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Autore: stereohearts    28/03/2015    2 recensioni
Carter Harvey è un concentrato di rabbia, acidità e dolore. Dopo un passato – che non sembra essere poi così ‘passato’ - particolarmente tormentato, un incendio misterioso alle spalle ed un fratello in carcere sta cercando di spostare la sua vita su una strada più rettilinea e con meno dossi possibili, concentrando l’attenzione su scuola, amici ed un secondo fratello, Elia, spesso assente per lavoro.
Justin Bieber - che ha il suo bel da fare con una famiglia, residente a Stratford, decisamente assente ed una zia, vedova, caduta nel baratro di alcool e fumo - è un ventenne dalla bellezza disarmante, incline al perdere molto facilmente il controllo della situazione ed un caratterino pungente, corroso dai segreti che porta con sé ed una, poco salutare, dipendenza dalle sigarette.
 
San Diego.
Un incendio misterioso.
Due vite che si scontrano irreversibilmente.
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'Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera di questa persona, né offenderla in alcun modo'
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In revisione.
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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18.





Carter











 
A bassa voce mi lanciai in una sfilza infinita di imprecazioni, destinate a nessuno in particolare, mentre sentivo il mio corpo andare letteralmente a fuoco per l’imbarazzo; aggrappandomi alla maglietta di Justin per non cadere tornai con i piedi per terra, cercando di sistemarmi – nella maniera più silenziosa e discreta possibile ai loro occhi – la maglietta sulle gambe.
Inutile rettificare quanto poco – o praticamente niente – gradissi di quell’assurda situazione; a partire dalla gelida consapevolezza che stava sgomitando dentro di me per risalire in superficie, probabilmente per ricordarmi quanto stupida fossi; passando per la contrastante sensazione di bruciore che provavo nello stare di fianco a Justin, mentre le sue parole si affacciavano beffarde ogni tanto nelle mie orecchie, come fastidiose zanzare; per arrivare all’inquietudine dei miei pensieri sulle possibili conseguenze di tutto ciò. In primis di Cole, e poi di Elia, in caso l’amico avesse – disgraziatamente – deciso di riferirgli quanto aveva appena visto.
Ed io, man mano che i minuti ci scorrevano addosso silenziosamente lenti, avevo sempre più voglia di scavarmi un buco nel pavimento e nasconderci dentro la testa come uno stupido struzzo spaventato.
Una risata sinceramente divertita – che poteva appartenere solamente ad una persona in quella stanza – spezzò l’alone di tensione formatosi sulle nostre teste, facendoci sobbalzare un po’ tutti per la sorpresa.
Jackson, giubbotto di pelle mollemente appoggiato su una spalla e chiavi penzoloni da un passante dei jeans, continuò a ridacchiare per conto suo, come se stesse guardando una puntata del The Ellen DeGeneres Show o Ridiculousness. Ignorando deliberatamente l’occhiataccia di fastidio che gli lanciò Cole, si abbassò sulle ginocchia per raccogliere da terra il plaid che avevo fatto cadere io, invitandomi a raggiungerlo con un segno delle dita.
E non so se fu per la piccola stretta di protesta che Justin lasciò al mio polso o lo sguardo diffidente con il quale Cole seguì quel gesto, ma fuggì – letteralmente – verso Jackson.
“Ehilà, piccoletta” mi salutò lui, con lo sguardo fisso sulle sue mani mentre mi avvolgeva la coperta attorno alle spalle; infilò le due estremità tra le mie mani e senza nemmeno lasciarmi il tempo di rispondergli affondò un braccio attorno al mio collo, attirandomi bruscamente contro il suo fianco. “Giornataccia eh?”
“Carter” mi richiamò Cole nello stesso istante, voltando accigliato la testa verso di noi. “Che sta succedendo?” insisté, fulminando nuovamente Jackson con un’occhiataccia agghiacciante prima che questo potesse intervenire e prendere le mie difese.
