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Autore: stereohearts    29/01/2015    3 recensioni
Carter Harvey è un concentrato di rabbia, acidità e dolore. Dopo un passato – che non sembra essere poi così ‘passato’ - particolarmente tormentato, un incendio misterioso alle spalle ed un fratello in carcere sta cercando di spostare la sua vita su una strada più rettilinea e con meno dossi possibili, concentrando l’attenzione su scuola, amici ed un secondo fratello, Elia, spesso assente per lavoro.
Justin Bieber - che ha il suo bel da fare con una famiglia, residente a Stratford, decisamente assente ed una zia, vedova, caduta nel baratro di alcool e fumo - è un ventenne dalla bellezza disarmante, incline al perdere molto facilmente il controllo della situazione ed un caratterino pungente, corroso dai segreti che porta con sé ed una, poco salutare, dipendenza dalle sigarette.
 
San Diego.
Un incendio misterioso.
Due vite che si scontrano irreversibilmente.
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'Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera di questa persona, né offenderla in alcun modo'
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In revisione.
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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17.









Carter













 
“Sei sicuro? Ormai sono più di dieci ore … forse dovremmo …”
“Devi darle tempo, Kayden. Con tutta la morfina che le ho dato ci vorrà del tempo per smaltirla completamente. Comunque, non molto ancora”
“Be’, lo spero. Sto iniziando a p … papà! Si sta muovendo, per Dio!”
 
Avevo la strana e rivoltante sensazione che la pelle degli occhi si strappasse – come se qualcuno mi avesse cucito le estremità l’un l’altra – man mano che li aprivo.
Strizzai gli occhi un’altra volta, adocchiando sopra di me il soffitto immacolato  che grazie alla luce di diverse lampade al neon assumeva una tonalità ancora più biancastra, da clinica chirurgica privata.
Non ricordavo d’aver visto le pareti del Sanyo così bianche nemmeno dopo l’ultima sessione di riverniciatura l’estate scorsa, dopo la quale avevano assunto quella tipica colorazione nera e fluorescente.
Percepì delle dita ruvide e calde poggiarsi sulla mia guancia per trattenermi la testa sul cuscino, mentre un lampo di luce ancora troppo bianca – inondandomi la vista – seguiva lo schizzare a destra e a sinistra delle mie pupille, accecandomi; intravidi il vago accenno d’un paio di occhi azzurri che mi fissavano amorevolmente prima che i tratti tesi e pallidi di Kyle gli si sostituissero, facendomi sobbalzare appena.
Un’improvvisa consapevolezza di ciò che era successo mi piombò brutalmente addosso, colpendomi ogni singolo muscolo indolenzito del corpo.
Scattai dolorosamente a sedere, scoprendo di avere la gola troppo asciutta e debole anche solo per urlare; il corpo mi doleva completamente - spalle, braccio destro, fianco e polpacci più del resto.
Il tessuto liscio e morbido di un lenzuolo, altrettanto immacolato, mi copriva le gambe, assieme ad una coperta marrone più pesante; alle finestre erano appese delle tende monocolore che schermavano la luce - che però non impedivano al rumore degli pneumatici sull’asfalto di arrivarmi chiari e striduli alle orecchie.
“Finalmente ti sei svegliata, dormigliona” mi apostrofò una voce secca e profonda, nell’attimo in cui l’orlo di un bicchiere trasparente e pieno d’acqua occupò completamente la mia vista.
Percorsi titubante le dita lunghe, squadrate e pallide strette attorno al vetro; lungo il braccio coperto da un maglione blu navy, sul collo scoperto e al cappello nero attorno alla fronte che tratteneva a stento dei ciuffi lunghi e biondi.
Gli occhi acquamarina del ragazzo mi sorrisero, coinvolgendo anche le labbra chiare e doppie a fare lo stesso, - in un insieme che nel complesso potevo quasi giudicare come rassicurante – mentre la sua mano si faceva un po’ più avanti verso la mia faccia.
A me, però, le persone apparentemente ‘rassicuranti’ – soprattutto bellissimi ragazzi dai capelli biondi – non ‘rassicuravano’ poi così tanto; che fosse per un mio essere prevenuta o esperienze personali terminate in tragedie, poco m’importava.  L’ultima immagine che rammentavo con certezza era la mia vista che si oscurava sempre con maggiore intensità, più mi addentravo dentro quel pezzo di terra privato che affiancava il Sanyo, mentre scappavo da tutto e tutti. Non c’erano nessuna parete immacolata, nessun lenzuolo pulito e nessun ragazzo con l’orecchino sottile al naso; pertanto non avrei bevuto quell’acqua, malgrado sentissi ogni parte del mio corpo reclamarla avidamente.
“Erano le due e mezza, circa, quando ti ho trovata. Ero uscito per portare a passeggiare il mio cagnolino rompi balle, - questo pezzo di terra appartiene a mio padre – e potremmo quasi dire che è stato lui a trovarti, svenuta e sanguinante tra l’erba. Non potevo lasciarti lì, così ti ho portata via” mi spiegò gentilmente, cogliendo probabilmente la mia riluttanza nell’accettare qualunque tipo di contatto con lui.
