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Autore: Ivola    27/01/2015    2 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Un mese d'attesa come al solito. Ormai ho preso questo brutto andamento. Spero di riuscire ad aggiornare con gli ultimi capitoli più velocemente (ne dovrebbero restare tipo tre o quattro più epilogo, dipende se decido di lasciare le cose come prima o di aggiungere un altro capitolo, dal momento che questo mi è uscito... oceanico, penso sia il capitolo più lungo di Blur - e fu così che con questa premessa non lo lesse nessuno), a febbraio comunque dovrei avere pochi impegni, sempre se la scuola non decide di distruggermi la vita come in quest'ultimo mese.
Per quanto riguarda il contenuto del capitolo... è molto introspettivo. Mi sono informata bene su tutte le patologie mentali e i farmaci che vengono nominati, quindi sappiate che la discussione sul comportamento di Ben non terminerà qui. Blur, dopotutto, tratta anche di questo, del capovolgimento delle persone: buono o cattivo? Bianco o nero? Questo personaggio ha fatto la cosa giusta o sbagliata? Tutte domande aperte che sta al lettore interpretare :3
Con questo XXIX (perché è troppo figo scriverlo a numeri romani °ç°) si apre una quarta, ultima parte di Blur, che però non durerà molto - io già piango per quando questa storia sarà finita, come già sapete è la long a cui tengo di più e... e... boh, mi autoemoziono. 
Se ci avete fatto caso, btw, non sto mandando più messaggi d'aggiornamento perché i seguaci ormai sono veramente tanti (g r a z i e di cuore a tutti, davvero davvero, vi adoro) e aprire più di 50 finestre mi fa impallare il computer (quindi si tratta più di un problema tecnico che di mancanza di voglia x°). Tra parentesi l'html mi odia, ad alcuni capitoli mi si è cancellato il banner per non so quale motivo e quindi dovrò rimediare. E penso che un giorno di questi farò pulizia di tutti quei caporali che adesso mi cominciano a dare sui nervi e li sostituirò con delle virgolette basse normali.

Come sempre, pagina facebook QUI, gruppo scambio recensioni QUIaccount Ask! qui, e blog tumblr qui. Sembra la lista della spesa, aiuto.
Adesso vi lascio decisamente al capitolo - ché io sono ancora distrutta per la morte di Londie, ma vabbé, mi sono abituata a convivere con l'angst.
Buona lettura! ♥


Il titolo del capitolo viene da "Take me to church" di Hozier.

Questo nuovo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 










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Blur

(Tied to a Railroad)