Gelido e distaccato come mai lo avevo visto, irrigidì le spalle mentre con la mano indicava Justin. “Che diavolo stai combinando ragazzina?”
Cole non conosceva Justin, perlomeno non di vista a quanto ne sapevo io – quando usciva con lui, Dante tendeva a stare il più lontano possibile da casa, il contrario di Elia e Cole, la maggior parte delle volte per tenere d’occhio Rick e i suoi sbalzi d’umore; l’unico motivo che poteva averlo portato ad avere quella reazione esagerata – anche perché era già capitato che il biondino facesse la sua entrata in scena nei momenti meno adatti ed imbarazzanti. Era successo quando a tredici anni il ragazzino che mi piaceva si era finalmente deciso a baciarmi; era capitato quando io e Leanne avevamo provato, per la prima volta, a farci la ceretta a strappo da sole a casa; e poi quando a sedici anni era piombato in camera mia senza bussare, nel esatto momento in cui stavo per infilarmi il pezzo di sopra del costume da bagno. L’ultima volta, ai ventidue anni di Elia, aveva addirittura beccato me e Jackson che – sotto l’effetto dei troppi alcolici bevuti – limonavamo sulla porta del bagno del locale. Niente di così eccessivamente imbarazzante da non riuscire più a guardarci negli occhi, ma la faccia – un mix tra orrore e imbarazzo – che aveva assunto ogni volta non si poteva dimenticare neanche con una sbronza colossale come quella. – era che Elia doveva avergli parlato di lui.
E se la poca simpatia che aveva sempre mostrato nei confronti di Justin non era stata tutta una messinscena, allora le parole che aveva usato non dovevano essere state sicuramente delle più lusinghiere.
In quel momento – il meno opportuno probabilmente – mi trovai a chiedermi se in realtà Cole non sapesse più di quello che aveva mai mostrato di sapere con me. E una parte di me, chissà quanto grande e importante, iniziò a suggerirmi che forse avrei dovuto iniziare a domandarmi quante fossero in realtà le persone intorno a me a sapere più di quanto non fosse stato concesso a me di conoscere.
Irrequieta, a causa di quelle assurde possibilità che avevo preso seriamente in considerazione per qualche breve istante, strinsi  tra le mani i lembi della coperta ritornando di malavoglia alla realtà.
Realtà dove, tra l’altro, mi ero sicuramente persa più della metà del discorso che Cole doveva avermi rifilato, ancora con quell’aria scazzata e inquieta che mai gli avevo visto negli occhi.
“Almeno mi stai ascoltando?” mi ringhiò contro improvvisamente, allargando esasperato le braccia all’aria. “O sto parlando con i muri?”
“Cole …” tentò di ammonirlo Jackson, accarezzandomi distrattamente una guancia con il pollice.
“In realtà no” mi affrettai nella risposta alla sua domanda prima che potessero sviare il discorso, incrociando le braccia al petto. “Non vedo dove sia questo gran problema che vedi tu, sinceramente.”
Cole strabuzzò sorpreso gli occhi, avanzando minaccioso di qualche passo in mia direzione; come se non stesse infierendo già abbastanza, puntò di nuovo il dito contro il petto di Justin, quasi fino a sfiorarlo. “Il problema è lui! Maledizione, ragazzina, questo è Justin Bieber, okay? Non è il tizio dai capelli viola con cui sei uscita l’anno scorso, non è il ragazzino di un paio di settimane fa e non è tantomeno Jackson! E’ Justin!” mi ruggì contro; gli occhi allargati puntati nei miei, con la pupilla dilatata, e il respiro corto, come se avesse corso per tutto il tempo. “E tu devi stargli lontana!”
“Cole, smettila!” lo rimproverò in fretta Jackson, allungandosi in avanti per guardarlo negli occhi. “Me ne occupo io di questo.”