Mi infilò cautamente il bicchiere tra le mani, accertandosi che riuscissi a reggerlo prima di staccarsi e posizionarsi al centro della stanza con le braccia lunghe aperte all’aria. “Questa è casa mia” mi sorrise, con un non so che di malinconico e forzato negli occhi; un lampo divertito glieli attraversò, facendogli inarcare le sopracciglia scuotendo la testa. “Be’, tecnicamente questo è lo studio medico di mio padre, - che ti ha curata - ma il resto è anche casa mia.”
Solo in quel momento, quando dubbiosa lasciai vagare lo sguardo per la stanza, mi accorsi della presenza di una terza persona vicino al mio letto; un uomo dalla pelle pallida, con capelli biondi perfettamente pettinati, occhi chiari e un maglione scozzese verde dal quale spuntava il colletto ben piegato di una camicia celeste.
Stringeva al fianco un paio di fogli bianchi, mentre mi sorrideva cordiale. “Dottor Charlie Walker. Questo giovanotto è mio figlio Kayden” presentò l’uomo, sistemando degli occhiali quadrati sul naso lungo. “E’ stato difficile scoprire la tua identità, signorina Harvey”
Il cuore ricominciò a galopparmi nel petto, agitato, mentre mi affrettavo ad ingurgitare il più velocemente possibile tutta l’acqua di cui sentivo il bisogno. Quello era un altro segno del passaggio di Rick nella mia vita: avevo visto ogni tipologia di persona che lui riteneva ‘amici’ passare per casa nostra, – la maggior parte dei quali probabilmente spacciatori, ladri, drogati, ubriaconi o chissà cos’altro. Mia madre – prima del ‘fattaccio’ -  aveva sempre tenuto in considerazione la possibilità che, dopo l’inizio del divorzio e l’uscita dal carcere finiti i suoi sei mesi per furto, Rick potesse assoldare qualcuno per farci fare un ‘visitina’ a casa. Così ogni qual volta un uomo che superava i venticinque anni diceva di sapere il mio nome, l’ansia e la paura mi attanagliavano lo stomaco. Nonostante il Dottore non somigliasse nemmeno vagamente a nessuno di loro, le mie reazioni iniziali erano automaticamente di dubbio e paura. Era ‘un’abitudine’ che non ero ancora riuscita a levarmi, purtroppo. “Come diavolo ha fatto a scoprire come mi chiamo?”
“Colpa mia, temo” s’intromise il figlio con un passo avanti, - rassicurandomi all’istante - grattandosi distrattamente il pezzo di pelle tra l’orlo della maglietta e la cintura dei jeans, mostrando un pezzo di pancia pallido e tonico. “Mi sembrava di conoscerti già, sai … magari ti avevo vista per i corridoi a scuola qualche volta. Poi, un paio d’ore fa mi ha chiamato il coach della squadra, così mi sono ricordato d’averti vista sugli spalti agli ultimi allenamenti, mentre chiacchieravi con Keaton Haig. Allora ho fatto due più due e mi sono ricordato il tuo nome”
Strabuzzai gli occhi, lasciandomi scivolare in bocca anche le ultime gocce d’acqua. La gola mi bruciò appena, mandandomi l’impatto freddo al cervello; quasi meccanicamente il dolore iniziò a premere contro le ossa fragili del cranio, infastidendomi.  “Ah, giusto. Sei il Ricevitore tu” mormorai, ricordando indistintamente il suo viso tra quelli degli altri giocatori. “Non dirmi che lo hai chiamato, però! ‘Dio, ma che ore sono? Da quanto sono qui? E perché sono qui, poi?”
Il Dottore si fece avanti, afferrandomi il polso per poggiarvi due dita e rimanere in silenzio con lo sguardo fisso sulle sue unghie squadrate e lucide. “E’ mezzogiorno, e sei qui da più o meno undici ore”
In quel preciso istante mi accorsi, con mio orrore, d’avere addosso dei vestiti decisamente non miei e il braccio destro completamente fasciato da più strati di garza. Cautamente, sperando con tutta me stessa che nessuno dei due uomini facesse caso a me, infilai furtivamente una mano sotto l’orlo del lenzuolo, sollevandone un pezzo abbastanza ridotto verso l’alto; le mie gambe erano coperte da una paio di calzoni larghi e felpati, ma sentivo comunque qualcosa – al di sotto - che ne stringeva la pelle.
Lasciando ricadere la mano, improvvisamente esausta, mi limitai ad abbassare lo sguardo sul mio petto senza riuscire a fermare il mio cuore dal ricominciare a picchiarmi violentemente la cassa toracica; sentivo la pelle scoperta del seno sfiorare appena la felpa senza cerniera, e una familiare sensazione di forzatura che avvolgeva completamente il busto, dove sicuramente dovevano esserci altre fasciature a coprire i tagli sul fianco.