029. Twenty-ninth Chapter – Offer me that deathless death.


 
Il cielo era color carta da zucchero – un colore che aveva sentito nominare un paio di volte a Capitol City, durante i suoi soggiorni da mentore –, un misto tra il grigio e l'azzurro, vivacizzato da qualche rada nuvola fumosa e da un vento pungente. Guardò in alto e si lasciò sferzare il viso da quella brezza di fine autunno. Respirò. Quasi gli faceva male, respirare, ma era uno dei dettagli che lo faceva sentire ancora vivo, perché ormai aveva perso la cognizione dello spazio, del tempo e di se stesso. Non gli restava nulla – a stento l'aria.
Klaus mosse qualche passo lento in direzione della porta del maniero. Non voleva entrare davvero. Avrebbe preferito di gran lunga starsene chiuso in casa tutto il giorno, sotto le coperte e con il viso affondato nel cuscino, pregando di riuscire a prendere sonno per sperare di vederla ancora un'altra volta, almeno lì, almeno nei suoi sogni. Aveva dormito così tanto in ospedale che quasi non ricordava più cosa volesse dire essere svegli.
Dopo il bombardamento alla prigione da parte dei ribelli, Klaus era stato salvato quasi per miracolo insieme a pochi altri feriti in un ospedale di fortuna; dopo la vittoria della guerra, i ribelli avevano conquistato Capitol City e sfruttato l'ospedale ufficiale della città, pieno di medici capitolini che avevano deciso di passare dalla parte dei vincitori per evitare gravi ripercussioni – non che ne avessero avute, in ogni caso, considerando quanto i ribelli fossero stati magnanimi con i prigionieri. Dunque, era stato definitivamente curato lì e tenuto a letto, sotto antidolorifici e sedativi per giorni, settimane intere. Aveva sentito di sfuggita da un infermiere che commentava con ammirazione, o forse pietà, su tutte le ferite a cui era riuscito a sopravvivere: frustate sulla schiena e sul torace, di cui qualcuna infettata dal sudiciume, costole incrinate o spezzate, contusioni, tagli più o meno profondi, stomaco semi-infilzato da un asta di ferro dopo il crollo della prigione, disidratazione, pneumoconiosi (l'aveva chiamata così?) ai polmoni, falangi spezzate, ematomi sul viso e uno dei timpani danneggiato. Avrebbe voluto ridere tra sé, sembrava l'autopsia di un cadavere e non di una persona ancora viva. E non riusciva a concepirlo. Sarebbe dovuto essere morto e invece qualcosa lo teneva ancora legato a questo mondo, come se non volesse lasciarlo andare. Lo rendeva pieno di rabbia, perché sarebbe dovuta essere London quella ancora viva, non lui. Non lui.
Alla fine, era tornato al Distretto Sei. Molto presto, probabilmente, avrebbero anche cancellato quella stupida denominazione territoriale, ma Klaus sapeva che avrebbe continuato a chiamare quel luogo così. Era la cosa più simile a una casa che avesse mai avuto – perché Valhalla era stata più di una casa, era stato un mondo onirico e ormai fittizio ai suoi occhi che avevano visto i peggiori orrori immaginabili.
Il Distretto Sei era grigio come sempre, ma ora, dopo la rivolta, ancora più pieno di polvere, macerie e case abbandonate o distrutte. In strada regnava un silenzio quasi irreale. Le poche persone che vedeva in giro avevano i volti cupi, stanchi, inusuali per della gente che aveva appena vinto una guerra. La colpa, quindi, doveva essere della morte che aveva infestato tutta la nazione, portando via bambini, parenti, amici, intere famiglie. Portando via donne, madri, figlie, sorelle, mogli. 
Portando via London. Ma Klaus sapeva perfettamente che la colpa non era da attribuire alla guerra. La colpa di tutto, per lui, si riversava in un'unica persona, che ora probabilmente avrebbe rivisto. Era una sensazione che gli pizzicava le tempie: sapeva, non importava come, ma sapeva che Benjamin era ancora vivo e che era tornato al Distretto proprio come lui.
Prima di raggiungere Klaudia, Klaus aveva pensato di tornare nella casa in cui vivevano lui e London prima della fuga in Europa, ma si era ricordato che l'avevano completamente trafugata, e non era pronto a vedere i propri ricordi completamente distrutti, in balia della degradazione. Così era andato a casa dei suoi genitori. Gli aveva fatto uno strano effetto rientrare dopo così tanto tempo – gli sembravano passati secoli – in quella villa austera e possente. C'era odore di stantio, di muffa, di vuoto. Quando aveva visto il sangue incrostato sul pavimento – apparteneva alle cervella si suo padre o di sua madre? – era stato investito da una nausea prepotente che l'aveva spinto a rimettere tutto il cibo biologico ingerito in ospedale nelle ultime settimane. Aveva, poi, raggiunto la sua vecchia stanza e si era letteralmente gettato sul letto, mandando al diavolo le ridicole stampelle dategli in dotazione per le operazioni chirurgiche da poco ricevute, ed era rimasto lì per ore senza fare nulla, con gli occhi chiusi, i pensieri lontani e il cuore in subbuglio. 
Era stato il pensiero di Klaudia a spingerlo ad alzarsi. London avrebbe voluto di sicuro riabbracciarla e non perderla mai più di vista, quindi lui avrebbe dovuto assicurarsi che stesse bene e al sicuro. Perché, dopotutto, Klaudia era anche sua figlia e le voleva bene. Non importava che il vero padre fosse in quel momento il suo peggior nemico. Doveva imporsi mentalmente che Klaudia era un modo per essere più vicino a London, non a Ben.
Era rabbrividito a quel pensiero, riflettendoci meglio: Klaudia non era un oggetto, né un modo per riportargli London alla memoria. Klaudia aveva una propria mente, una propria vita, un proprio futuro e non aveva alcun peccato, alcuna colpa. Tutti i loro errori non si sarebbero riflettuti su di lei, perché lei era un'anima innocente.
Si era ricordato, sulla strada del maniero dei Bridge, che forse Klaudia ancora non sapeva della madre. Si sentì male al pensiero che sarebbe dovuto essere lui a dirglielo. Quasi non ebbe più la forza di camminare. Ebbe una fitta allo stomaco e l'orecchio colpito dall'esplosione, seppur in via di guarigione, cominciò a ronzargli.
Si era come bloccato, di fronte alla porta, fissandone i dettagli davantì a sé con occhi vacui. 
Ma alla fine avanzò di qualche ultimo passo e bussò. 

Klaus non aveva ragionato su chi sarebbe andato ad aprirgli, ma nel vedere Erzsébet sull'uscio della porta si sentì abbastanza sollevato. Lei, però, sembrò assai più sorpresa, come se non si aspettasse di trovarlo lì in carne e ossa. Si portò una mano alle labbra dischiuse ed emise un leggero singhiozzo prima di abbracciarlo in una stretta commossa. Quasi... materna. Klaus si sentì diventare molle in quell'abbraccio. Avrebbe voluto ricambiare, ma non ci riuscì. Rimase immobile, sentendo le lacrime della donna bagnargli leggermente il collo. 