Tralasciando il fatto che stare il più lontana possibile da Justin fosse stato il mio intento sin dall’inizio – indipendentemente dal fatto che più ci provavo, più lui sembrava spuntare un po’ ovunque -, sarei stata capace di lasciar credere a Cole di avere una relazione amorosa con lui pur di fargli capire che mai e poi mai mi sarei fatta impartire delle regole senza senso o valida motivazione. Né da lui né da chiunque altro – Justin ci aveva provato con Wes, e la cosa non era finita nel migliore dei modi, tra l’altro.
Strabuzzando gli occhi mi scostai dall’abbraccio di Jackson, arretrando istintivamente verso il fondo del salotto, dove iniziavano le scale che portavano al piano di sopra. La mia via di fuga.
“E questo cosa vorrebbe dire?” domandai confusa, spostando lo sguardo dall’uno all’altro, sperando capissero che la domanda era rivolta ad entrambi.
“Che non devi più vederlo!” mi urlò contro il biondo, nello stesso istante in cui dalla bocca di Jackson uscì un ‘assolutamente niente!’ urlato con la stessa intensità e rabbia dell’altro, che mi fecero sobbalzare sul posto.
Cole non sembrò più infastidito da quella risposta simultanea di quanto non lo fossero Jackson e, a sorpresa, Justin. Strisciando sulle scarpe da ginnastica consumate, mi si avvicinò di nuovo, allineando il suo volto all’altezza del mio così da potermi inchiodare gli occhi ai suoi. “Niente più Justin, okay? Ciao, ciao. Au revoir. Aloha. Adieu. A mai più. Sayonara. Chiaro il concetto adesso?”
“Cole, dannazione, smettila!” intervenne ancora Jackson, stringendogli con forza una spalla, imponendosi nel suo abbondante metro e novanta.
“E mollami!” se lo scrollò di dosso l’altro, spintonandolo poco gentilmente all’indietro.
E come se la situazione non fosse già sul filo del rasoio, proprio in quel momento Justin decise che era il momento migliore per entrare nel mezzo della conversazione; abbandonando il muro sul quale si era poggiato, affiancò Jackson, incrociando le braccia al petto con aria di sfida. “Io credo che sia abbastanza grande da poter prendere le sue decisioni da sola.”
L’intervento non richiesto di Justin sembrò irritare ulteriormente Cole; riuscì a scorgere ogni muscolo visibile del suo corpo irrigidirsi istantaneamente, trasformandolo in una statua di marmo. Con la coda dell’occhio osservava Justin come un rapace con la sua preda, in attesa che facesse uscire qualche altra stronzata dalla sua boccaccia per potergli finalmente saltare addosso.
E per quanto l’idea che qualcun altro lo sottoponesse ad un nuovo round di pugni, mi sembrava che la sua faccia ne avesse risentito abbastanza per quel momento.
In più, la testa e il fianco avevano ricominciato a pulsarmi fastidiosamente, tirandomi la pelle; segno che era arrivato il momento di bermi una bella tazza di camomilla, sprofondare tra le lenzuola del mio letto e chiudere fuori dalla porta tutti i problemi  - per quanto mi fosse consentito anche di notte.
“Una” parlai ad alta voce, sventolando davanti alla faccia di Cole un dito – anticipando così anche Justin, che mi sembrava più che ben disposto a continuare a parlare -, attirando l’attenzione di tutti e tre su me e nient’altro. “Dammi una sola valida ragione per fare ciò che mi stai ordinando. Una sola. E ti starò a sentire.”
Cole non se lo fece ripetere due volte, accettando la sfida con una preoccupante lucina di vittoria a lampeggiargli negli occhi; mi schiaffò la mano in basso, incollando il suo naso al mio. “Elia” scandì lentamente, - mentre sentivo il cuore strapparsi dalla sua postazione per affondarmi nelle gambe -, come se volesse spaventarmi; come se stesse raccontando la storia dell’uomo nero chiuso nell'armadio ad una bambina capricciosa, per convincerla a lavare i denti prima di andare al letto. “Se non stai lontana da questo ragazzo, lo dirò ad Elia.”

