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Autore: TimesNewMozzi    28/01/2015    0 recensioni
Una serie di storie col tutoring di Tonio Cartonio, perché certe cose le si può partorire solamente con l'aiuto di una lunga striscia bianca.
Genere: Commedia, Introspettivo, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Non che io abbia paura del dentista, ma, oggettivamente, chi si farebbe mai infilare un trapano nel proprio corpo affidando la vita delle proprie gengive ad uno sconosciuto?
X se lo chiedeva tutte le volte che varcava la porta del suo studio dentistico di fiducia. E quella porta non la attraversava, lui la varcava, come un eroe epico pronto a dare battaglia ad un nemico nascosto in un antro oscuro, solo che in questo caso ad avere spade e lance, in qualche modo, era il suo nemico.
Le poltrone della sala d’attesa erano di vimini intrecciati e a tratti rotti dal peso delle anziane signore che, pur senza denti, continuavano a venire a farsi vampirizzare il conto in banca. Erano anche stranamente confortevoli, una coccola strategica fatta per tranquillizzare le prede prima di condurle nella camera delle torture.
L’assistente chiama, X alza le mani dai braccioli legnosi e, a malavoglia, flette i quadricipiti, spinge le chiappe contro il cuscino e si alza dalla poltrona.
Il corridoio è sempre lo stesso asettico, illuminato di bianco, squadrato corridoio di lunghezza indefinita. A volerle contare le porte che vi si affacciano sono solo 6, ma ogni volta sembrano cambiare, nessuna stanza è mai la stessa e quindi l’ampiezza dello studio non è mai chiara, potrebbe essere grande quanto la Terra o quanto un granello di sabbia, nessuno lo sa. A parte l’architetto, forse.
Il lettino foderato in verde ha ancora impressa l’orma di un corpo caldo, X cerca di non badare a quei pensieri irrazionali e si siede, guarda l’assistente che ricambia un sorriso mai fatto e poi scatta via per catturare qualche altro tonno in forma umana con la sua rete da strega.
Questa poltrona è dura, non scomoda, ma capace di opporre resistenza al peso di X quando si stende e appoggia le braccia sul petto sapendo di dover aspettare. Deve sempre aspettare.
Ha preso l’abitudine di guardarsi intorno, cercare di scoprire differenze, nuovi calci di mascelle, nuovi gingilli d’acciaio dalle forme poco rassicuranti, nuovi computer comprati con i soldi dei contribuenti. Dalla porta sulla sua destra riesce a vedere l’interno di un’altra stanza, e poi forse di un’altra ancora, e poi ancora di un’altra, tutte insieme, stanze nella stessa stanza, o forse deliri nello stesso delirio.
Scuote la testa, chiude gli occhi e guarda in alto.
Due minuti.
L’assistente non torna; dalle altre sale vengono delle voci, ogni tanto qualche vibrazione di un trapano, tutti sono ancora lì a lavorare o subire.
Tre minuti.
Ruotare i pollici l’uno sull’altro non è mai stato divertente e mai lo sarà, ma non c’è molto altro da fare, di guardarsi in giro X non ne ha voglia, il dentista potrebbe entrare da un momento all’altro e non vuole farsi trovare a curiosare tra i suoi strumenti. Sia mai che decida ti tirargli via un molare per punizione.
Cinque minuti.
Sono finite le pellicine delle dita, non c’è più niente da topicare, da sgnaccare per passare il tempo. Quasi, quasi ci starebbe un pisolino.
Dieci minuti.
L’hanno abbandonato. È palese, o è una strategia par farlo cedere a firmare un abbonamento premium da millemila euro al mese per la pulizia completa di tutti gli orifizi dentali, oppure si sono dimenticati di lui. E dire che fino a qualche minuto fa tremava così tanto da scaldare l’aria, la poltrona di finta pelle minacciava quasi di sciogliersi e lasciarlo cadere al suo interno, lasciarlo scivolare in un dolce abbraccio incandescente.
Ora come ora non sembra una prospettiva malvagia; la luce bianca è stancante per gli occhi e per la mente, per X la luce bianca è quella dell’ospedale di House, quella dello sforzo mentale delle tre di notte per riuscire a finire l’ottava stagione e vedere House morire e risorgere, come Cristo, ma meglio, sicuramente con più spettatori.
Le palpebre son pesanti. I suoni dei trapani non si sentono quasi più, gli uncini di metallo alle sue spalle da dita mostruose sono diventati cose dimenticate, cose inesistenti poiché al di là del tunnel visivo, di quella finestra sul mondo esterno che va chiudendosi man mano che X sprofonda sempre di più nella poltrona, non perché questa si stia fondendo, ma perché Morfeo sarà fare il suo lavoro fin troppo bene.
Delle gengive non si preoccupava più. La placca e le carie non erano nemmeno al centesimo posto della sua lista delle preoccupazioni, anche perché adesso le prime mille erano occupate dal chiudere gli occhi, solo per cinque minuti, solo per rinfrescare la mente, non per addormentarsi, figuriamoci.

 
ZZZZ....

In un’altra stanza, Y ascoltava i trapani consumare corrente nella bocca di altre persone e si stringeva tra le spalle terrorizzato.
Tra qualche minuto, dimenticato in quel labirinto di stanze da ospedale, anche lui sprofonderà nel suo lettino, e si andrà ad unire a tutti gli altri, a tutti quelli che aspettano come X, T, W, tutti spaventati da un carnefice che non si ricorda neanche di andare a trovare le proprie vittime.
Tutti terrorizzati da un aggeggio di metallo che basta chiudere gli occhi per smettere di vedere e da un lettino verde nel quale basta rigirarsi per iniziare a sbadigliare.


 
  
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