« Stai... stai bene... » sussurrò Erzsébet, sciogliendo la stretta per guardarlo negli occhi. Si soffermò sul suo viso stanco e ancora ornato dalle cicatrici e cambiò espressione, diventando più preoccupata. Anche lei, però aveva un volto provato e sciupato. Klaus la trovava molto più invecchiata, sebbene avesse poco più di una ventina di anni di lui: i capelli castani spenti, striati di grigio, la fronte e il collo decorati da rughe sconnesse e le spalle smunte, ricurve. 
Voleva tanto risponderle. Dirle che, no, non stava bene. Essere vivo era una mera forzatura a cui era costretto. E si chiese se sapesse di London, vacillando. Pensarla... morta, lo rendeva ancora debole, scosso. Come se lo credesse ancora un incubo da cui potersi risvegliare. Uno psicologo avrebbe detto che Klaus era, in quel momento, nella fase di negazione del dolore. In ogni caso, non voleva avere la responsabilità di doverlo dire anche a sua madre. 
Qualcosa nel suo sguardo adulto, però, gli fece capire che anche lei aveva saputo. Fu una consapevolezza che attraversò gli occhi di entrambi – quelli di Erzsébet si inumidirono di lacrime fresche.
Klaus annuì mestamente, mantenendo l'espressione che lo caratterizzava da settimane – un'espressione distaccata, dura e al contempo piena di dolore – e trovando il coraggio di poggiarle con freddezza una mano sull'avambraccio. Era il massimo che riuscisse a fare, ma anche lei, comunque, meritava un po' di conforto per la perdita subita. 
« Dov'è Klaudia? » fu la prima cosa che chiese. Gli sembrava di non parlare da una vita intera, perché la voce gli uscì roca, più bassa di quanto aveva pensato.
Erzsébet rimase per qualche istante con il viso teso, poi annuì e lo invitò in casa, facendogli strada verso il salotto al pianterreno. 
Prima ancora di entrare in quella stanza, prima ancora di incontrare il viso della bimba, Klaus scorse da lontano i suoi riccioli albini e il cuore, la voce, il respiro, gli si bloccò ogni cosa. Klaudia, come per istinto, si voltò proprio in quel momento verso di lui; fece cadere le bambole che aveva tra le mani sul pavimento e lanciò un gridolino che lei stessa non poté sentire. La bambina si alzò di scatto e corse verso il papà. Klaus la prese in braccio e la alzò in aria, per poi stringerla forte al petto. Per poco non barcollò, rischiando di riaprire le ferite delle operazioni per lo sforzo, ma non gli importava. Stava bene, era salva.
Sentì Klaudia cominciare a piangere a dirotto, avvolgendogli le braccine intorno al collo, e così pianse anche lui. Furono soltanto lacrime calde e silenziose, all'inizio, ma poi divennero un pianto liberatorio, di sfogo e sollievo al contempo. Non avrebbe mai voluto che Klaudia lo vedesse piangere, ma fu più forte di lui, non riuscì a fare nient'altro. Voleva soltanto ringraziarla mentalmente per il fatto di essere lì, di essere viva, in braccio a lui.
Perché Klaudia era un timido raggio di luce tra una coltre di nuvole, in quel momento. L'unico miracolo in un oceano di disperazione.
Eccola, la bambina che gli aveva salvato la vita con il solo fatto di essere venuta al mondo, la bambina che ora lo stava salvando di nuovo da un baratro buio e senza fine.
Erzsébet si portò una mano al cuore e fece un leggero sorriso di commozione, a quella scena, ma subito le si incrinò. Lanciò un'occhiata in direzione delle scale e tirò su con il naso, preparandosi ad una conversazione difficile. 
Doveva assolutamente parlare con Klaus.

Aveva ancora Klaudia in braccio, quando si voltò verso la donna. 
« Grazie » mormorò piano, senza riuscire a trovare altro da dire. « Per averla protetta » aggiunse. 
Erzsébet annuì e Klaus a quel gesto si sentì finalmente libero di andare via, di tornare a casa, di tornare nella sua stanza a degradarsi. Il massimo che avrebbe fatto sarebbe stato prendersi cura della bambina. E basta. Non c'era altro scopo nella sua vita, ormai. 
Si voltò e fece per raggiungere l'ingresso senza chiedere altro, ma lei lo bloccò. 
« Klaus, aspetta » gli disse, con un tono di voce fin troppo tentennante, insicuro. 
Klaus avrebbe voluto ignorarla e andarsene, ma qualcosa lo fermò. Non voleva restare in compagnia di quella donna, della madre di sua moglie e dell'uomo che l'aveva uccisa. Non voleva restare tra quelle mura che lo facevano sentire di secondo in secondo più inquieto. Eppure c'era qualcosa che lo trattenne. 

« Devo parlarti » spiegò la donna, vedendolo tornare sui suoi passi. 
« Di cosa? » domandò lui, con un leggero e fastidioso presentimento.
« Di London e... di Ben. »
Klaus pensò che era stata furba. Mettere London in primo piano, quando era palese sin dal principio che volesse parlargli del figlio. Lo proteggeva ancora, dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutto il male che aveva causato? Si chiese fino a che punto una madre potesse spingersi per difendere il frutto del proprio grembo.
London aveva rischiato la vita per Klaudia, Shyvonne aveva cercato di contrastare la caccia di Capitol – certo, un po' troppo tardi per qualcuno che vuole dimostrare l'affetto nei confronti del figlio. In ogni caso, erano morte entrambe. Entrambe sparate dai Pacificatori, una al cuore e una alla testa. 
Sentì, ancora una volta, un pizzicore alla base degli occhi: due donne erano morte per salvarlo. Due sacrifici per una vita che adesso lui non voleva neanche più vivere. 
Probabilmente, però, anche Erzsébet si sarebbe fatta uccidere per salvare Benjamin. E adesso doveva giocare le sue carte. 
Klaus si stupì di volere ascoltare che cosa avesse da dire. Forse voleva soltanto restare ancora un altro po' lì per respirare la stessa aria che aveva respirato London, in quella casa. O forse voleva da quella conversazione altri motivi per odiare Ben, semplicemente.