Intuendo le mie perplessità e la mia espressione da ragazza pronta a sotterrarsi per l’imbarazzo, il dottore allontanò le dita dal mio polso e tornò a guardarmi attentamente. “Quando Kayden ti ha portata qui c’era solo mia moglie, quindi si è occupata lei di te. Ma non ci sarebbe stato bisogno di preoccuparsi in ogni caso. Faccio questo lavoro da dieci anni, oramai.”
Mi limitai ad annuire mestamente, osservando l’uomo fare dei passi all’indietro per dare qualche indicazione  al figlio in merito a qualche pasticca da farmi prendere, prima di scomparire dietro una porta in legno.
“Lo sai che andrà in galera quel pezzo di merda, vero?” mi domandò schiettamente il biondo, iniziando a frugare superficialmente nei cassetti del comodino che affiancava il letto; riuscivo a scorgere i muscoli sottili della schiena tendersi attorno alla spina dorsale ad ogni movimento, sotto la maglietta leggera.
Srotolai sorpresa le dita dal groviglio ‘cui le avevo costrette, sollevando allarmata lo sguardo, con il cuore nelle orecchie. “Si è già sparsa la notizia? Cosa ne sanno?”
“E’ una cosa inevitabile, Carter. Ma comunque ne so ancora poco o niente …”
“Voglio tornare a casa. Adesso” rantolai, strizzando gli occhi per ricacciare indietro l’alone umidiccio che stava iniziando ad impedirmi la vista.
Non volevo entrare di nuovo nell’occhio del ciclone dei Servizi Sociali -  soprattutto senza avere sotto controllo la situazione.
Anche se non mi ero mai preoccupata più di tanto di capire come funzionassero quelle cose, una sola orribile cosa mi era stata chiara sin dall’inizio: ogni minima problematica che arrivava alle orecchie degli assistenti sociali equivaleva ad una sempre maggiore possibilità che a Elia non venisse più riconosciuta l’idoneità per prendersi cura di me e tenermi così insieme a lui – sarei così finita nel Wisconsin, da mia zia Rose e la sua mentalità preistorica riguardo l’allevare una ragazza.
Il pensiero di non sentire la mattina il suo corpo che sbatteva contro ogni tipo di superficie mobile, alla ricerca dei suoi calzini che puntualmente finivano tra la mia biancheria – che lui si rifiutava categoricamente di toccare - mi stringeva il cuore, talmente tanto da lasciarmi senza fiato. Il solo rischio di perdere anche lui mi spezzava in tanti minuscoli pezzettini.
Una prospettiva di vita senza Elia non potevo nemmeno immaginarla, non poteva definirsi tale; sarei definitivamente e realmente crollata sotto le macerie della mia vita ancor prima che qualcuno avesse potuto separarmi fisicamente da lui.
Era stato quasi naturale e dolorosamente facile abituarsi all’assenza di Dante nella mia vita; lui era lentamente riuscito a spezzare quel piccolo filo invisibile che ci teneva uniti, riuscendo a farsi finalmente detestare dalla sottoscritta, e nonostante tutto avevo avuto costantemente la sicurezza che uno dei miei fratelli era dall’altro lato della mia camera, pronto a prendermi ad ogni mia caduta.
Non avevo più foto che lo ritraevano – o se anche c’erano, io non sapevo dove fossero – o qualcuna delle magliette che gli fregavo per dormire d’estate. Nessuna sua traccia; viveva a malapena nei miei ricordi.
Con Elia non sarebbe mai potuto essere lo stesso; non avrei mai accettato di vivere anche lui solo di ricordi vaghi e che con il tempo sarebbero andati sbiadendo pian piano, rimpiazzati da altri meno importanti e inutili.
Elia non era Dante, e io lo amavo; più di quelle poche persone a cui ero realmente riuscita ad affezionarmi, senza alcuna barriera o limite. Più di quanto avessi mai osato ammettere a lui o a me stessa - perché volere bene ai propri fratelli non era stata una cosa così scontata e semplice per noi, per niente. Essere figlia di un uomo diverso da quello cui erano figli loro, e che puntualmente m’aveva abbandonata ancor prima che potessi nascere, non poteva che portare resistenza tra loro e me, la piccola ‘cosina’ appena venuta al mondo.
Crescendo mi ci era voluto del tempo per capire che il loro essere dei maschi – che li portava automaticamente a somigliare all’uomo che avrebbe dovuto accompagnarmi ogni mattina all’asilo, come succedeva alle mie compagne, ma che effettivamente non c’era mai stato -  non era obbligatoriamente un pericolo per me, così come a loro era servito altrettanto tempo per capire che non avevo rovinato effettivamente la loro piccola famigliola con il mio arrivo – e che la mamma li amava in egual modo.
Poi lei aveva fatto la scelta – tra le tante sbagliate – che non le avrei mai potuto perdonare in vita mia, neanche sotto tortura: sposare Rick. Da quell’istante, mentre iniziavo ad amare incondizionatamente Dante ed Elia, al contrario la nostra vita stava crollando senza controllo sotto i nostri piedi, verso l’Inferno più profondo, rude e buio. Senza alcuna via d’uscita.