 
 
 
 






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Mi svegliai di soprassalto, forse più spaventata nel percepire un peso che gravava su buona parte del mio corpo piuttosto che per uno dei soliti incubi che mi tenevano ‘compagnia’ durante la notte.
Mi guardai alcuni secondi intorno, abituandomi all’oscurità della camera, prima di tentare di rimettere insieme i pensieri.
Ero decisamente scombussolata; delle immagini frammentate di alcune ore prima si susseguivano nella mia mente in un cumulo confuso, e non riuscivo ancora a capire se tutto quello che era successo fosse stato un sogno troppo ben architettato o la crudele realtà.
L’occhio mi cadde su una terza gamba, tatuata e tonica, che spuntava in mezzo alle mie da sotto alle lenzuola.
Riluttante feci scivolare lo sguardo sulla mia pancia, trovandola circondata - con mio enorme terrore - da un braccio dalla pelle leggermente dorata, completamente tatuato anch’esso, che non poteva certamente appartenere né a mio fratello né a Jackson.
Impiegai qualche secondo di troppo per collegare la spina del cervello e capire che non avevo la minima idea a chi potessero appartenere quegli arti in più – e che ovviamente non potevo rimanere ferma nel mio letto con uno sconosciuto talmente schiacciato contro di me da riuscire a farmi quasi da seconda pelle.
“Oh Cristo Santo!” gracchiai stizzita, con gli occhi che mi sarebbero potuti benissimo uscire fuori dalle orbite da un momento all’altro.
Sopraffatta da una scarica di adrenalina mista alla paura - senza perdere inutilmente altro tempo per riflettere su chissà cosa - , aiutandomi con gambe e braccia riuscì a far arrivare sull’orlo del materasso il corpo estraneo; abbastanza perché dopo qualche istante di precario equilibrio cadesse sul linoleum freddo del pavimento con un tonfo rumoroso – speravo bastasse a far svegliare Jackson nella stanza affianco.
Come una molla balzai giù dal letto, rischiando oltretutto d’inciampare nei pantaloni del pigiama che dovevo aver levato durante la notte.
Tastai alla cieca la superficie della scrivania, con lo sguardo ancora fisso oltre la sponda del letto come se da un momento all’altro potesse spuntarne fuori Godzilla; afferrai al volo la palla da football, con la quale l’anno scorso la squadra della scuola aveva vinto il campionato studentesco, e che Keaton – e automaticamente tutti i ragazzi della squadra – avevano insistito che tenessi io.
Non che servisse poi a molto, ma siccome io ero probabilmente l’unica cittadina d’America a non avere in casa una mazza baseball o da golf avrei dovuto arrangiarmi come meglio potevo.
Con la palla stretta saldamente tra le dita, cercando di credermi più minacciosa di quanto non fossi realmente, feci un piccolo passo verso il letto da dove provenivano dei piccoli grugniti. “Sono cintura nera di arti marziali!” sbottai, sollevando il braccio, pronta all’attacco.
Tutte stronzate, ovviamente.
Io neanche sapevo cosa rappresentasse una cintura nelle arti marziali, figuriamoci stendere un probabile stalker seriale con una palla nel bel mezzo della notte.
In quel momento mi pentivo davvero di non aver dato retta a Dante tanto tempo fa e aver preso lezioni Karate o Judo, MMA, Ju Jitsu, Kung Fu, Taek-won-do; oppure stare a sentire Keaton e farmi dare lezioni di Boxe da lui nella palestra che frequentava. O, maledizione, perlomeno fare attenzione alla Tv quando guardavamo I Mercenari o Fight Club. Giusto per sapere qualche nozione di autodifesa - da autodidatta - in più , oltre al solito e prevedibile calcio dove non batte il sole.
Sicuramente un po’ più di sicurezza nelle mie inesistenti doti sportive non mi avrebbe certamente fatto male.