« D'accordo » si limitò a risponderle, rivolgendole uno sguardo impenetrabile. Fece scendere Klaudia, ma la prese comunque per mano e insieme seguirono Erzsébet in cucina.
« Vuoi qualcosa da bere? » domandò Erzsébet, una volta raggiunta la stanza, aprendo una dispensa accanto al frigorifero. Non aspettò neanche che Klaus replicasse, perché cominciò a maneggiare un paio di bustine di tè e un pentolino d'acqua bollente. 
« No, io non... » Klaus scosse la testa e si massaggiò una tempia. « Di cosa devi parlarmi? » le chiese senza preamboli, pur accomodandosi a una delle sedie attorno al tavolo. Era una domanda che le aveva già fatto nemmeno cinque minuti prima, ma era fin troppo impaziente, non aspettava altro che cominciare quella conversazione. 
Erzsébet rimase qualche istante in silenzio e Klaus sospirò di frustrazione. Non gli importava che fosse un discorso probabilmente molto difficile da affrontare, voleva soltanto che lei parlasse e basta. Avrebbe tratto le conclusioni dopo. 

« Ben mi ha già raccontato ogni cosa » disse infine, senza voltarsi verso di lui, mentre alzava la fiamma del fornello per preparare il tè. Lei non potè vederlo, ma Klaus si era immobilizzato e la sua espressione si era congelata di botto. 
« E' qui? E' ancora vivo? » domandò, calcando quell' "ancora" come se volesse imprimergli la maggiore quantità di disprezzo possibile. Strinse i pugni sulla superficie del tavolo. 
« Sì. »
Klaus non si domandò neanche se la suocera avesse voluto rispondere a entrambe le domande, perché un brivido violento gli percorse la schiena. Benjamin era lì, quasi sicuramente al piano superiore. Se lo sarebbe dovuto aspettare. Il suo cuore improvvisamente accelerò i battiti, pulsandogli in gola. 
Era a pochi metri da lui. Quasi gli sembrò si sentire i suoi passi dal soffitto. Tentò di calmarsi e di inspirare lentamente. 
« E che cosa ti ha raccontato? Non puoi esserti fidata della sua versione, lui è- »
« Klaudia » lo interruppe la donna, voltandosi verso la nipotina. La bambina le sorrise. « Perché non vai a prendere le tue bambole? »
Klaus alzò un sopracciglio. Come faceva a sentirla? Non le aveva neanche detto la frase con i gesti, eppure Klaudia si alzò dalla sua sedia e andò a prendere le sue bambole, tornando qualche istante dopo e mettendosi a giocare sul divanetto in cucina, accanto al tavolo dove Klaus si era seduto.
« Ma come...? » provò a chiedere, ma Erzsébet lo interruppe una seconda volta.
« Ecco, il tè è pronto » gli disse, versando la bevanda fumosa in due tazze bianche e offrendone una a Klaus. Per un momento lui si domandò se non l'avesse avvelenata; bevve comunque. Il liquido bollente gli scottò il palato, ma quasi non se ne curò. Era buono.
« Parlare davanti a una tazza di tè è mille volte più facile » lo rassicurò Erzsébet con un sorriso un po' tirato, a cui Klaus non rispose.
« Lo spero. »
La donna prese un lungo sorso di tè prima di cominciare. « Klaus, Benjamin è molto malato. »
« Ma davvero? » chiese sarcasticamente lui, cercando di costruirsi una corazza che avesse retto a quella conversazione che si apriva sotto i peggiori auspici. « Povera creatura. »
Erzsébet lo fissò, impassibile, per qualche attimo. Poi si alzò d'improvviso e andò ad aprire un'altro mobile in legno, dietro di lui. Da un cassetto pescò una bustina argentata. E una scatolina bianca. E un'altra. E un'altra ancora.
Tornò indietro con le mani piene, riversandone il contenuto sul tavolo.

« Cosa sono? » domandò Klaus, scettico, prendendo quella che sembrava una confezione cilindrica di pasticche. C'era scritto "litio".
Erzsébet si sedette nuovamente di fronte a lui e intrecciò le dita sul tavolo, riprendendo a fissarlo. 
« Medicinali, Klaus. » Tamburellò le dita sul ripiano e poi afferrò la prima scatolina che le capitò davanti. « Antidepressivi. Catalizzatori dell'umore. Amitriptilina. Farmaci neurologici. » Klaus alzò lo sguardo su di lei, quasi studiandola. Erzsébet gettò la scatolina di nuovo nel mucchio con un'espressione frustrata. « Non si tratta di malattie curabili, ma neanche di malattie fisiche. Il problema è... nel suo cervello. Nella sua mente. » Lanciò un'occhiata a Klaudia, come per accertarsi che non fosse rimasta turbata da quella scena. Era tranquilla sul divanetto a giocare, facendo versi buffi.
Klaus non sapeva cosa ribattere. Cosa c'entrava, in quel momento? Era di questo che sua sua suocera volva parlargli?

