Capitolo III - Distacco
La
flebile luce del mattino filtrava attraverso le tende di pizzo,
colpendo il viso pallido coronato da lunghe ciocche corvine. I segni
scuri sotto gli occhi e la fronte aggrottata rivelavano la sofferenza
che si celava dietro le palpebre chiuse. La principessa Amelia
giaceva nel suo letto come una bambola di porcellana, dai cui occhi non
smetteva di sgorgare dolore in calde gocce salate. «Sollevi le
braccia... ecco, così. Ora trattenga il respiro... Dana! Forza,
non startene lì impalata! Afferra un nastro e tira!» Rilesse la stessa pagina
per l'ennesima volta, senza mettere a fuoco il vero significato del
testo, negli ultimi tempi gli capitava spesso e provava sempre lo
stesso fastidioso senso di smarrimento.
I medici avevano rilasciato
un comunicato ufficiale, in cui veniva annunciato che la futura regina,
troppo preoccupata per le sorti del suo regno, si era indebolita e
ammalata, ma che sarebbe presto guarita grazie al loro tempestivo
intervento.
Lina sospirò
sprofondando nella poltrona. Era una delle poche persone fidate a
conoscere la verità sulla crisi isterica di Amelia, così
era rimasta al suo fianco per impedire a qualche curioso di
ficcanasare. Non aveva però pensato all'aspetto pratico della
faccenda. L'abito le stringeva le costole in una morsa d'acciaio e,
nonostante i vari tentativi, non era riuscita ad allentare le stringhe
del corpetto che rischiavano di ucciderla.
Non sopportava neppure il
pizzo che si allargava dalle maniche dell'abito, penzolando molle
giù per l'avambraccio. Lo tirò su, provando a strapparlo
via, ma una fitta alla mano le impedì di continuare.
Osservò la zona dolente e si accorse del livido violaceo che,
come un braccialetto, le avvolgeva il polso e parte del dorso della
mano.
Zelgadis.
Non lo vedeva da quel
famigerato pomeriggio e non sapeva neppure dove si trovasse. Aveva
provato a fermarlo, ma lui l'aveva scacciata via come un insetto
molesto.
Come avesse ascoltato i
suoi pensieri, la principessa si mosse, mentre un lamento sommesso le
gorgogliava nel petto. Il nome dell'amato, ripetuto più volte in
deboli sussurri, iniziò a perdere senso e significato, un
insieme di sillabe sconnesse che si rincorrevano febbrili.
Un singulto strozzato, due pugni battuti sul letto e un lungo sospiro: Amelia aveva aperto gli occhi.
La vide fissare apatica il soffitto attraverso le palpebre gonfie, le braccia aperte in segno di resa.
Non era da Lina lasciarsi
andare a plateali manifestazioni d'affetto e, tuttavia, sentiva di
voler fare qualcosa per l'amica, ma le parole erano solo erbaccia in un
giardino bruciato.
Si limitò allora a stendersi accanto alla principessa, quasi con la paura di romperla.
Amelia sembrò
rendersi conto solo in quel momento della presenza della maga, la
guardò inerte e poi la sua attenzione venne catturata dai
riflessi infuocati dei capelli scarlatti. Ne afferrò una ciocca
con indolenza e prese a rimirarla come fosse una pietra preziosa.
«Da quanto tempo mi trovo qui?» chiese in un sussurro rauco.
«Ieri
pomeriggio» Lina si sforzò di eliminare ogni traccia di
emozione dalla propria voce, ma era difficile dimostrare pura
solidarietà senza sporcarla con altri sentimenti.
«E tu invece?» rigirò la ciocca rossa tra le dita «sei stata sempre con me?»
«Sì,
certo.» Lina accennò un sorriso per spezzare la tensione,
ma la principessa non colse l'occasione.
«Mi dispiace,
non avresti dovuto...» la guardò di traverso «...hai
fatto la veglia ad un cadavere.» le lacrime avevano lasciato il
posto ad una cupa rassegnazione.
Lina non
trovò la forza per contraddirla o rassicurarla e quel muto
assenso la incoraggiò a proseguire «La felicità non
mi appartiene più, da oggi e per sempre» sospirò,
lo sguardo ancora fisso al soffitto e il volto sempre più
scavato, come se ogni parola la consumasse.
