.
Lui trema, reprimendo altri singhiozzi, perché Junior è una conchiglia che le mie mani non sono state in grado di bucare conservandone l'integrità.
Si è spezzato fra le mie dita, come i cocci di cuori e piatti spezzati nel lavandino delle zie.
Lascia che ti abbracci, posso provare a rimetterti insieme.
Lui non mi stringe, ma io non lo lascio. Faccio quello che ho visto fare a mio padre, con mia madre, per ogni mattina buia, ogni sera senza luna, ogni notte piena di mostri: stringo Junior, senza permettere alle mie mani indolenzite di fermarmi, e mi scuso, tanto e a lungo, innaffiando di lacrime ognuna delle mie richieste di perdono, e tento con tutta me stessa di essere la colla che tiene insieme ogni scheggia di luce, costruendo ponti d'amore tra tutti i suoi spazi vuoti.
«Staccati.» La sua voce si incrina in un singulto, ma non fa nulla per sciogliersi dalla mia stretta. Non lo lascio, qualsiasi cosa dica, fino a quando non sono le sue mani, delicate come petali e tremanti, a disgiungere le mie, strette fra loro per cingere la sua vita.
E solo allora un fiume di parole mi travolge, sgomitando per fluire fra i miei denti.
Tiro su col naso e singhiozzo, asciugandomi le guance con i palmi «Mi dispiace, Junior. Moltissimo.» Cerco di nuovo di abbracciarlo ma lui mi respinge, posandomi le mani sulle spalle. Trema e si morde il labbro inferiore, mentre lo fa, ma non mi lascia tornare a posare la guancia contro il suo cuore. «Non ho capito niente, hai ragione. Sono una mocciosa egoista e stupida e prepotente... ma mi dispiace, mi dispiace così tanto.» Devo fermarmi per tossire, mentre le lacrime mi legano la lingua e i singhiozzi mi riempiono i polmoni di fuoco. Junior non mi guarda. Si copre il viso con i palmi, deglutendo. Non ti lascio. «E volevo fare qualcosa, qualcosa di bello. Lasciarti qualche ricordo, qualche segno di colore che dica che vivi qui. Perché la tua casa è così vuota e triste e io ti ho rubato tutta la luce, perché sono una mocciosa egoista che pretende la luna e tu mi stavi già dando tutto...» Junior sospira e le sue spalle si scuotono. So che ha ripreso a piangere, per quanto provi a nasconderlo. «Ho ficcato il naso ovunque ma non ho trovato niente. Poi ho trovato questo», indico il muro di sughero con l'indice che trema così forte da puntare l'intera casa, prima di fermarsi sull'oggetto, «e ho pensato che avrei potuto metterci qualcosa, come sul libro dei miei, per ridarti un po' della luce che ti ho rubato, e conoscere un po' più le tue ombre.» Espiro, stringendomi le braccia al petto. Sento freddo e caldo e mi sento svenire, ma niente è importante se Junior continua a tremare e ad affondarsi le dita fra i capelli tanto forte da strapparli. «Voglio conoscere anche quelle, Junior. Voglio vedere anche le tue ombre, non solo la luce.»
Lascia che ti veda, ti prego.
Junior si schiarisce la gola, strofinandosi le palpebre con i polsi. «Non serve a niente.» Borbotta, tentando di fermare i singhiozzi.
«Serve, invece!» Ribatto, testarda.
Non gli permetterò di chiudermi fuori, non gli permetterò di ripiegarsi su sé stesso, nascondendosi nelle sue ombre.
Mi fa male lo stomaco e la testa e gli occhi e le braccia, e mi sento così in colpa e stupida e meschina che credo che, se non riuscissi a non lasciarlo scivolare a largo, non riuscirei più a guardare la mia immagine riflessa in uno specchio.
Non importa se non mi vuoi, io non me ne vado lo stesso.
«Allora tornaci da sola a casa, mocciosa testarda.» I suoi passi pesanti per le scale mi martellano i timpani, aprendo voragini gelate che mi trascinano a fondo.
È così, dunque.
È tutto finito, per lui. Perché distruggo tutto ciò che tocco, anche lui. Ho aperto una breccia nella sua armatura e, invece che amore e luce e perle, l'ho riempita di sale e sangue e oscurità. Resto a guardare la sua schiena tendersi ad ogni gradino, troppo provata per impedire al pavimento di risucchiarmi. «O guarda nel sottoscala.» Sussurra, senza voltarsi. «Fai come ti pare, mocciosa. Come hai sempre fatto.»
Una porta al piano di sopra sbatte, violenta, svegliandomi con la forza di uno schiaffo.
Mi sta lasciando una scelta.
«Per ricordare che dopo ogni nuvola, per quanta pioggia porti, c’è sempre un raggio di sole.»