« Non conosciamo le patologie precise, ma sappiamo che da quando Ben è bambino soffre sicuramente di bipolarismo, crisi d'identità, forse schizofrenia, disturbi della personalità. » Fece una pausa, sospirando. « E' stato sempre molto bravo a nascondere ogni cosa... fino ad adesso. London non sapeva neanche dell'esistenza delle medicine. »
Klaus ebbe un moto di rabbia nel sentire nominare London in merito a quell'argomento, ma rimase in silenzio. Aveva deciso di ascoltarla fino alla fine.
« Ben le ha sempre prese, sempre. Si preoccupava degli orari, di non rimanere a stomaco vuoto, di chiudere a chiave il cassetto. Poi... » si fermò, come se si fosse persa tra le parole, ma poi continuò: « Le cose sono degenerate. Non me l'ha mai confessato apertamente, ma conosco mio figlio e so che cosa gli passava per la mente. La vostra partenza, la morte di mio marito... l'hanno distrutto. Aveva smesso di prendere i farmaci, si tagliava i polsi, ha tentato di... di suicidarsi e... » si bloccò ancora una volta, asciugandosi le lacrime che erano cominciate a caderle sulle guance. « Se n'è andato»
Klaus in un primo momento non capì. Cosa voleva dire che... se n'era andato? Rimase confuso da quelle informazioni, spiazzato, ma la sua rabbia non si affievolì neanche per un secondo.
« Non è stato Ben a farvi tutte... quelle cose... » continuò. « E' stato Emil. Emil. Ti posso giurare che non era in sé. Emil è la parte di lui che non avrebbe mai voluto mostrare, quella che avrebbe dovuto sopprirmere per tutta la vita. Se non avesse smesso di prendere i farm- »
« Ha ucciso London, Erzsébet. » Non si trattenne. Lo disse con una calma glaciale, ma le sue labbra tremarono nel pronunciare quella breve e al contempo terribile frase ad alta voce. « Te l'ha detto questo, quel maledetto bastardo? »
Erzsébet scoppiò in un singhiozzo, ma annuì, continuando a piangere. Il suo tè ormai sapeva di lacrime. 
Fu Klaus stavolta a fissarla con sguardo duro. Non poteva permettersi di giustificarlo. Non poteva e basta. Era sua madre, certo, ma anche London era sua figlia. 
E lui, lui, lui l'aveva sacrificata.
Anche le sue mani cominciarono a tremare, di rabbia e paura. Sentiva ancora in lontananza dei passi, come se la presenza di Benjamin volesse soffocarlo. Sapeva che era lì, sapeva che molto probabilmente stava anche ascoltando tutta la conversazione. Voleva forse metterlo alla prova?

« Non puoi giustificarlo » aggiunse a voce più bassa, ma digrignando i denti.
Erzsébet tirò su con il naso. 
« Ti stavo soltanto spiegando le ragioni per cui- »
« Nessuna ragione! » sbottò Klaus, alzando nuovamente il tono perché non riusciva a contenere la propria rabbia. « Non mi interessa di tutte le malattie che possa avere, per me potrebbe morire anche in questo stesso istante e sarei la persona più felice al mondo, ma nulla giustifica le sue azioni, nulla, te ne rendi conto? Ancora non riesco a capire come faccia ad essere ancora vivo dal momento che i ribelli hanno espugnato la prigione! » Prese un respiro più profondo, come se quel discorso farfugliato velocemente e pieno di risentimento l'avesse affaticato. 
Erzsébet si asciugò ancora una volta le guance rigate e poi incrociò le braccia. 
« Ben era una spia dei ribelli. Non credo abbia avuto il modo di dirtelo. »
Klaus per un secondo rimase spiazzato. « Una spia? »
« Una spia, sì » confermò la donna. « Faceva da infiltrato a Capitol City. Il suo compito era quello di calarsi nella parte di un torturatore per passare informazioni ai ribelli. E' anche grazie a lui se sono riusciti a prendere la prigione. »
Ebbe l'ennesimo moto di rabbia nei suoi confronti. « Se era una spia dei ribelli, perché si è calato così bene nella parte? London è morta insieme a un'altra ventina di persone, se non di più! »
« Non poteva interferire con le esecuzioni, o l'avrebbero scoperto. Salvare te è stata una mossa azzardatissima, se ai piani alti se ne fossero accorti in tempo avrebbe cambiato... non dico le sorti della guerra, ma dell'assalto alla prigione di sicuro. »
Klaus la guardò fisso negli occhi. « E se avesse salvato London, invece? Sarebbe cambiato qualcosa? » Fare quella domanda gli fece malissimo, si sentì il petto infilzato da mille pugnali. « Erzsébet, ascolta. Ci ha... torturato. Si divertiva a frustarmi, a vedere sua sorella urlare sulla sedia elettrica. Non mi pare che fosse una semplice spia. Lui si divertiva a farci del male. »
Erzsébet sembrò scioccata da quell'affermazione. Forse non sapeva che London era stata persino torturata con la sedia elettrica. Eppure, continuò a difenderlo: « Era Emil a volersi vendicare di voi. Ben non vi avrebbe mai fatto nulla del genere. Non vi avrebbe mai traditi. Ha fatto il doppiogioco con la capitale soltanto per proteggere me e Klaudia. »
« E si è trasformato in un mostro » biascicò Klaus, mentre i suoi occhi venivano attraversati da ombre infinite. Si era ricordato che Klaudia aveva rivisto Benjamin e pensò che se le avesse torto anche solo un capello ci avrebbe pensato di persona a ucciderlo nel peggiore dei modi. 
Avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, giudicare ancora Erzsébet soltanto perché lo stava difendendo nonostante la morte della figlia, arrabbiarsi fino a implodere di frustrazione, magari urlare. Ma non poté fare più nulla, o meglio, non riuscì a fare più nulla, perché la porta della cucina si aprì all'improvviso, lasciando entrare la persona oggetto di quella discussione.
Klaus si alzò di scatto e la sedia fece rumore nello spostarsi bruscamente sul pavimento pulito. Erzsébet trattenne il fiato, Klaudia smise di giocare per osservare dal suo divanetto il nuovo arrivato.

