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Autore: BlueParadise    30/01/2015    6 recensioni
"We can beat them, for ever and ever
Oh we can be Heroes,
just for one day"
Genere: Guerra, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: I Malandrini, James Potter, Lily Evans | Coppie: James/Lily
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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CAPITOLO 1


Il tremolio delle mie mani era un chiaro ed evidente segnale di quanto la mia mente fosse in subbuglio. Era del tutto normale che lo fosse, tuttavia il pensiero non riuscì comunque a tranquillizzarmi. L’unica cosa che riuscivo a sentire erano le pulsazioni accelerate del mio cuore. Non c’era spazio per altro, in questo momento ogni singolo muscolo dentro di me si tendeva e si protraeva irrequieto.
Dovevo calmarmi, non li avrei mai affrontati se avessi continuato così, perfino le parole, quelle che dentro di me mi ripetevo da giorni e giorni nella speranza di conferire loro un tono più sicuro e convincente di quanto fosse nella realtà, mi sembravano ora un insieme di lettere confuso e nervoso.
Questa non era una decisione facile, anzi, era la più difficile che avessi mai preso, ardua e allo stesso tempo necessaria. Era di vitale importanza per me articolare quelle frasi tanto segregate per dare loro modo di comprendere perché dovevo fare quello che mi ero riproposta di fare.
Avevo paura. Io, Lily Evans, avevo talmente tanta paura da sentirmi stordita. E c’era perfino chi diceva che gli impavidi e coraggiosi Grifondoro non conoscessero la parola paura, in questo momento a me pareva decisamente il contrario. Non potevo rimandare, sapevo che in un modo o nell’altro avrei dovuto affrontare questa maledetta situazione.
Presi un lungo respiro e mi concedetti ancora qualche secondo, dopodiché spalancai la porta della mia camera e scesi velocemente le scale che portavano al piano terra dell’abitazione.
Sapevo che i miei genitori si trovavano in cucina, li sentivo chiacchierare allegramente. Loro avevano la loro vita, io avevo la mia. Ero divisa fra due mondi: quello babbano e quello magico, ma sapevo di appartenere molto di più al secondo. Durante gli anni mi ero sempre più legata alla magia fino a ritenere assurda la vita senza di essa. Non potevo vivere in un mondo che ignorava la sua esistenza, io ero nata per essere una strega.
Entrai in cucina con passo lento, per nulla convinta di quanto stessi facendo.
«Vi devo parlare» annunciai, ma la mia voce risuonò malinconica.
Rose e Cristopher Evans si girarono verso di me confusi.
«Qualcosa non va, tesoro?» mi domandò mia madre.
Desiderai con tutta me stessa non dover pronunciare queste parole, ma mi obbligai a parlare. «Si, mamma. Credo che sia meglio che vi sediate.»
Loro mi ascoltarono e si sedettero guardandomi apprensivi e sbigottiti. In effetti tutto questo doveva apparire strano e senza senso, ma ciò che stavo per spiegare loro avrebbe cambiato ogni cosa, nella mia vita come nella loro.
«Sentite, quello che devo dirvi è assolutamente importante. Non so neanche da dove incominciare» iniziai con agitazione. «È una faccenda seria di cui non ho mai voluto parlare, forse perché ho sempre avuto paura di questo momento, ma ora mi rendo conto che meritate delle spiegazioni. »
Il loro silenzio mi spronò a pronunciare la frase che tanto avevo cercato di nascondere. «Il fatto è che siamo in guerra, l’intera comunità magica è in guerra.»
I loro visi, i visi famigliari dei miei genitori inorridirono senza parole. Riuscivo quasi a sentirne i pensieri, pensieri che cercavano inutilmente di realizzare la situazione.
«So che siete spaventati, ma c'è molto di più. Non posso continuare a fingere che tutto vada bene, perché non è così. Oltre che a essere in guerra, la gente viene continuamente uccisa. Io rappresento un pericolo per voi, capite?»
Presi un profondo respiro per riordinare il caos che imperversava nella mia mente. «Nel mio mondo vengo discriminata, chiamano quelli come me Sanguesporco. Un mago molto potente e oscuro vuole eliminare e distruggere quelle persone che per lui sono impurità e i Mangiamorte, i suoi seguaci, ritengono che coloro che sono nati da una famiglia senza poteri magici siano da eliminare, così come voi Babbani. Ci ritengono una razza infima, dicono che siamo indegni perché abbiamo rubato la magia.»