Le strinse la mano, come faceva sua sorella quando da piccola le capitava di avere degli incubi.
Aveva sconfitto demoni
superiori, affrontato la morte a viso scoperto, vincendo ogni partita.
Eppure non c'era niente che potesse fare per andare contro le decisioni
di un misero essere umano.
La cerimonia di
vestizione della principessa era un rituale mattutino a cui ogni
cameriera di corte aspirava di poter assistere e partecipare.
Significava dedicarsi a stoffe pregiate e gioielli preziosi smettendo
per sempre di occuparsi della manutenzione del castello: nessuna mano
rozza, infatti, aveva il permesso di toccare la famiglia reale.
«Dana! Ti ho
detto di tirare, non di spezzarle il busto!» strepitò una
delle più anziane verso una giovane cameriera rossa in volto.
In tutto quel caos
di stoffe e merletti, la principessa era una marionetta dal volto
imperturbabile, seguiva le direttive in silenzio e senza entusiasmo. Si
muoveva con lentezza, persino le palpebre si alzavano e abbassavano
fiacche sugli occhi di zaffiro. Eppure si sentiva una bomba pronta ad
esplodere, riusciva quasi a percepire l'energia soffocata anelante lo
scoppio, che premeva contro le pareti del proprio essere come una fiera
dietro le sbarre.
Il rito si era concluso,
Amelia era perfettamente impacchettata in seta e pizzo blu cobalto, i
capelli raccolti in una delle solite complesse acconciature e il volto
serafico truccato a dovere per mascherare le occhiaie.
Era una vittima
sacrificale, un'offerta al dio della guerra, e presto sarebbe stata
reclamata. A lei, però, non importava: non avrebbe scansato il
pugnale, ma aiutato l'assassino a prendere la mira.
La paladina della giustizia era un guscio vuoto di sogni infranti e i cocci del suo cuore erano polvere nel vento.
«Sua Altezza, è bella come un angelo!» esclamò l'anziana domestica che dava le direttive. Amelia rispose con un sorriso appena accennato e con un gesto della mano invitò tutte ad abbandonare la stanza.
La disperazione l'aveva fatta prigioniera, ma il tempo aveva continuato a scorrere inesorabile.
Quarantasei erano i membri della Dieta imperiale.
Quarantasei era il numero delle province dell'impero.
Quarantasei erano i giorni
che intercorrevano tra la firma dell'accordo matrimoniale e il giorno
in cui lo sposo avrebbe fatto visita alla sposa.
Elmekia era un impero
fondato sulla numerologia esoterica, ad ogni numero era assegnato un
preciso valore simbolico da cui non si poteva prescindere. Il
quarantasei era un numero sacro e inviolabile, di auspicio per la buona
riuscita di un evento.
Amelia aveva vissuto quei
giorni con angoscia, segnandoli sul calendario con la stessa
solennità di un condannato a morte.
«Sarà
grossolano e volgare, del tutto privo di classe o bellezza. Ho
già conosciuto molti nobili di Elmekia... dei veri barbari
misogini, incapaci di prendere una decisione prima di aver consultato
il sacerdote.» disse trattenendo le lacrime «Ma io
sarò la regina di Saillune e potrò imporgli le mie
usanze, giusto?» rivolse a Lina un sorriso che però non
fece in tempo a raggiungere gli occhi.
L'amica si
alzò, con un gesto ormai abituale lisciò le pieghe del
vestito avorio, e si avvicinò alla principessa.
«Certo!» le sorrise intrecciando le mani alle sue.
«La donne più forti e combattive nella storia della
Penisola appartenevano tutte alla casata Remington, non lo
dimenticare.» le carezzò una guancia con fare materno
«Tua madre era forte e fiera e tu, che sei sua figlia, non sarai
da meno!»
«Hai ragione. Abbiamo vinto molte battaglie...» disse incerta.
«Esatto!» le afferrò entrambe le mani «ora andiamo, la corte aspetta
solo te.» disse aiutandola a mettersi in piedi.