Dopo Elia non ci sarebbe stato più niente e nessuno; nessun motivo abbastanza valido che potesse portarmi a vivere la mia vita come avevo ricominciato a fare – perché vivere a cento ore e qualcosa di distanza avrebbe potuto portare esclusivamente a ciò. Non ci sarei stata più io.
Ed era così surreale rendermi conto di dipendere così tanto da una persona; da un uomo, soprattutto, che forse avrei dovuto iniziare a domandarmi se ciò era un bene o un male.
Senza quasi neanche accorgermene mi ritrovai con le gambe penzoloni sul bordo del letto, e le braccia di Kayden strette sulle mie spalle per tenermi ferma; la faccia irremovibile a pochi centimetri dalla mia. “Che stai cercando di fare, razza di cretina? Non puoi scendere adesso, Carter” mi ammonì duramente, appiattendomi le gambe contro il bordo del materasso con le sue ginocchia spigolose e sottili. “E non dimenarti così, altrimenti ti saltano i punti”
“Ma quanto pensi me ne possa fregare dei punti adesso? Lasciami solo andare, Kayden” replicai allarmata, schiaffeggiandogli il petto con colpetti deboli e forzati. Più che altro si potevano definire piccoli sfioramenti appena accennati sulla sua maglietta blu per quanto i muscoli mi risultassero deboli e stanchi. “Fammi scendere da questo letto, Kayden. Voglio tornare a casa mia e risolvere in fretta la cosa”
“Ma risolvere cosa, porca misera?” urlò lui, quasi più arrabbiato e contrariato di me, tirandomi i capelli all’indietro. Sentì la pelle delle guance tirare, lasciandomi sfuggire un mugolio di protesta. “Quel bastardo ti avrebbe ammazzata se non fossi riuscita a scappare. Vuoi davvero dire alla polizia che è stato tutto un incidente?”
Per salvare la mia vita con Elia? Da grandissima egoista quale ero, si, dannazione. Si.
Per un qualche motivo a me ignoto, però, non riuscì a liberare dalla mia bocca quelle parole così sbagliate. C’era qualcosa nel modo cauto e sovrappensiero con cui i suoi occhi mi scrutavano che mi convinse a tenere a bada la mia lingua lunga.
Kayden conosceva Kyle, ne ero certa. Una cosa che invece non ero sicura di voler conoscere, era il perché.
“Lo sai quante denunce ha per aggressione e violenza a danno di ragazze come te, o più piccole, Carter?”
Quello non era esattamente un argomento che avrei voluto affrontare in quel preciso momento – o molto più sicuramente, per me, mai.
Scossi lentamente la testa, faticando a mandare giù la bile. Le mani mi scivolarono sulle sue braccia, stringendo i bicipiti in attesa della risposta – che in cuor mio conoscevo già: molte, troppe probabilmente. “Quante?”
“Quasi dieci solo quelle ufficializzate negli ultimi tre anni e mezzo.”
Un suono a metà tra un singhiozzo ed un’imprecazione mi scivolò fuori dalla gola, mentre quel numero si incideva a forza nella mia testa. Con il cuore ancorato in gola, talmente gonfio e ingrossato che avevo paura m’avrebbe schiacciata sotto il suo peso da un momento all’altro, sollevai lo sguardo su Kayden, insicura su cosa provassi realmente.  L’unica cosa di cui avrei desiderato avere la certezza, in quel momento, era che Elia fosse in attesa dietro quella porta, come sempre.
 “Ma suo padre è un fottuto riccone del cazzo,  così si è limitato a pagare le cauzioni e continuare a giocare a golf con i suoi amici imprenditori, come se niente fosse successo” continuò teso il biondo, fissando distrattamente il mio collo scoperto.
Kyle non sarebbe più stato un problema, avrei voluto dirglielo, - il padre di Ian era un ottimo avvocato con alle spalle nessuna causa persa ed ero fermamente certa che avesse già preso in mano la situazione. Come aveva  sempre fatto da quando mia madre aveva capito d’avere bisogno d’un bravo avvocato di fiducia, e anche dopo la sua morte – ma avevo la strana sensazione che non gli sarebbe bastato sapere che avrebbe marcito in prigione per un bel po’ di tempo. Forse non sarebbe bastato a nessuno di noi, in fondo.
“Mi dispiace.” Buttai fuori l’aria che avevo trattenuto, lasciando scivolare la presa delle mani dalle sue braccia.
Lui inclinò la testa, con uno strano luccichio negli occhi mentre l’angolo della bocca si stendeva all’insù, in un sorriso malinconico. “Tu me la ricordi molto, sai?”
“Tua … tua … sorella?”
“Anche lei, dopo quello che è successo, ha costantemente negli occhi questa voglia continua di piangere che copre con quintali e quintali d’arroganza e menefreghismo” spiegò dolcemente, stringendo ed allentando ritmicamente la presa sulle spalle, come in un massaggio rilassante. “E nessuna delle due ha ancora capito quanto questo, in realtà, vi renda dannatamente forti e bellissime”
“Lei … è …”
“E’ felice, adesso.”
