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Autore: Silvar tales    30/01/2015    3 recensioni
Qui segue il racconto di Thranduil e Filigod.

Un piccolo tentativo di conciliare film e canone tolkieniano.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gundabad








Due giorni dopo Re Thranduil aveva valicato le porte rosse di Gundabad, con al seguito cento lame elfiche.
Aveva fatto il passo con la coscienza di aver varcato un punto di non ritorno: anche se ancora non erano usciti allo scoperto, Thranduil ben sapeva che tutt'attorno, le alture rocciose che lo circondavano a destra e a sinistra, erano gremite di arcieri.
Spronò il suo cavallo a proseguire per il sentiero, un ripido ciottolato che si inerpicava all'interno del monte malvagio. La salita era dolce ma impegnativa, poiché il sentiero non si ripiegava in serpentine, come consuetamente avrebbe fatto un'agevole via di montagna, ma proseguiva dritto, senza alcuna curva, e pareva terminare contro una diga artificiale sormontata da quattro grigie torri.
«Le Porte del Nord», disse Thranduil fra sé, mirando intimidito i bastioni cui si stavano avvicinando. Il modo in cui erano stati costruiti ricordava l'architettura númenoreana, se non fosse che in cima alle torri svettava la bandiera rossa e nera degli Orchi di Angmar, e i merli e le feritoie erano ornati da fetide punte di ferro.
«Come, mio Signore?»
«Feren, rimanimi affianco».
Feren piegò la testa, in segno di intesa, e portò il proprio destriero fianco contro fianco con quello del suo Re.
«Signore, non senti un odore come di fumo? Mira sulle creste rocciose: i pochi alberi che v’erano sono ridotti a neri stecchi».
«Un incendio, per certo opera delle malefiche bestie di cui questi luoghi sono infestati, le quali tanto hanno in odio tutto ciò che la Sacra Ivon ha in amore».
«Se fu un incendio, allora fu assai vasto».
«Non darti pensiero, e fa’ silenzio ora. Siamo quasi giunti».
Thranduil fermò il cavallo ai piedi delle grigie mura, e attese. Un corvo gracchiò, e il suo verso roco rimbombò per tutta quanta la tetra valle. Una manciata di sassolini scivolò giù dal fianco del pendio destro: Thranduil volse di scatto la testa verso quella fonte di rumore, e quasi stava per dare segnale agli arcieri, credendo che gli Orchi si fossero finalmente rivelati.
Per buona sorte si accorse in tempo di aver avuto un abbaglio, e nessuna freccia venne erroneamente scoccata. Si impose dunque di rimanere freddo e lucido, perché sapeva che perdere padronanza di sé avrebbe portato solo altre disgrazie. Ma era impossibile trovare concilio tra i pensieri che si scornavano nel suo cuore: da una parte, bramava immensamente che gli Orchi gli mostrassero Filigod; dall'altra, temeva che, se avesse urlato alle silenti mura una simile richiesta, essi avrebbero appeso il suo cadavere fuori dalle feritoie.
Ma questo terribile dilemma si risolse da sé pochi istanti dopo, quando sui bastioni iniziarono ad ammassarsi centinaia di Orchi, e alle finestre e alle feritoie si accalcarono Goblin e Orchetti arcieri, e ognuno di essi urlava come fossero un branco di cani in agonia. Infine giunse sul torrione più imponente un grosso Orco, raccapricciante da vedersi come ogni altra creatura del suo stesso lignaggio. Non era equipaggiato con i rozzi artefatti della sua razza, ma portava spadone e armatura di nobile fattura, alcuni manufatti elfici e altri che parevano dúnedain.
«Non occorre che parli elfo, sappiamo perché sei qui», iniziò così a dire il grande Orco, che evidentemente comandava su tutti gli altri, e la sua voce era tonante e spaventosa quasi più del suo aspetto.
«Liberatela», disse Thranduil, e la voce gli uscì così flebile e poco convinta che non era sicuro di essere stato udito. Tuttavia non osò dire altro, poiché qualsiasi cosa gli venisse in mente gli pareva essere la più sbagliata di tutte.
«Liberatela, tu mi chiedi. Tu. Chi sei tu, Thranduil, per credere di dare ordini a me, a Curzmar, che sta a guardia del corridoio di Gundabad e regna su questi luoghi? Tuttavia te la mostrerò, elfo insolente, e vedrai con i tuoi stessi occhi se ancora vale la pena riaverla indietro».