Amelia sapeva che
quel finto entusiasmo era solo un mero palliativo, ma vi si
abbandonò, troppo stanca per combattere ancora una volta contro
sé stessa.
Immergersi nella lettura
significava non pensare, perdere la concentrazione, invece,
rituffarsi nel mare di melma che era diventata la sua vita.
Aspirò una densa
boccata di fumo dalla piccola pipa e si lasciò andare contro lo
schienale della poltrona. La stanza era spaziosa, al centro vi era il
lungo tavolo di legno massiccio al quale era seduto; vicino alla
finestra un letto singolo e dal lato opposto una libreria, riempita con
vari libri selezionati dalle molte biblioteche del castello; in
generale, l'arredamento poteva dirsi più da servitore che da
ospite, ma a lui andava bene.
Il fatto che lo studio
improvvisato si trovasse in una torre lontana dal cuore pulsante della
reggia lo faceva sentire al sicuro, da Amelia e da se stesso.
Stava osservando le volute
argentee risalire fino alla lampada, quando la porta venne spalancata e
richiusa con violenza, tanto che poté sentirla tremare sui
cardini.
Le tende erano tirate e
l'unica luce della stanza bastava a malapena ad illuminare il tavolo da
lavoro, ma nell'oscurità riuscì a distinguere il profilo
di un abito femminile.
Una bagliore giallognolo si
irradiò dalla porta a tutte le pareti, in una ragnatela di raggi
luminescenti che scomparvero nel giro di pochi attimi.
La figura allora si mosse, ma aveva il fiato corto e lui la riconobbe ancor prima di averla vista.
La gonna di organza blu
catturò il debole chiarore della stanza, mentre i piccoli
fermagli d'argento tintinnavano ad ogni passo. Zelgadis osservò
rapito la linea del collo sottile come un giunco, ma non ebbe il
coraggio di incontrare il suo sguardo per paura di trovarvi odio e
rancore.
«Che ci fai qui?» chiese e il suo tono risultò più brusco di quanto volesse davvero.
«Volevo vederti...» la voce della principessa tremò come la fiamma di una candela.
Zelgadis mise da
parte la pipa e si alzò «E perché mai?» disse
senza guardarla, con i palmi aperti poggiati sul tavolo, come se stesse
studiando la cartina geografica davanti a sé.
Ti ignorerò e tu, troppo ferita nell'orgoglio per restare, te ne andrai...
Un'altra sarebbe
fuggita via da quel gelo, ma lei era Amelia ed era sempre stata
disposta ad affrontare la bufera pur di stare con lui. Si
avvicinò al tavolo e pose le piccole mani bianche su quelle
ruvide di pietra.
Quel breve contatto gli
chiuse la gola e quasi si sentì soffocare e risucchiare nel buio
della stanza, mentre il cuore rimbalzava come una palla impazzita nel
torace. Si permise di sostenere lo sguardo della principessa, per
trasmetterle una gelida indifferenza, poi si allontanò esibendo
una smorfia nauseata, e con uno strappo deciso scostò le pesanti
tende rosse dalle finestre.
La luce del giorno
penetrò nello studio, così intensa da ferirgli gli occhi.
Avrebbe preferito darle le spalle e continuare a guardar fuori
piuttosto che fronteggiarla.
Sono solo una vile chimera. Aveva bisogno d'aria...
«Non
aprirla!» disse allarmata la principessa e lui non aveva
resistito alla tentazione di voltarsi nella sua direzione «Ho
fatto un incantesimo insonorizzante» si spiegò Amelia
arrossendo.
Il cuore gli si era spaccato e già cominciava a sanguinare, ma Zelgadis ghignò sprezzante.
«Il pericolo non le si addice, sua altezza» rise amareggiato «se scoprissero...»
«Non lo faranno! Lina mi coprirà, me l'ha promesso» lo interruppe decisa aggirando il tavolo.
Zelgadis si ritrasse ancora di più, mentre lei provava a colmare la distanza che li separava.
Amelia aggrottò le sopracciglia contrariata e sbuffò «Vigliacco!» disse battendo un piede per terra.
«Prego?»
spalancò gli occhi e la bocca, mentre un altro sentimento si
faceva largo tra la folla ed emergeva prepotente.