« Klaus » lo chiamò Benjamin, tenendo la porta aperta per invitarlo a seguirlo. Pronunciò il suo nome con una strana cadenza, quasi sofferente, violenta. « E' una questione di cui dobbiamo parlare faccia a faccia. Mia madre non c'entra. »
Klaus si sentì le gambe molli e la testa cominciò a ronzargli di pensieri che entro poco l'avrebbero fatto impazzire. Rimase in silezio, come sotto shock, con gli occhi spalancati e le labbra secche, incapaci di mettere insieme delle parole di senso compiuto. Rivederlo lì, così improvvisamente, serio e composto, in vesti diverse dal Benjamin che aveva conosciuto un tempo ma anche dal torturatore che aveva fatto morire London... l'aveva rigettato di botto nella paura più pura e assoluta, nel semplice e primordiale terrore che quell'uomo potesse fargli ancora del male e che lui fosse totalmente inerme.
Ma fu la rabbia, ancora una volta, a sopraffare gli altri sentimenti. Strinse i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi nei palmi e serrò le labbra, lasciandosi pervadere da quella furia che avrebbe potuto spingerlo a compiere atti inimmaginabili. 

« Seguimi » lo incitò Ben, assottigliando gli occhi su di lui e persuadendolo con quel tono di voce basso e pacato, completamente diverso da quello con cui osava prendersi gioco di lui alla prigione. 
Un barlume di razionalità attraversò la mente di Klaus. Non poteva aggredirlo lì, davanti a Klaudia. Gli serviva soltanto un appiglio per non impazzire definitivamente e sopportare un'altra dura conversazione. 
Gli serviva un punto fermo, una certezza.
Guardò di sottecchi Erzsébet, diventata pallida e tremante – adesso temeva che lui aggredisse il suo adorato figlioletto? – e poi spostò lo sguardo su Klaudia, che fissava entrambi i padri con i suoi occhi grandi e dolci, come se volesse spingerli a chiarire ogni questione irrisolta.
Klaus si fece forza, prese per mano la bambina e la portò con sé. Con Klaudia insieme a lui, forse sarebbe riuscito a trattenersi e non saltare addosso a Benjamin.
Per tutto il tragitto tenne stretta la sua manina. Per tutto il tragitto trattenne il respiro.

Entrarono nella biblioteca del maniero al piano superiore. Klaus ricordava perfettamente quella sala tappezzata di libri, con le finestre ampie e i grossi lampadari appesi al soffitto. Il mappamondo era ancora nello stesso angolo, forse un po' impolverato, i tappeti perfettamente in ordine e gli scaffali non sembravano essere cambiati di una virgola.
Era in quel luogo che Ben gliel'aveva confessato. Mert szeretlek, perché ti amo. All'epoca lui non aveva capito, ma adesso il significato di quelle parole gli appariva chiaro e assurdo al contempo.
Ti amo. London non gliel'aveva neanche mai detto. Ma non aveva importanza. Aveva accettato London anche per il suo orgoglio, aveva imparato ad amarla con tutto se stesso e avrebbe volentieri dato la vita per lei.
Avrebbe dovuto proteggerla.
Quel pensiero si fece strada nella sua testa, tra la coltre di rabbia e odio. Era il senso di colpa che prendeva forma piano dentro di sé, minacciando di ucciderlo. 
La mano di Klaudia sudava freddo e lui si voltò brevemente a guardarla: era cresciuta, in quei pochi mesi. Aveva quasi sei anni, ormai, ed era cambiata tanto. Si era fatta più alta, più matura. I capelli più lunghi e più mossi, il viso si era leggermente affinato.
Anche lei ricambiò quell'occhiata, infondendogli coraggio con la sua tipica espressione dolce e risoluta allo stesso tempo – quello di una bimba che può ottenere tutto ciò che chiede solo grazie a quei magnifici occhi di giada.
Klaus alzò nuovamente lo sguardo su di Benjamin, avendo appena il tempo di accorgersi che sulle pareti e su una scrivania c'erano moltissime foto dei gemelli da bambini. Non ebbe la forza di guardarle, sapeva che il loro viso sorridente e spensierato – passato, ormai inesistente – l'avrebbe ferito più di ogni altra cosa.
Si accorse che Ben lo stava fissando.
Si sentì di nuovo completamente disarmato, impaurito. Se lo immaginò prendere una frusta uscita da chissà dove e ricominciare a torturarlo. Gli sembrò persino di sentire il freddo metallo intorno ai polsi che gli mangiava la carne. Si concesse di respirare lentamente, o si sarebbe mostrato più debole di quanto già non fosse.
Debole, maledettamente debole.