Thranduil scese da cavallo, e gli pareva di non saper più camminare. Vide Curzmar scomparire, e riapparire poco dopo in un coro di risa malvagie. Trascinava con sé Filigod, e la teneva davanti al proprio corpo alla stregua di uno scudo. Ella era nuda, e ferita, e al posto dei suoi lunghi capelli ora vi era una corta chioma ispida, eppure era viva.
«Adesso voglio vederti supplicare, elfo. Voglio vederti sporcare le tue preziose vesti nel fango, e piegarti dinnanzi a Curzmar di Gundabad. Voglio che getti la tua corona ai miei piedi, e che mi riveli l’ubicazione delle porte per il reame nascosto. Se costei vale così tanto per te, voglio in cambio qualcosa che valga il doppio almeno».
Ogni Elfo del Reame Boscoso, ogni Uomo di Esgaroth, ogni Nano di Erebor, anche il più umile di essi, chiunque avesse mai veduto il Signore di Bosco Atro, o ne avesse almeno sentito parlare, sapeva di lui una sola cosa con certezza: quanto grande fosse il suo orgoglio. Ma coloro che gli erano più vicino sapevano anche che l’orgoglio del Re Silvano diventava un nulla, messo affianco all’amore ch’egli provava per Filigod, Luce di Luna.
Thranduil era la guida di tutti i Nandor che gli stavano alle spalle, nonché loro Re. Eppure si mise in ginocchio, e le sue vesti si lordarono; gettò via la sua corona, e divenne il più basso di tutti.
«A te, Curzmar di Gundabad, io consegno questa corona. Essa non è solamente un frivolo manufatto in oro bianco, essa rappresenta il diritto a governare su Bosco Atro. Ti prego, invero non posseggo nulla che valga anche un solo suo capello, ma dimmi ciò che vuoi, e io te lo darò».
L'Orco sembrò quasi commosso da cotanta devozione, ma ciò non poteva essere, poiché le corrotte creature di Morgoth erano incapaci di provare compassione verso il prossimo, e solamente erano abili a fingere e schernire.
«Calmati, elfo», disse Curzmar, «se risponderai bene, la tua regina avrà salva la vita. Infatti non mi porta a nulla ucciderla. Parla dunque: dove si trovano i cancelli del tuo regno?»
«A nulla ti porta, fuorché all’insensata malvagità insita nella tua stessa natura, infido abominio», disse Feren, pieno d'odio, tuttavia curandosi di tenere bassa la voce. Ma Thranduil neppure lo udì, e si affrettò dunque a rispondere:
«Ascolta: vi è un sentiero che prende abbrivo dai Cancelli della foresta, ma esso è ingannatore e facile sarà perdere la via, oltre che il senno, se lo seguirai senza averne confidenza. Esiste una via più sicura, e solamente i Silvani ne sono a conoscenza. A un tratto dell’Antica Via, ove i Monti della Notte si deprimono in una sella, vedrai una stele di pietra nera adornata con incisioni naniche, un segno di riconoscimento che io feci fare per i Naugrim di Dor Lindon, i quali mi aiutarono a scavare le Caverne e le Grandi Sale del mio Regno. Se a quel punto ti addentrerai nella selva, verso Nord, incontrerai un’altra stele identica alla prima, ed essa segna l’inizio del cammino che ti condurrà alle sorgive del Ruscello Incantato, il quale va a confluire nel Fiume Selva. Attraversa il Fiume nel punto della confluenza, e ancora prosegui verso Nord: incontrerai una radura di mirtilli, e un masso forcuto al centro di essa. Dietro il masso, se aguzzi gli occhi, scorgerai un sentiero non più largo di tre spanne, nascosto tra l’erba alta. Esso proseguirà verso Nord per un miglio, e infine giungerà alle Porte».
«Saprò se hai detto la verità, Thranduil. Conosco fin troppo bene con quale facilità il tuo spregevole popolo ostenta la menzogna».
«Non ti ho detto alcuna menzogna! Credi forse che rischierei la vita di mia moglie e di mio figlio?»
«Io davvero non credo che rischieresti la vita di tuo figlio, per questo dubito che tu abbia detto la verità. Si dice che tu già abbia un figlio, oltre quello che cresce nella pancia di questa selvaggia», sputò Curzmar con disprezzo, e strattonò Filigod afferrandole in un pugno i corti capelli, e stringendola a sé con violenza.