«Hai sentito bene! Sei diventato anche sordo?» Amelia stava ritrovando improvvisamente il suo cipiglio.
«Sei un
dannato vigliacco! Dove credi di andare?» alzò le braccia
ad indicare l'intera camera. «Vuoi scappare dalla finestra?
Accomodati! Non farai molta strada... ci sono arcieri appostati ad ogni
angolo della città, con l'ordine di colpire ogni animale,
persona o oggetto dall'aria sospetta!» il respiro in affanno e le
gote arrossate, la principessa aveva urlato con tutto il fiato che
aveva in corpo, stringendo i pugni e battendo di nuovo i piedi.
«Ti sei sfogata?» la guardò come si guarda una bambina sciocca e capricciosa.
Amelia non rispose,
rimase a fissarlo furiosa e poi, come una leonessa, sferrò
l'attacco a sorpresa. Si avventò contro di lui, nonostante il
peso del vestito e dei gioielli, con l'intenzione di schiaffeggiarlo,
ma il ragazzo era più veloce e prestante. Le bloccò
entrambe le mani dietro la schiena, tirando giù con forza le
braccia, senza curarsi dei lividi che la sua stretta di pietra avrebbe
potuto procurarle.
Aveva fatto di tutto per
tenerla lontana, per quarantasei giorni non era uscito da quella torre
solitaria se non per brevi passeggiate e saltuarie visite al parco, ma
quella improvvisa vicinanza aveva annullato ogni sforzo. Poteva sentire
il battito frenetico del suo cuore e il ritmico alzarsi del suo petto
contro di sé, era inebriato dal profumo di pesca e vaniglia e
rapito dai riflessi che il sole donava a quegli occhi blu come l'oceano.
Non sapeva cosa le passasse
per la testa, se i loro pensieri collimassero, ma il totale abbandono
che lesse nel suo sguardo e la resa che percepì attraverso il
tessuto, furono sufficienti a fargli perdere il controllo. Con poche
falcate la spinse contro la scrivania, mentre le loro labbra si
scontravano, ancora una volta in preda alla disperata passione. La
stoffa leggera del vestito e quella pesante delle sottovesti era troppa
e ingombrante, Zelgadis provò più volte a sollevarla
senza successo, ma il gemito frustrato della principessa lo convinse a
scegliere la via più drastica. Estrasse il pugnale dal fodero
che teneva sempre legato alla cintola e lacerò l'abito, uno
strato alla volta. Quando finalmente intravide le gambe candide, le
afferrò senza grazia e sollevò la ragazza fino a metterla
seduta. Amelia gettò la testa indietro, aggrappandosi alle
spalle solide, mentre il ragazzo iniziava la sua personale tortura.
Lei era lì, di nuovo
sua come se nemmeno un giorno fosse passato da quel fatidico
pomeriggio. Poteva toccarla, baciarla e morderla senza riguardi, poteva
di nuovo razziarle il respiro e lasciarsi strappare il cuore dal petto,
ma il pensiero che quella potesse essere l'ultima volta quasi lo
annientò.
Era stato stupido a credere
che la lontananza avrebbe spento la loro fiamma, perché era
bastata un'unica scintilla a farla divampare impetuosa.
Aveva la mente appannata,
mentre i battiti accelerati gli rimbombavano nelle orecchie
mischiandosi al rincorrersi dei loro respiri e al rumore degli oggetti
che cadevano giù. Nemmeno lo schianto della lampada
riuscì a distoglierli mentre si avviavano verso l'oblio, morendo
uno nella braccia dell'altra.
Amelia si strinse di
più al suo petto e lui poggiò il mento nell'incavo del
collo pallido, lasciandosi cullare dal ritmo crescente dei loro corpi,
i fianchi della ragazza come unico appiglio per non precipitare
nell'abisso.
La sentì tremare
sotto di sé e, nonostante nessuno potesse sentirli, si
affrettò a far suo l'ultimo sospiro, rubandolo alle labbra rosse
e gonfie in un estremo atto possessivo. La spinse contro il tavolo,
schiacciandola con il suo peso contro i fogli su cui prendeva appunti
da più di un mese.