« Credo che mia madre ti abbia già raccontato tutto » esordì Ben, camminando tra gli scaffali. « Ma volevo parlarti di persona. »
« E dirmi cosa? » Klaus non sapeva dove fosse riuscito a trovare quel filo di voce che gli uscì dalle labbra. Si maledì in silenzio per questa sua paura ostinata. « Parlami, avanti. Giustificati » lo incitò, alzando la voce.
Ben – era ancora quello il nome con cui doveva chiamarlo? – fece un sorriso storto e amaro. 
« Non voglio giustificarmi. La storia delle mie... malattie... è vera. Ma non è una scusa per cancellare ciò che ho fatto. »
Le labbra di Klaus tremarono e così le mani, Klaudia se ne accorse. Non riusciva a parlare di fronte a lui.
« Cose di cui vorrei pentirmi, ma non ci riesco del tutto. » Stava per continuare, ma lanciò un'occhiata a Klaudia e sembrò trattenersi. 
Klaus non ce la fece più e superò il terrore di botto: 
« Vorresti? Vorresti pentirti? » gridò, lasciando la mano della bambina e avvicinandosi a lui di un passo. 
« E' ancora Emil che... che mi tormenta... è colpa sua se non riesco ancora a elaborare le mie... azioni. »
Il respiro di Klaus si velocizzò. Sembrava che dicesse tutto quello soltanto per prendersi gioco di lui. Suonava così falso e sbagliato, nella sua testa, che non riusciva a credere neanche ad una sola delle sue parole.
« Sembro uno psicopatico » commentò l'albino tra sé, scuotendo la testa. « Desideravo così ardentemente vendicarmi nel mio subconscio che quando Emil è venuto alla luce ha fatto tutto contro la mia volontà. Ma Emil è una parte di me che non ho saputo controllare, e che tuttora mi deconcentra. Se solo lui non ci fosse... se solo fossi una persona davvero sana di mente... ti starei confessando tutto il mio dispiacere in questo momento. »
Dispiacere?, si chiese Klaus, pieno d'ira. « Hai vendicato la tua maledetta solitudine su di noi, adesso sei contento? »
« Non è così semplice » ribatté lui, accarezzando la superficie del mappamondo e facendolo girare piano. « Se solo fossi in grado di capire qualcosa del mio cervello, te lo spiegherei. »
« Non me ne fotte un cazzo del tuo cervello, Benjamin! » urlò improvvisamente, avanzando pericolosamente verso di lui, ma senza ancora avere il coraggio di sfiorarlo. « Hai ucciso London! Tua sorella, l'hai uccisa, hai capito? » continuò a gridare, senza ritegno, mentre il viso di Ben si congelò improvvisamente. « Perché non mi hai lasciato morire e hai ucciso lei, perché? L'hai uccisa, l'hai uccisa, maledetto bastardo figlio di- »
Klaudia in quel momento scoppiò a piangere. Non era un pianto liberatorio, come quello con cui aveva salutato Klaus. Scoppiò in un pianto isterico, cadendo a terra e coprendosi il viso con le mani.
Klaus interruppe il suo sfogo di botto, voltandosi allarmato verso la bimba.
« Klaudia... » sussurrò.
Benjamin in quello stesso istante gli diede una spinta e lo sbatté contro una libreria dietro di lui. La sua schiena ancora in via di guarigione urlò di dolore. 
« Sei impazzito?! Ha imparato a leggere il labiale! » gli gridò in faccia, afferrandolo per la collottola. « Non lo sapeva ancora! »
Klaus sentì il respiro di Ben sul viso e sentì le viscere contorcersi, mentre gli occhi pungevano di lacrime. Davvero Klaudia lo era appena venuta a sapere così, in quel modo orribile?
Ben si staccò da lui, quasi come per trattenersi dall'ucciderlo sul posto, e raggiunse la bimba lentamente, allungando una mano verso di lei.

« Klaudia... » sussurrò anche lui, ma la voce gli si spezzò, e cadde in ginocchio accanto a lei. « Klaudia, mi dispiace... »
Ben cominciò a piangere, cambiando improvvisamente espressione e stringendo la bambina in un abbraccio straziato. Klaus avrebbe voluto urlargli di non toccarla, ma inaspettatamente Klaudia ricambiò l'abbraccio e affondò il faccino nel petto del vero padre, come se lo stesse già perdonando.
Era un legame, il loro, un legame molto più forte di quanto Klaus potesse immaginare. E anche lui, non riuscendo del tutto a comprendere quella connessione e restando in quella posizione ad osservarli, si abbandonò alle lacrime e si arrese al dolore. 

 
 