Dovevo seriamente iniziare a prendere in considerazione un corso di autodifesa.
“Gesù Cristo Harvey, non ti stanchi mai di sparare certe stronzate?”
Iniziavo davvero a detestare che riuscisse, in un modo o nell’altro, ad entrare in casa senza troppi problemi. Perché, quando succedeva, lui aveva il coltello dalla parte della lama ed in qualche assurda maniera riusciva sempre a calmarmi e passarla liscia. E perché di solito venivo sempre assalita dal ricordo della pelle delle sue dita sulla mia; permaneva come un retrogusto zuccheroso, del quale sembrava non riuscissi a sbarazzarmi nemmeno con ancora in corpo l’assurdo desiderio di ritrovarmi tra le mani il suo collo.
Infilando la mano tra i capelli per tirarli all’indietro, gli lanciai un’occhiataccia di fuoco prima di lasciare il via libera alla mia mano; la palla volteggiò sinuosamente al di sopra del letto, andando a scontrarsi rumorosamente contro il centro esatto della faccia di Justin.
“Che diamine ci fai qui? In camera mia? Nel mio letto? Di notte?” gli ringhiai contro, ispezionando circospetta la mia camera alla ricerca di qualcos’altro di abbastanza pesante e appuntito da lanciargli.
Per sua fortuna – e mio dispiacere – i vasi e i quadri con la cornice in ferro battuto erano sparsi un po’ ovunque per il soggiorno; allora mi rimaneva solo la sedia della scrivania, ma l’avevo spostata vicino all’anta aperta dell’armadio e lo schienale era pieno di vestiti, quindi la cosa avrebbe richiesto troppo tempo. E la mia pazienza non ne aveva.
 Scrollando le spalle afferrai uno dei cuscini sul letto e, prendendo per bene la mira, glielo scaraventai in faccia.
“Che ti salta in mente, razza di imbecille?”  Con uno scatto fulmineo afferrai anche il secondo cuscino e glielo gettai di nuovo addosso, ancora accigliata e fremente di rabbia per lo spavento.
“Per la misera, la vuoi smettere di fare la pazza?” grugnì lui, visibilmente infastidito, cercando di recuperare l’equilibrio sorreggendosi al letto con le mani.
Inarcai minacciosa le sopracciglia, sporgendo l’orecchio verso di lui e tenendo sollevato un altro cuscino sopra la testa. “Come scusa? Non credo di aver capito bene cos’hai detto …”
Justin indietreggiò di un passo, con le mani sollevate all’aria in segno di resa.
Titubante, aprì la bocca per dire qualcosa - per difendersi probabilmente -, ma l’unica cosa che uscì dalla sua gola fu un grugnito roco e talmente flebile che avrei giurato di non averlo sentito se non avessi visto le sue labbra spalancarsi.
Strizzò stordito gli occhi, avanzando di qualche passo; lo sguardo, improvvisamente liquido, fisso su di me.
Ed io lo sapevo perfettamente che cosa stava guardando; ma quale essere umano di sesso femminile, ritrovandosi uno sconosciuto nel letto, si sarebbe preoccupata d’infilarsi uno stupido reggiseno addosso?
Io, di certo, no.
“Che c’è? Non l’hai mai vista una ragazza prima d’ora?” brontolai acida, incrociando comunque le braccia al petto e cercando d’ignorare al meglio la vampata di caldo che mi era salita dai piedi alla fronte, facendomi arrossire pesantemente – riuscivo quasi ad immaginare la tonalità della mia pelle allo specchio, o ai suoi occhi. “Che diavolo ci fai nella mia camera, Justin?”
“Maledizione … Carter …”
“Parla!”