Senza staccarsi,
prolungando la dolcezza di quel contatto, baciò i seni
imprigionati nel corsetto, risalì la linea del collo, le guance,
il naso e le palpebre chiuse. L'acconciatura era ormai un lontano
ricordo e lui bramava di poter affondare le dita tra le ciocche
corvine, così tolse i fermagli e con minuzia sciolse ogni
singola treccia, finché il manto dei capelli non ricoprì
il ripiano.
Amelia lo guardava con il volto disteso, carezzando ogni pietruzza sul suo viso e sul suo petto e sospirando di tanto in tanto.
Quella pace illusoria non era destinata a durare a lungo.
«Come lo spiegherai?» mormorò mordicchiandole il lobo di un orecchio.
«Cosa?» forse troppo confusa dall'inaspettata sequenza di eventi, la ragazza non sembrò capire.
Zelgadis
arretrò di un passo, avvertendo il freddo penetrare la scorza
dura della propria pelle e raggiungere le ossa. Quando la vide,
smarrita, coprirsi con vergogna, capì che l'incanto era finito,
dissolto da poche semplici parole.
«Non ho
bisogno di giustificarmi, se è questo che intendi» disse
piccata, castando un incantesimo riparatore sull'abito. «Io
sarò la regina e lui è soltanto l'ultimo di tre figli
maschi» la ascoltò stupito, non avendo mai sentito la sua
voce colorata di arroganza.
Era deciso a guardare oltre quella nuova maschera, l'avrebbe distrutta sul nascere.
«E quindi?» la imprigionò di nuovo tra lui e il legno liscio.
«E quindi si dovrà accontentare di un giocattolo di seconda mano» gli sussurrò a fior di labbra.
Il pensiero che
qualcun'altro l'avrebbe avuta, toccata e fatta sua lo riempì di
disgusto e sentì la bile salire a incendiargli la gola. Per
quanto lei potesse fingere cinismo, le lacrime la tradirono luccicando
inopportune sulle ciglia.
Zelgadis
indietreggiò ancora, lasciandosi andare contro la poltrona alle
sue spalle, lo sguardo perso nel vuoto e le mani avvinghiate ai capelli.
Amelia, che era
riuscita invece a mantenere un certo contengo, gli si
inginocchiò accanto posandogli le mani sulla gambe «Oggi
è il giorno...» si fermò per non piangere, ma
Zelgadis non aveva più bisogno di parole.
La avvolse in un
abbraccio che voleva essere rassicurante, non badando alla posizione
scomoda o all'eventualità di ferirla, incapace com'era di dosare
la sua forza.
«Ho paura» un soffio leggero che non gli sfuggì.
Amelia aveva paura e
lui non sarebbe stato lì a proteggerla dal barbaro elmekiano:
era questo il pensiero che lo tormentava. Non importavano i suoi
desideri e le sue volontà, il fatto di volerle stare
egoisticamente accanto era solo un aspetto secondario. Come poteva
accettare di saperla sola e indifesa nella gabbia della tigre?
«Non devi
averne» le disse aumentando la presa «Ovunque io
andrò, in qualunque angolo della Terra o del Mare del Caos, ti
amerò...» gli si incrinò la voce e fece una pausa
per ritrovarne il controllo «e tu, non sarai mai da sola
perché questo pensiero ti terrà per sempre
compagnia» deglutì a stento.
«E poi» sospirò «io e Gourry abbiamo parlato di recente. Gli ho chiesto un... favore.»
Amelia fu colpita da
quelle parole, tanto da staccarsi per poterlo guardare «Che
favore?» sgranò gli occhi «Aspetta! Vuoi dire che si
è...» le parole le morirono tra i denti.
«Non ancora,
ma probabilmente lo farà a breve e lui è in debito con
me» disse grave. «Ma non credere che lo farà solo
per questo. Aveva i suoi secondi fini quando ha accettato e, se lo
conosci bene, sai già a cosa mi riferisco.»
La principessa
aggrottò la fronte, sforzandosi di liberare la mente dalla
confusione per pensare con lucidità ai motivi che avevano spinto
l'amico ad un tale sacrificio.