Non c'è nulla da decidere. Non esiste esitazione, nella mia testa che scoppia e nelle mie dita che, frenetiche, cercano un punto d'accesso tra i listelli di legno sottile.
Ho deciso troppo tempo fa per farmi inibire dall'orgoglio o dalla mia inettitudine. Una porta a scomparsa scatta sotto la pressione dei miei polpastrelli, schiudendosi in uno sbuffo.
Ignoro come possa Junior, con le sue infinite gambe da giraffa, infilarsi in questo pertugio buio. La mia nuca sbatte contro lo stipite e una conchiglia cade, spezzata, rimbalzando sulla punta della mia scarpa sinistra. Cerco a tentoni un interruttore finché il mio polso non incontra una cordicella.
La tiro senza esitazione, lasciando che le catenelle metalliche mi graffino il palmo, e la luce si accende, fioca e dorata, sul cuore di Junior.
È qui, pulsa fra le mie mani maldestre e riluce in ogni foto e scheggia di conchiglia e petalo essiccato, e posso scegliere se lasciarmelo alle spalle, schiacciandolo sotto i talloni delle mie scarpe di vernice, o lasciare che le sue ombre diventino luce nella mia oscurità.
Trattengo il fiato, congelata sull'uscio. Lo spazio è così stipato di oggetti accatastati da lasciarmi pochissimo margine di movimento e ho troppa paura di far franare uno dei cumuli in precario equilibro per riuscire a toccare qualcosa.
Accarezzo con lo sguardo una gabbietta di legno gonfio d'acqua salata e rete. Ha una piccola targhetta con intagliata la parola Perla e il trespolo di corallo.
«Hai trovato una perla?»
Porto le mani al petto per frenare l'ascesa del mio cuore verso le mie orecchie, continuando a sfiorare ogni oggetto con gli occhi.
In cima a una pila alla mia destra svetta un plico di fotografie. Devo alzarmi sulle punte per arrivare a sfiorarle.
Le mie unghie trovano i bordi di carta lucida, graffiando per tentare di tirarle giù senza rovesciarle.
Ovviamente non ci riesco.
Vengo travolta da un fiume di immagini, così tante che devo sedermi per non esserne sopraffatta.
Una giovanissima e radiosa zia Annie volteggia in un vestito verde e la stoffa sottile si gonfia e ondeggia, diventando onda e spuma tra le braccia del padre di Junior. Il suo sorriso è più aperto di quanto quello di Junior sia mai stato e brilla di autentica felicità.
Doveva amarla moltissimo, dovevano essere felici.
Ci sono io, a undici anni, con una corona di ginestre nei capelli e le braccia spalancate, con la lingua fuori dalle labbra e un'espressione dispettosa che non credevo mi appartenesse.
Zia Johanna ammicca dal dondolo, le mani perse tra le pagine di un libro, e zia Annie guarda l'orizzonte, annodando fazzoletti. E di nuovo io, a otto, nove anni, che gattono nella sabbia verso Junior per farmi scostare i capelli pieni di sabbia dal viso. Io a quindici anni, nella cucina di casa mia, con il mento di mio padre appoggiato sulla spalla e il blocco da disegno fra le mani.
Un minuscolo Junior mi guarda imbronciato, sotto i capelli arancioni e arruffati, con uno zainetto sulle spalle.
E poi ancora io, nell'acqua gelida e salmastra del lago; con un'espressione buffa e il naso sporco d'impasto di pancake, con un vestitino rosa che mi prudeva le gambe, china su me stessa per studiarmi le cosce arrossate; all'ombra di un albero con un fiore viola dietro l'orecchio; sulla riva del mare con una gamba sollevata per schizzare Junior, che tenta di fermarmi e contemporaneamente sfuggire all'obiettivo di zia Johanna.
«Hai sempre pensato che soltanto tu stessi male.» La voce di Junior sovrasta il suono sordo della mia testa vuota che si scontra contro il soffitto spiovente. Deve essersi andato a sciacquare il viso: gli occhi sono ancora rossi, e sembrano ancora più verdi, in questa luce dorata, ma il suo viso è meno congestionato. Si è tolto la camicia sporca di sangue e le sue lunghe mani sono piene di cerotti. È bellissimo, più bello di come l'abbia mai visto. Ha la bellezza delle cose dimenticate, dei ramoscelli spezzati, dei fiori colti, dei baci negati, degli uccellini feriti. Ora, con i suoi occhi stravolti dal pianto fissi nei miei, stretti in questo spazio angusto, so di amarlo davvero, non solo per la superficie senza increspature, ma per i segreti e gli oggetti spezzati che nasconde nei suoi abissi. «Non hai mai avuto idea di quanto tu sia importante per me.»
Scuoto la testa, piano, abbassando lo sguardo, incapace di impedire al vortice di amore e dolore che mi traboccano nel petto di paralizzarmi la lingua e prosciugarmi il palato.