Mi sorrise calorosamente, puntando i suoi occhi chiari nei miei, scuri, quasi neri. “Tuo fratello è qui, comunque, assieme ad altri due ragazzi e una rossa sull’orlo di una crisi isterica. Vuoi vedere qualcuno?” domandò, allontanandosi di qualche centimetro da me. “Ah, ti consiglierei di scegliere tuo fratello. Mi ha distrutto mezza casa in queste ore. E pensare che credevo fosse lui quello meno innocuo”
Mi mossi agitata sul letto, riportando le mani sulle sue braccia. “Elia, decisamente” mormorai appena, accennando un piccolo sorriso nel rendermi effettivamente conto che Elia era davvero dietro la porta, pronto a prendermi. “Dopo torni?”
Kayden ridacchiò divertito, levando il cappello per scompigliarsi i capelli biondi. “Se lo vuoi tu, certo.”
 
 
 








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[Due settimane dopo]
 
 


 
Strofinai, per l’ennesima volta, la mano sul vetro appannato dello specchio, cercando di spazzare via il vapore.
Le impronte delle mie dita formavano un piccolo e confuso insieme di linee doppie, nelle quali vedevo riflesso il mio viso; più smunto, giallognolo e magro del solito. Le occhiaie appena accennate che avevano sempre caratterizzato la pelle sotto agli occhi, – causa la mia costante anemia – negli ultimi quattordici giorni erano diventate più marcate e violacee; le guance erano più scavate e senza vitalità e gli occhi più scuri del normale.
L’unico accenno di colore sul mio corpo erano le labbra, costantemente rosse a furia di mordicchiarle, i capelli che a breve avrei dovuto tingere nuovamente e la pelle accesa per colpa dell’acqua bollente e il mio continuo sfregarci contro la spugna durante la doccia.
Piegandomi sulle ginocchia tirai su il paio di boxer che Keaton mi aveva lasciato sulla maniglia della porta, aggiustandoli sui fianchi – anche loro meno tondi e morbidi. Spettinai i capelli con l’asciugamano, quel tanto che bastava per levare le goccioline d’acqua di troppo e lasciarli bagnati, tornando a osservare il mio riflesso nello specchio.
Ripresi a mordicchiarmi la bocca, lottando contro l’urgenza che mi spingeva a spaccare quel pezzo di vetro quadrato con un pugno.
Le ultime due settimane erano state stremanti e stressanti, sia da un punto di vista strettamente fisico che mentale.
Elia era costantemente agitato, facilmente irritabile, arrabbiato, preoccupato e sottopressione, - causa il lavoro che doveva alternare con gli incontri in tribunale – il che aveva portato a triplicare il numero giornaliero dei nostri litigi; essere costretta a casa per un’intera settimana a causa del dolore mi aveva lasciata indietro con il programma scolastico, che dovevo sbrigarmi a recuperare prima della fine del semestre; e Jackson - sotto ordini del mio sopraccitato fratello - era stato invitato a rimanere da noi per tenermi d’occhio il più possibile.
Giornali e canali TV locali non si erano certamente lasciati sfuggire l’occasione di poter infangare un po’ il nome dell’omonimo imprenditore padre di Kyle e della poco funzionante giustizia, facendo si che la notizia arrivasse in poco tempo alle orecchie di mezza città – fortunatamente il mio nome non era stato fatto da nessuna parte, concedendo un po’ di riserbo a me e alle poche persone a conoscenza della faccenda.
D’altro canto, non appena scattata la denuncia a mio nome contro il ragazzo, i Servizi Sociali non avevano tardato nel richiamare Elia per un incontro in tribunale, mentre le indagini della polizia continuavano ininterrotte.
La versione ‘modificata’ ufficiale dello svolgimento dei fatti, messa a punto da Oliver – padre di Ian – era stata distribuita ai pochi presenti sulla scena del ‘crimine’: io ero ad una festa di compleanno con alcuni amici, quando questo ragazzo mi aveva portata di peso sul retro con intenzioni  ‘decisamente discutibili’. La mia fuga e l’aiuto di Kayden erano rimasti tali, testimoniati con grande piacere dall’intera famiglia Walker.
Eravamo tutti consapevoli che cambiare qualche cosa sulle dinamiche della situazione era altamente rischioso per tutti, ma se ciò sarebbe servito a fare giustizia, togliere dalla circolazione Kyle, sistemare le cose con i Servizi Sociali e tirare fuori dai guai Tyreek ed il Sanyo, avremmo ‘mentito’ volentieri tutti quanti. Nessuno, di certo, avrebbe avuto da protestare sulla probabile incarcerazione di Kyle – suo padre permettendo, ovvio.
La causa, comunque, continuava ad andare inevitabilmente avanti mentre aspettavamo che il giudice decidesse il giorno della sentenza finale – Elia e Oliver tendevano a tenermi all’scuro della maggior parte delle cose, non che io premessi poi più del dovuto per esserne messa a conoscenza. Ero sempre stata piuttosto brava a cancellare dalla mia testa i ‘brutti ricordi’, – tralasciando Dante e Rick – quindi meno ne sapevo più facile sarebbe stato per me farlo anche con Kyle.