«È la verità, questa che ti ho appena descritto è la strada per giungere al mio Regno, e se vuoi te la ripeterò ancora, e ancora, e ancora una terza, una quarta, una quinta volta, e ogni volta dirò uguale: la stele, il ruscello, la radura di mirtilli, poi il masso forcuto. Sempre guardando il Nord».
L'Orco guardiano di Gundabad sembrò infine credergli, e tuttavia Thranduil non gli aveva mentito.
«Dunque, cos’altro sei pronto ad offrirmi perché io te la renda?»
«Già ti ho offerto questa corona, assieme all’ubicazione del mio Reame: non solo regnerai sul Corridoio per il Nord, ma su tutta quanta la vastità di Bosco Tetro. C’è forse qualcosa di più prezioso che potrei offrirti?»
«È vero, mi hai rivelato dove sono site le porte nascoste, sempre se ciò che hai detto corrisponde a verità. Ma non sono uno stupido: dopo che ti avrò ridato tua moglie, sarai tu a condurmi là, e prima che io entri farai in modo che tutti i tuoi soldati escano, e davanti a loro mi eleggerai re».
«Così farò», rispose Thranduil, abbassando il capo, seppure gli fu difficile distogliere lo sguardo dalla sua amata, ancora avvinta nelle putride membra dell’Orco. «Te lo giuro. Ora liberala, te ne prego».
«Ancora non mi fido, elfo. Vedo che i tuoi sono ancora armati e in allerta, ordina che gettino lontano gli archi e le spade».
«Questa sarebbe una richiesta ragionevole, o Curzmar di Gundabad, se anche i tuoi abbassassero le loro armi, ma io vedo che ancora molte balestre sono puntate su di noi, e molte frecce aspettano solo un tuo cenno perché siano scoccate».
«Questa è una richiesta ragionevole, o Thranduil lo stolto, poiché questa è la mia casa e tu sei un invasore, e poiché la vita di costei, e del figlio che costei porta in grembo, sono ancora nelle mie mani. Dunque fa’ ciò che ti ho detto, presto!» lo incalzò Curzmar, e strinse ancora più forte il pugno sulla nuca di Filigod. Ella era immobile, vinta dalla rassegnazione, ma anche se l’Orco le teneva il capo costretto verso l’alto, si sforzava comunque di volgere gli occhi in basso, e tenerli fissi su Thranduil.
Il Re Silvano si piegò nuovamente al volere del malvagio, e fece cenno a Feren che tutti gettassero via le armi. Mentre egli stesso si sbarazzava delle spade, dell’arco e dei pugnali che portava seco, solo allora si accorse che le mani gli tremavano, e neppure con la forza riusciva a fermarle.
D'un tratto, senza alcun preavviso, un vento anomalo si levò, e i neri stendardi degli Orchi vennero scossi con tale violenza che alcuni di essi volarono via. Un rumore come di grosse ali che si dimenavano si udì provenire, in apparenza, da dietro il fortilizio; poi, così come era arrivato, il vento cessò di colpo.
«Cos’era?» sussurrò Feren, rivolgendosi preoccupato al suo Re, «forse è che le bestie sono riuscite a ridurre in catene una delle nobilissime creature di Aran Einior?»
«No», rispose Thranduil, «questo non può essere».
«Dunque sarò io a regnare su Bosco Atro, elfo? Scaverò fossati da qui sino Colle Stregato, costruiremo un grande muro, e vi saranno sentinelle su di esso, notte e giorno, così che nessuno possa più passare da Est a Ovest e viceversa senza che noi lo permettiamo. Saresti pronto a sacrificare la tua gente, e la libertà di tutta la feccia che ancora vive ignava e godereccia in queste regioni, solo per riavere indietro questa che tu chiami regina, che invero somiglia più a una sporca serva?» Curzmar ghignò, e tutti quanti gli Orchi risero con versi gutturali e sguaiati. Allora Curzmar rise anch'esso, e ancora disse: «ma chi mai chiamò nobili e benevoli gli elfi dell’Ovest? Chi mai li chiamò saggi, integerrimi, incorrotti? Essi non sono altro che meschini ed egoisti. E voi, voi piccoli elfi dei boschi, che ancora sottostate a questo traditore, perché non vi ribellate? Perché non impugnate le armi che avete appena gettato via e non lo dilaniate di frecce? O siete così stolti da voler morire perché il vostro nobile re abbia di nuovo spasso per i suoi lombi?»