I suoi occhi iniziarono a spostarsi su ogni punto della stanza dove non ci fosse la mia faccia, improvvisamente vigili e pensierosi, mentre con la mano si sfregava la nuca. “Dopo che sei scappata di sopra ho dovuto  riaccompagnare a casa Jodi, la ragazza coi capelli rossi. Poi sono tornato qui per parlare con Jackson di alcune cose. Stavo per andarmene quando ti ho … sentita.  Lui ha detto che era normale, ma non è riuscito a fermarmi. Sono salito. E non sono più riuscito ad andarmene … non credo riuscirò più a farlo … ma …” Con lo sguardo ispezionò pensieroso i palmi delle sue mani, come alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo con le parole, nonostante inconsciamente fossi riuscita a finire la frase al posto suo.
Dopo qualche attimo di esitazione i suoi occhi scattarono su di me, scintillanti di qualcosa che avrei quasi definito … tenerezza - se solo, così, la cosa non rischiasse di diventare davvero troppo strana per le tre di notte. “Dici il suo nome.”
Ovviamente non erano quelle le parole che avevo immaginato di sentirgli uscire dalla bocca. E di certo non avevo preso in considerazione l’idea che avesse potuto assistere all’osceno spettacolo che ero durante la notte; soprattutto quando doveva essermi sfuggito dalla bocca il nome di … Gesù, il suo  nome!
Lasciando ricadere il cuscino ai miei piedi mi precipitai verso l’armadio, afferrando la prima felpa a portata di mano , infilandola da sopra la canottiera; raccattando i pantaloni a quadrettoni da terra li tirai sulle gambe, infilando anche i calzini antiscivolo con la faccia di un orsetto sulle dita, stringendomi il più possibile su me stessa.
Mi sentivo scoperta.
Nuda, nonostante fossi più vestita di prima.
A rischio, in qualche modo. Vulnerabile.
Troppo, vulnerabile, sotto i suoi occhi ardenti ed indagatori.
Sull’orlo di una crisi di pianto incredibile.
Casualmente, Justin aveva appena rotto il muro dietro al quale lottavo disperatamente eclissare la parte più fragile, debole, schiacciata dagli eventi e senza forze di me stessa; quella che se liberata dalle catene alle quali l’avevo costretta mi avrebbe investita e buttata giù come un F-35 americano in caduta libera sulla Route 101 – c’era pure un motivo se le uniche persone a conoscenza di quella parte della mia vita si contassero sulle dita di una mano.
E sarei stata capace di scoppiargli davanti senza alcun ritegno, in una delle peggior crisi di pianto mai viste, purché scegliesse di dimenticare quello che doveva aver visto.
Gli sarebbe bastata una parola, un gesto, un’espressione sbagliata per mandare definitivamente in frantumi quella parte di me e far uscire fuori tutto quanto, come una valanga implacabile, come un incubo: il passato. La mamma. Kyle. Rick. Dante.
Dante lo era da se, un incubo. Uno dei peggiori, anche.
Era una di quelle cose che non se ne vanno, quando vengono concretizzate  dopo così tanto tempo passato nel tentativo d’ignorarle il più possibile. Quelle cose che tagliano la pelle, che la marchiano, come un tatuaggio mai desiderato. Sbagliato. Indelebile.  
Dante era una di quelle cose che più ci provi a cancellarle e più ti si marchiano a fuoco addosso, per ricordarti che loro ci sono. Che ci saranno sempre, nonostante tutto. Nonostante tutti.
Ed in quel momento Justin mi era arrivato abbastanza vicino, era entrato abbastanza a fondo - più di quanto probabilmente immaginassi avrei mai permesso di fare a nessuno – da riuscire a prendersi il potere di ferirmi.
Di farmi davvero, davvero molto male. E lo avrebbe fatto, in qualche modo.
Lo sapeva lui e lo sapevo io.
Il problema, realizzato ciò, sarebbe diventato un altro: trovare un modo efficace per allontanarlo. Mandarlo via. Escluderlo dalla mia vita definitivamente. Prima che quella spezzata – ancora una volta – nella storia, fossi io.
“Sogni solo lui?”