Stringo fra le dita i bordi di una foto, le nostre gambe in bilico sul bordo del lago nella luce verde del bosco, e le mie mani tremano e i miei occhi si riempiono ancora di lacrime.
«Ho capito.» Mormora, cercando con le dita la cordicella della lampadina per far scendere per sempre la tenebra sul contenuto del suo cuore.
Trovo la forza di sollevare un braccio, piombo per le mie spalle incurvate, bloccando la sua mano a mezz'aria.
Devo deglutire quattro volte - le conto, per esserne certa - prima di sciogliere la mia lingua annodata «Cosa hai capito, Junior?»
Sbatte le palpebre, bloccato dalla mia stretta sul suo avambraccio «Che non sono...» deglutisce, socchiudendo le palpebre «Che non sono come ti aspettavi e...» china il capo, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco «Non voglio costringerti a stare con me, Will, se non mi ami. Non è per questo, che volevo vedessi.»
Io vedo te.
Le sue parole riescono a spezzarmi. Cado sulle ginocchia, cozzando col pavimento duro, boccheggiando in cerca di ossigeno.
La gabbietta rotola al mio fianco. Il legno marcio fruscia nella corsa.
Si ferma vicino alle mie caviglie. La accarezzo piano, singhiozzando.
È questo, che crede.
Che mi stia costringendo, che mi faccia pena.
Sono stata carente. E cieca. E ottusa. E sono così arrabbiata con me stessa da graffiarmi le braccia, affondando le unghie nella carne delle mie spalle.
Il mio cuore si dilania in brandelli, sanguinando fra le mie dita.
«Non hai capito nulla, allora.» Batto i denti, ferendomi la lingua, e smetto di artigliarmi le braccia, sporcandomi le palpebre con quello che resta sotto le unghie del mio sangue della mia pelle scottata dal sole e dalla doccia troppo vigorosa. «Sono stata stupida, Junior. E cieca.» Si china di fronte a me. Le nostre ginocchia si sfiorano e le sue mani scostando le mie dai miei occhi, cercando il mio sguardo. Devo sembrargli così fragile e distrutta che non mi sorprenderei se fosse lui, a non volermi più. «Ma non ti permetto di dire che non ti amo, o che sto con te per pietà.» Sussulta, stringendomi i polsi, ma non si muove. Si lascia investire dalle mie lacrime, impedendomi di farmi del male. «E ora non importa se ho rovinato tutto e non mi vuoi più, Junior, perché io continuo a vederti e a volerti, anche se non riesci sempre a tenerti tutto dentro.» Piango senza ritegno, posando la testa sulle sue cosce flesse. Lui mi lascia i polsi per accarezzarmi delicatamente la testa. Chi è che fa davvero pena fra noi due, Junior? «Non me ne frega niente se non riesci a perdonarmi,» sussurro sulla stoffa dei suoi pantaloni, sporcandola di lacrime e sangue e saliva «perché io ti amo lo stesso.»
Si ripiega su di me, posando la fronte sulla mia colonna vertebrale scossa dai tremiti. Siamo diventati una perla, come tutte le cose del mare, e i nostri corpi intrecciati e le nostre fragilità sono la nostra ostrica.
Mi lascia piangere per un tempo che sembra infinito, depositando piccoli baci sulla mia schiena attraverso il tessuto sottile.
«Per cosa dovrei perdonarti, mocciosa?» Il suo sospiro trapassa il suo vestito, scaldandomi la pelle.
Per non averti visto.
Non ho la forza di dirlo davvero, però. Scuoto la testa, asciugandomi una lacrima sui suoi pantaloni.
«Ti ho già perdonato per le candele, Will.» Mi bacia lo spazio fra le scapole, posando di nuovo la guancia sulla mia schiena «Non parliamone più.»
Annuisco, sgusciando dalla nostra posizione innaturale per riuscire ad abbracciarlo.
Il suo petto mi accoglie e le sue braccia trovano la strada dei mie fianchi. Appoggio il mento sulla sua spalla, ispirando il profumo dei suoi capelli mischiato al sapore delle lacrime sulle mie labbra.
«Ho paura, Junior.» Sospiro, immobile, il volto affondato nel suo collo e le gambe sulle sue.
Lui mi accarezza, leggero, le reni, giocherellando con la trama del mio vestito.
«Io no.» La sua voce è un mare senza onde. Riesce a cullarmi, calma e risoluta, normalizzando il battito del mio cuore e il ritmo del mio respiro. «Io accetto tutto, Will. La lontananza, le difficoltà, i musi lunghi, i capricci. So soltanto di essere innamorato di te e se vorrai dividere la mia vita con me io ne sarò felicissimo, quali che siano gli ostacoli.»
È così serio e sicuro e sereno, mentre lo dice, che non posso fare altro che fidarmi, tendendogli la mano per attraversare il mare in burrasca.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il diciassettesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

   
 
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