Non che quella consapevolezza mi fosse tornata di gran utilità nelle ultime settimane; per assurdo, i miei incubi sembravano non volermi dare tregua soprattutto in quel momento. Mi svegliavo due o tre volte durante la notte, trovandomi un Elia sempre più spaventato di fronte e Jackson con costantemente un bicchiere d’acqua in mano – che alla fine ingurgitava solo lui. Erano probabilmente loro, il fumo e la birra – che, assieme a Keaton, poi,  sembravano anche essere l’unico accenno di normalità ancora rimasta nella mia vita – la causa dei miei quasi sei chili persi in sole due settimane.
E la situazione stava iniziando a piacermi sempre di meno.
Afferrai il tubicino di crema sul mobiletto che affiancava lo specchio spruzzandone un po’ sulle dita; scostai un po’ il bordo largo della maglietta, passandola delicatamente sull’inchiostro scuro del tatuaggio sulla clavicola.
Keaton era poggiato mollemente con la spalla allo stipite della porta – riuscivo a scorgere la sua figura illuminata con la coda dell’occhio; caviglie accavallate, braccia incrociate al petto e nocche fasciate con la garza affondate sotto le ascelle, mentre i suoi occhi guizzavano veloci da una parte all’altra del mio corpo.
“E’ tua, per caso?” gli domandai, tirando l’orlo della maglietta all’ingiù. Era visibilmente troppo larga e lunga per la mia taglia; l’avevo ripescata dal fondo dell’armadio, dove alloggiavano anche parecchi indumenti che Keaton si era dimenticato nel corso degli anni.
Lui sembrò osservarla attentamente per un po’, mordicchiandosi il labbro. “No” rimuginò, allungando un braccio per pizzicarmi il pezzo di pelle appena sotto l’orlo dei boxer. “Ma devo portarti al più presto a pranzo da McDonald, questo è sicuro.”
“Lo sai che non aspetto altro” ridacchiai, lanciando distrattamente l’asciugamano bagnato sulla cesta dei vestiti da lavare prima di seguirlo giù per le scale.
“Sei sicura di non voler venire a dormire da me?” domandò, infilandosi la felpa da sopra la testa.
“No” bisbigliai, piegandomi con la pancia sullo schienale del divano, gambe all’aria, per raccogliere il telecomando incastrato tra due cuscini. “Tranquillo, me la caverò”
“Be’, in effetti, adesso che ci penso, mia madre sarebbe stata capace di farmi dormire sullo zerbino per cederti la mia camera. Quindi direi che è un ottima idea che tu rimanga qui”
“Ma sparisci idiota” risi, spintonandolo per una spalla fuori dalla porta.
“Oh, ma anch’io ti voglio bene, Ter” ammiccò con un ghigno, posandomi un veloce e rumoroso bacio sul naso prima di saltare in sella al suo motorino e sparire dalla mia visuale, inghiottito completamente dall’oscurità della notte.
Richiudendomi la porta alle spalle allungai il braccio verso la televisione schiacciando al contempo il tastino rosso d’accensione, mentre mi dirigevo a passo trascinato in cucina.
Jackson era uscito già un paio d’ore fa per un appuntamento con un vecchio amico di Los Angeles di passaggio in città e probabilmente non sarebbe tornato prima dell’una; lanciando un’occhiata veloce all’orologio constatai che fossero a malapena le dieci e mezza.
La voce profonda e roca di Robert Downey Jr nel ruolo di Sherlock Holmes si diffuse per tutta la cucina, mentre infilavo la testa nel frigorifero, alla ricerca di qualcosa che potesse soddisfare il mio appena accennato appetito.
Durante il pomeriggio Keaton m’aveva costretta ad ingurgitare patatine, insalata e Würstel a non finire, così mi limitai a tirare fuori una birra, una confezione di salame ancora sigillata e il pane.
Sullo schermo, Sherlock stava combattendo abilmente contro qualche omone vestito di nero, lanciando qualche volta battutine e occhiate di scerno nei loro confronti.
Sollevai un pezzo di salame e, avvolgendolo nel pane, lo infilai in bocca; ero pronta a rilassarmi completamente tra le coperte e donare tutta la mia attenzione al film, e a nient’altro per quella sera – tra le continue visite di Leanne e Baja, le uscite di nascosto con Keaton, il recupero delle materie a scuola e i litigi con Elia, solo in quel momento riuscivo a rendermi conto di quanto effettivamente poco tempo avessi avuto per me.
Ovviamente, però, non potevo davvero credere che la tregua arrivasse così in fretta e così facilmente; come se me lo fossi cercato, il campanello di casa iniziò a suonare impertinente, coprendo il volume della Tv.
Sbuffando rumorosamente scivolai lentamente giù dal divano, trascinandomi verso la porta con attorno ai fianchi ancora il plaid grigio – imposi a me stessa di impedire al mio sguardo di vagare, anche per sbaglio, sullo specchio che decorava le mura d’ingresso.
Doveva essere sicuramente Keaton che aveva dimenticato qualcosa, come suo solito, ipotizzai rapidamente. “Un secondo, porca miseria! Che cazzo succe …”
Non riuscii a terminare la frase che avevo già aperto la porta; la figura di Justin - avvolta nell’ombra - era in attesa e con il dito ancora premuto sul tastino del campanello.