Altre risa malevole si levarono dalle schiere degli Orchi, come una fragorosa ondata di fango. Thranduil si accorse che Feren era traboccante d’ira, i polsi gli tremavano e guardava con desiderio il proprio arco, abbandonato a pochi metri di distanza. Quanto avrebbe voluto difendere l’onore del suo Signore, che le parole dell’Orco erano talmente ingiuriose e sprezzanti da non potersi sopportare; ma non poteva fare nulla, nessuno di loro poteva, dovevano rimanere acquattati, piegati dinnanzi a un verme vestito in oro e argento, e fingere di asservirlo.
«Dunque questo è il patto, elfo. Io, Curzmar, regnerò su Bosco Atro, e possederò tutto ciò che tu sino ad oggi hai posseduto, tranne questa tua regina».
«Siamo d’accordo: Bosco Atro e tutto quanto il mio Reame, in cambio della sua vita, e della vita di mio figlio. Solamente questo ti chiedo».
«Siamo d’accordo dunque», ripeté l’Orco, e la sua faccia era sfigurata da un orrendo ghigno. Ma fu allora che, invece di lasciare la presa sui capelli di Filigod, la costrinse a piegarsi sulle ginocchia, e alzò la lama, ed ella non cercò nemmeno di dimenarsi, poiché già sapeva, avendo udito i discorsi che gli Orchi avevano fatto alle sue spalle, i quali non erano potuti giungere alle orecchie di Thranduil.
Thranduil venne colto da vertigine, tanto che tentò di alzarsi in piedi ma subito ricadde in avanti, e tutt’attorno il mondo fu silenziato.
Ed ella gridò, prima che il pugnale affondasse nel suo addome:

«Ahimè Thranduil, volevi la mia salvezza, ma sei stato la mia condanna. Non ci rivedremo più!»

Curzmar scaraventò il suo corpo fuori dai bastioni, ed esso cadde su un monticello di pietrisco, poco distante dai piedi di Thranduil. Tuttavia parve quasi non fare rumore, ma Filigod cadde lieve e silenziosa, come una verde foglia che abbandona l'albero anzitempo, o piuttosto come un passero colpito da un dardo, che cadendo tiene le ali aperte, e pare che invece di morire compia un ultimo volo.
A quel punto, i Silvani ripresero all'istante in mano le armi, e frecce vennero scoccate da ambo le parti. Ma Thranduil non sentiva i rumori della battaglia; si trascinò a fatica sul cumulo di pietre ove Filigod giaceva, inciampando e cadendo tra i ciottoli, e scivolando sull'infida ghiaia. Quando vi giunse, cadde carponi e la prese tra le braccia. Il suo corpo era nero di polvere e rosso di sangue, nulla rimaneva del candore della sua pelle, o della viva luce che la sua chioma emanava.
Thranduil la guardò per un lunghissimo momento, continuando a stringerla, immaginando che dietro le sue palpebre chiuse si specchiassero ancora le Stelle dell'Ovest. Il dolore che provava era tale da soffocarlo, e renderlo cieco e sordo, e incapace di muovere gli arti.
«Liberate le bestie! Liberate i dominatori del cielo! Liberateli!» comandò l'Orco Menzognero alla sua marmaglia. Poco dopo, di nuovo si udì il rumore di mastodontiche ali che si aprivano e si chiudevano, e un tremendo ruggito rimbombò nella valle.
Thranduil era abbandonato a sé stesso e non percepiva il pericolo, benché tutt'attorno la battaglia infuriasse, e già i suoi soldati cominciavano a cadere. Ma se ogni possibilità di dialogo era stata vanificata, tutti loro sapevano bene che resistere era inutile, poiché cento Elfi intrappolati in una conca nulla potevano contro un'intera armata di Orchi e Goblin, asserragliati dentro dei fortilizi. Tuttavia Thranduil era stato risparmiato dalla prima pioggia di dardi poiché si trovava a ridosso della muraglia, nascosto alla vista di chi vi stava sopra. Di nuovo strinse Filigod tra le braccia, e le mani e le labbra gli tremavano senza sosta.
«I Draghi mio Re! Dobbiamo tentare la fuga!»
«Thranduil! Thranduil! Alzati o morrai!»