Mandai giù la bile, sentendo il sangue pomparmi rumoroso nelle orecchie, tentando di reggere al meglio il suo sguardo; riuscivo a leggerci dentro tutto l’orrendo stupore che provava nello scoprire che una parte ‘umana’ esistesse ancora dentro di me.
Pensi che io sia forte perché riesco a scacciare tutto nell’oscurità. Ma mi lascia vuota. E l’oscurità finisce sempre per tornare nel sonno.’  “Si” esordì invece, mentendogli spudoratamente. Non credevo davvero ci fosse bisogno che sapesse tutto il resto.
In fondo una brutta storia, dettaglio più dettaglio meno, resta pur sempre una brutta storia da raccontare.
E la mia, di storia, era una di quelle così brutte e ruvide che ti rimangono impresse nella testa contro la tua volontà, per quanto tu cerchi disperatamente di dimenticarle perché fanno troppo male.
Riuscì a contare all’incirca una quarantina di secondi immersi nel silenzio più totale scorrerci attorno, prima che Justin muovesse titubante dei passi verso di me, aggirando con grazia la testata del letto.
Automaticamente arretrai, infilzandomi il fianco destro nello spigolo della scrivania, mentre lui continuava – ostinato – a riempire quei pochi metri che avevo rimesso tra di noi.
 “Tuo fratello ti ama, Carter. Più di quanto non riesca a immaginare nemmeno lui, probabilmente” mormorò, gelido.
E se la sua voce era ghiaccio impenetrabile, i suoi occhi erano un fuoco ardente. Un’antitesi pericolosamente allarmante. Quasi più del fatto che non avesse ancora arrestato la sua camminata, limitando la distanza tra i nostri corpi a due o tre spaventosi passi di distanza.
Un muscolo guizzò sul suo volto, mentre potevo vedere i muscoli delle braccia tendersi. “Maledizione!” continuò furente, passandosi una mano tra i capelli chiari. “Non doveva essere questa la tua vita, Carter. Per quanto sbagliato possa essere ciò che ha fatto, dannazione, lui voleva solo il meglio per te! A costo di sacrificare se stesso.”
Scossi testarda la testa, con il cuore che mi stava scivolando pian piano giù nello stomaco, staccandomi dalla scrivania per impedirgli di avvicinarsi ulteriormente a me. In quel momento, con quel tipo di discorso – che io mi rifiutavo categoricamente di affrontare – in corso, avevo bisogno di porre una certa distanza tra me e lui. Distanza che lui stava bellamente oltrepassando, seguendomi nella mia fuga in quello spazio ormai troppo stretto che era diventata la mia stanza.
Io non lo avevo mai voluto quel ‘meglio’ di cui parlava lui.
Lo restituirei. Tutto quanto. Pur di riavere indietro loro. Pur di riavere indietro mia madre. Pur di riavere mio fratello’ avrei voluto urlargli; perché era quella la verità – nuda e cruda -, e Dante per primo avrebbe dovuto saperla, indipendentemente da quante volte gli dicessi ad alta voce quanto lo amavo.
Di nuovo, però, dalla mia bocca non fui capace di far uscire nient’altro se non un sospiro strozzato – che Justin sembrò udire perfettamente.
Con uno scatto felino balzò in avanti, stringendomi le dita attorno al gomito, riuscendo a strattonarmi per qualche secondo più vicina a lui.
“Non piangi mai” sussurrò, affondando le mani sul mio collo, reclinandomi con i pollici la testa all’indietro, così da impedirmi di sfuggire al suo sguardo. “Non ti ho mai vista piangere.”
Presa alla sprovvista lasciai le sue mani ancorarsi ancora più saldamente attorno alle mie guance. Per un istante mi parve d’essere a corto di parole; un istante però brevissimo. Giusto il tempo di analizzare a fondo il suo improvviso cambio d’argomento – il necessario per capire dove non volevo andasse a parare -, prima di levarmi brutalmente di dosso le sue mani.