Ogni singolo muscolo che pensavo di possedere si irrigidì istantaneamente al contatto visivo inaspettato con il suo volto tumefatto e rigido, prima di lasciarmi travolgere dalla rabbia e l’odio che avevo sempre provato ne suoi confronti – che con le sue ultime tre settimane di assenza non erano di certo andate scemando – e che avevo represso a forza di sigarette e maledizioni  dentro di me, negli ultimi giorni.
Tutti gli insulti che stavo rivolgendo mentalmente al possibile ‘disturbatore’ fino a pochi secondi prima si erano magicamente volatilizzati dalla mia testa; l’unica cosa a cui riuscivo a pensare in quel momento erano le mani che mi prudevano dal nervoso.
Mi resi conto che quel momento lo stavo probabilmente aspettando da ben quattordici giorni o più. Forse da quando aveva rimesso piede a San Diego  o proprio nella vita di Dante.
Non tentai nemmeno di sbattergli la porta in faccia e rompergli il naso.
L’unica cosa che riuscii a sentire, nei secondi a seguire, furono le mie nocche che si scontravano brutalmente contro la sua guancia già viola.
Dante mi aveva insegnato a tirare un pugno per bene a tredici anni, dopo che Dan Michaels mi aveva tirato volontariamente una pallonata in piena faccia durante l’ora di educazione fisica, l’anno prima dell’inizio delle superiori.
Dita ben strette contro il palmo, racchiuse sotto la stretta del pollice. Polso rigido, braccio mobile e pugno sempre all’insù.
Justin si lasciò sfuggire qualche lamento appena accennato, più per la sorpresa che per il colpo, – probabilmente – massaggiandosi la mascella con le dita. “Che cazzo fai? Ti sei fottuta il cervello, per caso? Porca troia!”
Quasi come se fosse stata dotata di vita propria, la mia mano stretta a pugno partì di nuovo alla carica per inveire ulteriormente contro di lui. Il colpo atterrò per bene sul suo zigomo, costringendolo ad arretrare di qualche passo, – questa volta davvero per il dolore – mentre il labbro inferiore cominciava a sanguinare.
Strabuzzando gli occhi - consapevole che se non mi fossi sbrigata sicuramente m’avrebbe ammazzata - mi catapultai sulla porta; afferrai tra le mani il legno e iniziai a spingerlo con quanta più forza e rapidità mi riuscisse possibile, tenendo conto che fianco e braccio mi facevano ancora male per i punti appena tolti e i lividi in via di guarigione.
Mi lasciai sfuggire un piccolo sospiro, nell’esatto momento in cui la serratura della porta sembrò scattare, allentando la presa – abbassando automaticamente la guardia. Cosa assolutamente da non fare.
Ecco a cosa serviva guardare Karate Kid, dannazione!
Qualcosa di pesante e forte si lanciò dall’esterno contro la porta, spalancandola con forza bruta e buttando automaticamente me contro la parete adiacente.
Solo il tempo di percepire il cemento freddo delle mura a contatto con la mia guancia, che un paio di mani grandi si piantassero violentemente contro i miei fianchi, facendomi girare su me stessa.
La schiena sbatté dolorosamente contro la parete, allineandosi al suo profilo dritto e scomodo; sentii un dolore secco partire dal centro esatto della colonna vertebrale – mi sembrò quasi che le ossa scricchiolassero l’una contro l’altra – ed espandersi per tutto il mio corpo, schiacciato completamente dal suo.
Justin schiacciò infuriato una mano contro il muro, a due centimetri dal mio viso, con il petto che seguiva un ritmo irregolare tutto suo.
La guancia aveva assunto un colore viola acceso, le labbra sanguinavano appena e un taglio abbastanza lungo dava mostra di se di fianco al suo sopracciglio sinistro.
“Che cazzo ti è preso, eh?” ringhiò – lo fece per davvero – a bassa voce, tentando visibilmente di riprendere il possesso di se stesso.
Il suo fiato caldo si scontrò come una raffica di vento contro la mia bocca, facendomi balzare immediatamente il cuore in gola, mentre lasciava piroettare il suo sguardo nel mio.
Oro liquido contro il nero più assoluto, come due cacciatori nati a cui non è stato insegnato nient’altro nella vita.
Due leoni dalla criniera folta e possente a contendersi la preda più grande e appetibile fra tutte; a scavarsi dentro con prepotenza, in una gara all’ultimo respiro a chi trova per primo il punto debole a suo favore nell’altro. Determinati e orgogliosi fino alla morte.
“Sei un bastardo” lo affrontai, arrogante, raddrizzandomi per quanto il suo corpo contro il mio mi concedesse di fare.
Lui scoppiò semplicemente a ridere, buttando all’indietro la testa, come se gli avessi appena raccontato una delle barzellette più divertenti al mondo.
Una presa in giro bella e buona, in poche parole.
Furente, sollevai il braccio, mirando quella volta direttamente al naso.