Fu Feren, con l’aiuto di due suoi compagni, a strapparlo via da Filigod.
«No, no, lei non può cadere qui… questo luogo non può essere la sua tomba… devo riportarla a casa…» e così andava dicendo, Thranduil delirante, mentre Feren suo salvatore con la forza lo trascinava lontano dalle fiamme.
«Vinci il dolore, Thranduil, e ricordati del figlio che ancora non hai perduto!»
Trovarono riparo dietro un grande masso spiovente, e Thranduil si accasciò a terra, con la schiena poggiata contro la pietra, e gli occhi fissi nel vuoto. Le sue guance erano bagnate, e boccheggiava, come incapace di respirare.
Il terreno si oscurò per un momento, come se una nube velocissima fosse passata sopra le loro teste. Ma una nube non era: Thranduil alzò gli occhi al cielo, e sembrò solo in quell’attimo accorgersi di quale rovina incombeva su di loro. Volse lo sguardo verso coloro che l’avevano seguito, e che ancora gli erano fedeli, e colse la paura nei loro occhi, la medesima paura di un navigante che, solo in mezzo al grande mare nero, vede spegnersi le stelle. Nessuno di loro aveva mai visto Thranduil così inerme, e senza la sua forte guida erano come senza speranza: perduti.
«Dunque era questo ciò che tenevano celato nelle bocche di Gundabad. Siam perduti», disperò una giovane voce, che Thranduil non riconobbe.
«Feren, le mie spade», disse, e sorse in piedi. A vedere quella ripresa, gli occhi dei Nandor presero nuova luce, e assieme al loro Re anch'essi imbracciarono le armi.
Thranduil uscì allo scoperto, e vide che le possibilità di salvezza erano ben poche. Due abominevoli Serpenti solcavano il cielo, e gli Orchi colpivano dall’alto con le frecce. Ora, le schiere del maligno si erano palesate anche sulle Porte meridionali, e mai sarebbero riusciti a passarvi oltre senza cadere sotto i colpi di innumerevoli dardi.
Allorché Thranduil iniziava a disperare, e vedeva la morte venirgli incontro; eppure, una tenue luce di speranza venne appiccata proprio dalle stesse bestie che i malvagi abomini di Morgoth credevano di domare: mosso da un forte odio suscitato dal ricordo delle catene, il più giovane dei due Draghi si disinteressò degli Eldar e si abbatté invece sui bastioni grigi, seminando terrore e distruzione tra le fila degli Orchi, i quali corsero a ripararsi nel ventre della montagna. I Silvani presero vantaggio di quell’insperato smarrimento per correre verso i Cancelli meridionali, ma lì ancora molti arcieri, incalzati e frustrati da un secondo generale di Gundabad, rimanevano a presidiarli. Il passo era chiuso.
In quel mentre, quando ancora erano indecisi sul da farsi, planò davanti a loro Ssivekad, il Grande Verme del Nord, e il terreno tremò sotto le sue possenti zampe. Anche se esso era un Drago dei Ghiacci e non faceva parte degli Urulóki, quasi li eguagliava in possanza, ed era uno dei pochi della sua razza a covare il fuoco nello stomaco, sebbene potesse scatenarlo solamente poche volte nell’arco di un mese, poiché il fuoco, una volta consumato, impiegava molto tempo ad impastarsi nel suo ventre. La sua arma più letale erano invero le zanne e gli artigli, e la velocità con cui si muoveva, pari a quella di un’anguilla che guizzava nei fossi.
Thranduil sollevò in alto le spade e chiamò a sfida il Drago, mentre tutti insieme i suoi arcieri tendevano gli archi. Ssivekad teneva la pancia ben protetta, e sibilava nella sua lingua parole che il Re elfico non riusciva a discernere. Non potendo più usare il potere del fuoco, il Serpente sbatté le ali con tutta quanta la sua forza.
Thranduil barcollò all’indietro, e la bestia ne prese vantaggio, avventandosi su di lui. Sopraffatto dalla forza con cui Ssivekad gli piombò addosso, Thranduil perse una delle due spade, e Feren, vedendolo soccombere, ordinò agli arcieri di abbattere sulla bestia tutte le frecce che avevano incoccato; poi estrasse egli stesso la spada, e accorse in aiuto del suo Re, mentre i Silvani attaccavano dalla distanza.