«La spada!»
esclamò di colpo «Alle guardie reali forniamo spade con
lamina in vantablack.» continuò scioccata dalla sua stessa
scoperta.
Chiedere a Gourry
quel favore gli era costato molte notti insonni, sapeva già che
avrebbe accettato senza riserve e per questo il senso di colpa lo aveva
divorato fin da subito.
Il fatto che l'amico fosse
alla ricerca di un'arma lo aveva in un certo senso rassicurato, anche
se continuava a sentire una nota stonata ronzare come una mosca nella
sua mente.
«E Lina...» provò a dire Amelia, ma lui la interruppe all'istante prendendole il volto tra le mani.
«Lei non deve sapere niente! È una questione che non ci riguarda.»
«Ma Zel, cerca di capire, lei è mia amica e io non...» provò a divincolarsi senza successo.
«Lui ha
accettato, sa a cosa deve andare incontro, e se Lina venisse a saperlo
prima di sicuro si metterebbe in mezzo» aveva messo da parte ogni
scrupolo per proteggerla, non le avrebbe permesso di mandare tutto a
monte.
«Come
potrò guardarla in faccia senza sentirmi in colpa?» aveva
ripreso a piangere come una bambina. I pesi sul suo cuore erano
diventati una catasta di pietre che non riusciva più a tenere in
equilibrio tra le braccia.
Zelgadis stava per
risponderle ma il suono intenso e prolungato di un corno reale irruppe
nella stanza facendo tremare i vetri delle finestre.
Amelia lo guardò smarrita e lui a sua volta si sentì crollare il pavimento sotto i piedi.
«Sono arrivati» squittì la principessa portandosi le mani alla bocca.
Qualcuno
bussò alla porta dello studio con veemenza. Il sangue
defluì dalle guance della principessa e un brivido di puro
terrore le percorse la schiena al pensiero della fine che avrebbe fatto
Zelgadis se l'avessero trovata lì.
Si affrettò a
raccogliere i fermagli d'argento e a rassettare il vestito come meglio
poteva, mentre Zelgadis urlava di non essere presentabile in quel
momento. Peccato che l'incantesimo scagliato dalla principessa fosse
ancora attivo, così l'ospite inatteso forzò la serratura
con un colpo secco.
«Scusate,
scusate, scusate. Spero di non aver interrotto nulla!» Lina si
fece largo a braccia alzate e occhi chiusi all'interno della stanza.
«Puoi aprire gli occhi!» la rimproverò esasperato il ragazzo.
«Meglio
così, non è ora di farvi trovare nudi! Gli elmekiani sono
sulla via di Saillune e il loro arrivo è previsto per questa
sera.»
Amelia tirò
un sospiro di sollievo e allentò la presa sui fermagli che
già avevano iniziato a lasciare segni rossi sui palmi.
«Quindi la cerimonia non si terrà questa notte?» chiese rinfrancata.
«No, gli elmekiani celebrano riti notturni solo per compiere azioni offensive o cose del genere.»
«E tu come fai
a conoscere così tanti dettagli?» le domandò
scettico Zelgadis «Anzi no, non dirmelo. Hai minacciato un
valletto?»
«La cuoca» ammise rimirandosi le unghie con aria soddisfatta.
«Mi sembra giusto.»
«Ora però non c'è più tempo... Amelia, ti aspetto fuori, fai in fretta.»
Alla fine era giunto
il fatidico momento del distacco. Le avrebbe detto addio per sempre e
di lei non gli sarebbe rimasto nient'altro che una manciata di ricordi,
troppo miseri per potergli riempire il buco nel petto.
Erano uno di fronte
all'altra a guardarsi, per imprimere nella mente dettagli all'apparenza
insignificanti. Di lei avrebbe conservato il profumo dolce di
gelsomino, le pagliuzze verdi che gli capitava di intravedere quando si
trovavano in penombra, la morbidezza della sua pelle e la risata
argentina che nasceva spontanea quando era allegra e felice.
La abbracciò con
gentilezza, inspirando il profumo dei capelli scuri e lucenti, e la
baciò senza fretta, per poter assaporare per l'ultima volta il
suo sapore, affidandole l'ultimo pezzo del proprio cuore.