*


Erzsébet si era occupata di Klaudia e l'aveva portata al piano inferiore, provando a consolarla. Era lei ad averle insegnato a leggere il labiale ed era lei che sarebbe stata la sua figura materna, d'ora in poi. Durante la conversazione con Klaus, le aveva fatto prendere a posta le bambole per distrarla dalle parole piene di risentimento che lui le aveva rivolto, ma adesso non c'era stato modo di bloccare gli eventi. Klaudia aveva capito. Forse aveva capito ancora prima di guardare Ben e Klaus urlarsi contro. Era una bambina molto intelligente, dopotutto, ma forse fino a quel momento aveva provato a nascondere la realtà, a illudersi che la sua mamma fosse ancora viva e in salute e che la stesse aspettando a casa con dei dolci al cioccolato. Ma London era morta, il suo corpo era a miglia e miglia da casa e non sarebbe più tornata dalla sua bambina.
Klaus e Ben erano rimasti nella biblioteca, ad asciugarsi le lacrime e guardarsi senza aver bisogno delle parole.
Alla fine, fu Ben a riprendere il discorso per primo. 
« Credi sul serio che io sia felice di aver salvato te invece di mia sorella, Klaus? » domandò, accasciandosi su una poltrona.
L'altro non lo imitò, restando in un angolo con i propri pensieri e la propria rabbia non ancora soppressa. 
« E allora spiegami perché l'hai fatto » disse con voce stanca, come se in realtà non volesse neanche davvero ascoltare ciò che avrebbe potuto rispondere. « Mi sarebbe andata bene se avessi ucciso me. L'avrei capito. Ma London... » le parole gli si bloccarono in gola.
« London mi ha supplicato di salvarti » fece Ben, con un filo di voce, reclinando la testa sulla spalliera della poltrona e chiudendo le palpebre. « Non mi avrebbe mai perdonato se avessi sacrificato te per lasciare in vita lei. E io non volevo che mi odiasse, indipendentemente da me o Emil. Essere il suo fratello maggiore ha complicato di più le cose. » Fece una risata spossata, passandosi poi una mano sulla fronte. « Beh, sai, siamo gemelli ma io sono nato per primo. A volte mi divertivo a rinfacciarglielo, vederla indispettita era la cosa più bella del mondo. »
Il cuore di Klaus si strinse in una morsa e una fiammata d'odio misto a dolore gli investì il petto, ma la seppe domare. Quelle parole gli facevano più male di una frusta contro la schiena. 
« Lo sai che ti amava, vero? » gli chiese Ben, riprendendo ad osservarlo dal basso della poltrona. « Forse l'hai sempre saputo. Amava te... più di chiunque altro » sull'ultima affermazione il tono gli si incrinò e l'ennesima lacrima gli rigò una guancia.
Per quanti giorni non aveva pianto, Ben Bridge? I giorni passati a infliggere torture, a sentire le loro urla, a entrare nella parte del sadico manipolatore... quanto l'avevano davvero cambiato?

« Per favore » aggiunse Ben, recuperando parte della voce che Klaus aveva conosciuto un tempo, quella voce dolce e un po' malinconica che da sempre lo aveva caratterizzato, « qualsiasi cosa ne sarà di me o di te, non permettere che facciano del male a Klaudia. Lei non c'entra nulla in tutto questo. E' la mia bambina, non dovrà pagare per le mie colpe. »
« Lei non è tua » replicò Klaus, punto nel vivo. « Non sarà mai la tua bambina. E sei un ipocrita vigliacco se pensi di poter conquistare la sua fiducia adesso. »
« Io l'ho sempre protetta. Non puoi dirmi che non è mia figlia, non ne hai il diritto » ribatté l'albino, ritornando dalla difesa all'attacco – ma questa volta più velatamente, più sicuro di aver vinto un'altra battaglia. « E' tutto ciò che mi è rimasto e per quanto tu lo odi, apparterrà sempre anche a me. A me e a London. »
Klaus distolse lo sguardo da Ben e guardò fuori alla finestra più vicina. Il cielo era rimasto dello stesso colore, tra il grigio e l'azzurro, e Klaus pensò che se fosse virato più sul verde avrebbe avuto la stessa sfumatura degli occhi dei gemelli. Inspirò, espirò. Voleva andare via da quel posto.
« Klaudia verrà con me » disse, pensando che anche se Ben l'avesse voluta trattenere lì per far provare a lui la stessa solitudine che in quegli anni l'aveva dilaniato, Klaus avrebbe trovato un modo per portarla con sé. Allontanarla da lui era la soddisfazione più grande che potesse avere in quel momento.
Benjamin semplicemente non rispose, restando fermo sulla poltrona.
Klaus si avviò verso la porta, senza guardarlo, e provò un brivido di paura quando gli passò accanto: era ancora terrorizzato da lui e si odiava per questo. Doveva autoimporsi che non era più una vittima. Era libero.
Prima di andarsene, prese coraggio e si girò un'ultima volta verso di lui.

« Non ti perdonerò mai, Benjamin. Non m'importa di tutti i favori o le torture che tu possa avermi fatto. Non c'entra neanche Klaudia in questo caso. Tu... hai ucciso London. E io non ti perdonerò mai»
Ben gli lanciò un'occhiata imperscrutabile. « L'avevo immaginato. » Fece una pausa, come se volesse aggiungere altro. « In questo momento vorrei tanto baciarti, Klaus » disse, infatti. « Per vedere se non ho risucchiato via tutta la vita dal tuo corpo. Per vedere se hai creduto alle mie parole. E per il semplice gusto di farlo. Ma sarei un pessimo fratello, più di quanto non lo sia già stato. »
Klaus non rimase scosso da quell'affermazione, anzi, gli provocò un'infinita tristezza, e persino l'odio nei suoi confronti per un secondo si affievolì. Lo guardò negli occhi, così profondamente che Ben si sentì costretto a distogliere lo sguardo.
Alla fine Klaus uscì dalla biblioteca e chiuse la porta, allontanandosi dall'uomo che gli aveva rubato la felicità.


 










 




 
   
 
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