Ma Justin sembrava aver preso per bene le sue precauzioni, perché la sua mano fu ben pronta ad incastrare la mia al muro, con una mossa talmente fulminea che riuscì a rendermene effettivamente conto quando sentì le sue unghie affondarmi nella pelle dei polsi.
E poi la sua bocca si scaraventò famelica e aggressiva contro la mia, facendomi schizzare il cuore al cervello.
Inchiodò i suoi occhi luccicanti ai miei, tirando l’angolo del labbro inferiore trai denti per farmi reagire; l’impatto del percepire il sapore metallico e salato del suo sangue contro la mia bocca mi mozzò per un istante il respiro nello stomaco.
Sentii le sue mani scivolare furtive sul collo, le spalle, il petto, i fianchi, per arrivare alle gambe; affondò le dita dietro alle ginocchia, costringendomi a stringerle attorno ai suoi fianchi per non far cadere entrambi a terra.
E, per la terza volta nel giro di un solo mese, lasciai che Justin si prendesse un po’ della mia rabbia addosso, schivando la parte del mio cervello che mi gridava allarmata fermarmi.
Di, nuovo, però, sentire la sua bocca avvolgere delicatamente la mia sembrò mandarmi completamente in tilt il cervello.
L’unico pensiero su cui riuscivo automaticamente a concentrarmi e a cui davo istintivamente senso, era la sua lingua che rincorreva la mia.
“Maledizione, Carter. Non dovresti farmi fare certe cose” farfugliò affannato, ripiombando nuovamente sulla mia bocca, aumentando la stretta del braccio sinistro attorno alla mia schiena.
La mano destra si sollevò leggera sulla mia guancia, iniziando a lasciare piccoli disegnini immaginari con le dita sulla mia pelle arrossata e calda. “Io non raccolgo i pezzi delle persone, non lo faccio. Io riesco le spezzo solo di più, Carter” mormorò a bassa voce; la bocca ancora attaccata alla mia, il suo corpo ancorato al mio, i suoi occhi persi nei miei.
Tradotto in parole povere?
Un avvertimento.
Justin mi avrebbe fatto del male; mi avrebbe spezzata. Volontariamente o no, lo avrebbe fatto. E non sarebbe riuscito a ricompormi, forse non ci avrebbe nemmeno provato.
La scelta sarebbe stata solo mia.
Ed era proprio quello il nocciolo della questione: arrivata a quel punto, dopo tutto ciò ch'era successo, m'interessava ancora che qualcuno mi facesse del male - fisicamente o emotivamente? Quanto avrebbe potuto farmene, poi?
Comunque non più di quanto solo due persone nella mia vita erano riuscite a fare: Dante e 'mio padre' biologico, l'uomo che aveva contirbuito a mettermi al mondo e che poi era scappato a gambe levate ancora prima che nascessi. 
Come, quando o perché non importava, in quel momento. Lo avrebbe fatto, e quella consapevolezza sembrò essere quella gocciolina mancante che riuscì finalmente a farmi esplodere il cuore, dopo tre settimane di battiti accelerati in cui non facevo altro che domandarmi quando sarebbe successo veramente.
Non avevo messo in conto, però, che sarebbe stato il ragazzo che stavo baciando a innescare la bomba; non mentre mi baciava come se non desiderasse faro altro da anni.
Non fu quella sensazione di oppressione al petto, però, a ricordarmi che avevo smesso di respirare; Cole era in piedi, sull’uscio della porta, con al seguito Jackson e una ragazza dai capelli rossicci. “Che cazzo stai facendo?”




















Writer's corner:
Okay, non vi rubo ulteriore tempo dicendovi perchè sono in ritardo.
La situazioen ultimamente è così: magari non scrivo per una settimana o più perchè non ho niente in mente, e poi magari un giorno mi viene l'ispirazione e scrivo di getto tutto il capitolo.
Se poi ci mettiamo interrogazioni, verifiche e raffreddori vari il tempo mi si dimezza ulteriormente, abbiate pazienza.
E boh, il capitolo è questo.
C'è l'arrivo di Kayden, che si farà vedere più spesso dai prossimi capitoli. Ci sono ulteriori problemic he si uniscono a quellic he già c'erano, e ci sono Carter e Justin che come sempre non hanno - o si danno - pace.
E lo so che magari vi starete annioando a non sapere esattamente la trama della storia, ma ripeto: pazientate. Non dico che nel prossimo si scoprirà di già tutto, ma ci saranno degli episodi che pian piano porteranno al capitolo della 'verità'. 
Io non spiego il capitolo perchè mi piace che oguno arrivi alle proprie conclusioni o ipotesi, ma se comunque ci sono delle cose in cui non sono riuscita a spiegarmi per bene sono pronta a chiarirle con piacere.
Nel frattempo, grazie a chi segue questa mia costante 'incognita' - se voliamo definirla così.
Davvero, sono contenta che a qualcuno piaccia o interessi almeno un pò ciò che sto scrivendo.
E adesso, siccome devo finire un lavoro per domani, mi sa che è il momento di evaporare.
Baci 


 
   
 
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