Thranduil fronteggiò Ssivekad di muso, ma la sua lama non riusciva a penetrare sotto le sue scaglie bianche, né poteva recidere i suoi artigli, o scheggiare le sue zanne. Fu uno scontro lungo e logorante, poiché il malvagio Ssivekad godeva nel vedere il Re elfico esaurire poco a poco le sue forze. E quando Thranduil cominciò a non essere più in grado di schivare gli attacchi del Drago, fu allora che il Drago smise di giocare, e si apprestò ad ucciderlo. Ma in quell’attimo, lesto Feren scivolò sotto il suo ventre, e con tutta quanta la sua forza vi conficcò la spada. Ssivekad emise un terribile lamento e rimase immobile, tramortito dal troppo dolore. Eppure la spada non era penetrata in profondità, e grattando furiosamente con gli artigli la bestia riuscì ad estrarla dal proprio addome. Thranduil colse il momento propizio: veloce imbracciò l’arco e incoccò una freccia, e pur non essendo mai stato particolarmente abile a tirare, riuscì a colpire l’occhio del Drago, dando così il tempo a Feren di mettersi in salvo.
«Meriti questa sorte! Altro non sei che uno schiavo di Morgoth, meriti questa sorte, e meriti le catene! Ora muori!» così parlando, Thranduil si apprestò a finirlo.
Ma il furioso Ssivekad, ferito e cieco da un occhio, prese il volo, dispiegò le grandi ali e caricò in avanti. E, nel sollevarsi da terra, accidentalmente colpì con le grosse zampe posteriori il volto di Thranduil. Gli affilatissimi artigli affondarono senza alcuno sforzo nelle sue carni, e per la forza con cui vi si conficcarono Thranduil venne trascinato appresso al Drago per diversi metri. Infine, quando Ssivekad si sollevò, egli rovinò a terra urlando di dolore.
«Elfo inssolente ssì, ora ssaprai cosa ssi prova a guardare il mondo a metà», così parlò il Drago nella sua lingua incomprensibile, mentre accecato dal furore si dirigeva verso i Cancelli meridionali, deciso ad abbattere la sua vendetta sugli Orchi che l’avevano tenuto a lungo prigioniero. Il fratello rispose all’eco del suo furibondo richiamo, e la sua voce proveniva da lontano, oltre il valico settentrionale di Gundabad, dove avevano inizio le desolate contrade di Angmar.
In molti credettero che il Signore del Reame Boscoso fosse di già perito, ma Thranduil sopravvisse, seppur con il volto sfregiato da una gravissima ferita. Raccolse le ultime forze per fuggire oltre i Cancelli meridionali, sui quali si erano avventati i due Fratelli Alati, e i quali stavano facendo strazio degli Orchi.
Ssivekad cadde nell’assalto, colpito dalle infide macchine da guerra, ma il Serpente minore riuscì a fuggire verso Nord, oltre i Monti Grigi.
Dei cento guerrieri elfici che avevano seguito Thranduil oltre le Porte di Gundabad, solamente venti sopravvissero. Gli altri caddero anch’essi sotto la pioggia di dardi, mentre tentavano di attraversare i Cancelli. Tuttavia, se i Serpenti non avessero deciso di rivoltarsi contro i loro stessi padroni, non vi sarebbe stata alcuna speranza di salvezza, per nessuno di loro. Le creature che gli Orchi avevano pensato di poter usare come arma invero si erano rivelate la loro rovina.

Non appena furono al sicuro, celati nell’ombra delle propaggini di Bosco Atro, smisero di correre. Feren fece la conta di quanti Silvani erano sopravvissuti, e vide che erano ben pochi.
«Oggi è giorno di grande dolore», sospirò amareggiato, non potendo trattenere le lacrime.
Thranduil si aggirava nel sottobosco come se stesse sognando: toccava la corteccia degli alberi come se fosse la prima volta che li vedeva, e attorno a sé vedeva solo una densa tenebra, poiché le forze lo stavano abbandonando, e la sua vista andava scurendo. Il suo volto era una maschera di sangue, la guancia sinistra era scarnificata e l’occhio sinistro divenuto cieco. Pareva un prodigio che, in un tale stato, egli avesse trovato la forza di correre lontano da Gundabad.
D’un tratto sentì come se la sua ora fosse infine giunta, e crollò in ginocchio, la destra che ancora artigliava il tronco di un albero, in un estremo tentativo di rimanere ritto.
«Feren, Legolas…» mormorò, prima di cadere.

   
 
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