“Vattene!” gli ringhiai contro, rimbalzando sul letto per arrivare dal lato opposto della camera.
Scappando come se fossi un animale indifeso e spaventato, rinchiuso in una gabbia troppo piccola e asfissiante, con il suo cacciatore all’interno ad attendere l’attimo perfetto per mettere a segno la mossa finale. Quella vincente, che gli avrebbe levato anche l’ultimo respiro di vita.
Lui si limitò a girare su se stesso e ricominciare ad avvicinarsi, mettendomi spalle al muro. “Pensavo fosse perché sei coraggiosa. Maledizione, riesci a sembrarlo così tanto in qualunque situazione ti ritrovi.”
Mentre incollavo la mia schiena al muro riuscì ad avvertire il tonfo sordo con il quale il cuore sembrò cadermi nello stomaco, attorcigliandomelo così tanto da farmi male. E Justin che continuava a venirmi incontro non migliorava certamente la sensazione di essere presa a pugni in pancia da un wrestler professionista, di quelli che si vedono in Tv nelle gare della WWE - che Keaton e i suoi amici seguivano il Mercoledì sera sullo schermo piatto.
“Vattene! ‘Dio, lasciami stare. Vattene!” quella volta quasi urlai, cercando di appiattirmi il più possibile contro la parete fredda.
La canottiera sottile mi si era appiccicata alla pelle sudata della schiena, ed il contatto con il muro – che avvertì nonostante la felpa – mandò una schiera di brividi lungo tutte le ossa del mio corpo.
“Adesso invece no.”  Improvvisamente scattò in avanti, facendomi sbattere contro il bordo di un quadro che avevo sopra la testa, deciso a non demordere come ma lo avevo visto. “Adesso penso che sia perché sei emotivamente bloccata.”
E mi abbracciò.
Senza darmi nemmeno il tempo di respirare, m’imprigionò in quella stretta mortale che erano le sue braccia strette attorno alla mia schiena.
Le sue ginocchia cozzarono contro le mie, il suo mento inchiodò sulla mia testa; la mia faccia affondò nelle curve gentili del suo petto, ed il suo respiro si mischiò al mio, mentre mi trascinava di peso tra le lenzuola nere del mio letto, con il battito irregolare del suo cuore ad inondarmi tutti i sensi, chiudendo fuori tutto il resto.

 


















I'M BACK. AND I'M ALIVE.
Quasi due mesi.
Sono quasi due mesi che non entravo qui su efp o aggiornavo la storia.
Mi sembra assurdo che sia passato tutto questo tempo così in fretta, e mi scuso davvero per il ritardo con le personcine che hanno continuato a seguire la storia.
Purtroppo, tra la fine del pentamestre e il nuovo giro di verifiche di queste ultime due settimane non ho avuto praticamente un attimo libero, il che ha anche influito con la mia voglia e la possiblità di scrivere.
Non sapete quante idee ho cambiato e quante volte ho riscritto questo capitolo, che probabilmente non sarà venuto nemmeno bene.
Purtroppo, nonostante lasci a desiderare, diciamo che 'serve' anche per i prossimi capitoli, dove vi assicuro che le cose inizieranno a farsi davvero interessanti. Anzi, già dal prossimo capitolo ci sarà già un pò più di azione.
Ci sto lavorando da un pò, sperando che ne esca meglio di questo qui.
E, insomma, non saprei cosa dirvi oltre a questo.
Mi piacerebbe che mi diceste davvero cosa ne pensate. Cosa vi piace, cosa non vi piace, o se non vi piace per niente. Mi farebbe piacere avere qualche opinione ogni tanto, anche per capire se quello che sto combinando è perlomeno accettabile o se devo proprio smettere per non farvi sanguinare gli occhi. lol
Non so, fatemi sapere qualcosina magari(?)
E c'è anche un nuovo banner (olè)! Che ne dite?
Alla prossima,
Baci 



 
   
 
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