«Ma tu non hai rubato nulla!» esclamò papà all’improvviso. Avrei tanto voluto risparmiare loro tutto questo, ma non potevo andarmene senza una spiegazione.
«Certo che non ho rubato nulla, ma sono degli estremisti, uccidono senza il minimo rimorso. Quello che sto cercando di farvi capire è che non posso più stare con voi. Devo proteggervi, se nessuno vi collegherà a me sarete salvi. E la verità è anche che il vostro mondo mi è stretto, capite? Io non riesco a vivere secondo le vostre regole.»
«Le nostre regole? L'unica regola che ti chiediamo di rispettare è di non usare la magia finché sei con noi per non turbare Petunia e per non destare sospetti. Non è particolarmente difficile Lily, hai vissuto undici anni felici ignorando la magia» rispose mio padre.
«E non ci devi proteggere tesoro, siamo noi i genitori che dobbiamo badare a te, non il contrario » sussurrò mamma con voce tremante.
Era pallida e aveva il viso rigato dalle lacrime. Mi si strinse il cuore quando vidi che stava piangendo. Oltre che essere una pessima figlia, ero anche la fonte primaria dei loro problemi. Odiavo non poter dare loro ciò che avevano tanto desiderato, non poter essere semplicemente la figlia che avevano cresciuto con amore.
«No, mamma. Voi non capite, io sarò segnata sulla loro lista nera in ogni caso, ma voi non dovrete necessariamente farne parte. Anzi, voi non dovete e basta. Devo proteggervi e questo è l’unico modo» dissi con forza appoggiando i pugni chiusi al bordo del tavolo.
«Lily, sei sempre stata una bambina testarda, la mia bambina. Ma non devi per forza andartene, puoi sempre trovare un equilibrio» propose papà guardandomi quasi speranzoso.
«Un equilibrio?»
«Sì, potresti finire questo anno ad Hogwarts e poi magari frequentare l’università e trovarti un lavoro, vivere una vita normale e senza magia.»
Rimasi talmente scioccata che non trovai nulla da dire, fissandoli senza parole.
Come potevano chiedermi di rinunciare per sempre ad una parte di me ormai indissolubile? Come potevano anche solo pensare che mi sarei tirata indietro, che avrei detto addio al mio mondo? No, era evidente che non conoscevano questa parte di me. Ci eravamo allontanati troppo e ora non sapevano più chi io fossi diventata.
«Davvero pensate che lo farei? Siete completamente fuori strada, non rinuncerò mai al mondo magico! Non sono una codarda! Sono una strega e continuerò ad esserlo, anche se questo vorrà dire rinunciare a voi!» urlai arrabbiata e ferita. «Voi non mi conoscete, non sapete nulla di me. Non potete chiedermi una cosa del genere, dovrete accettare che ho fatto la mia scelta. E ho deciso di allontanarmi da voi solo perché vi voglio bene e voglio che voi abbiate la vostra vita felice. Non posso vivere in un mondo dove non mi sento me stessa.»
«E quando sei te stessa?» domandò mio padre con lo stesso ardore.
«Mi sento me stessa con una bacchetta alla mano, con le persone che mi accettano per come sono e con la magia intorno a me. Nel mio futuro non vedo un lavoro da segretaria o chissà cos’altro. Mi dispiace, ma è la verità. Ho scelto di proteggervi, ma ho anche scelto quella parte di me che preferisco.»
Controllai le loro espressioni preoccupata, non volevo ferirli, ma non volevo nemmeno dovermi separare da loro lasciando in sospeso la questione. Non mi avevano mai accettata, non avevano mai afferrato fino in fondo cosa significasse veramente per me la magia. Per loro era qualcosa che andava ben oltre la consueta capacità di comprensione, capivano che la magia esisteva ma cercavano di ignorarla il più possibile. Ne erano spaventati, talmente tanto che avevano preferito perdere una parte di loro figlia pur di vivere una vita che fosse il più abitudinaria possibile, una vita lontana da qualcosa che non riuscivano a spiegarsi.
«Ci dispiace tesoro. Noi non volevamo …» mamma non finì la frase perché si appoggiò distrutta alla spalla di papà, piangendo.
Anche io sentii le lacrime agli occhi, vederli così disperati mi faceva un male terribile. Vedere la donna che mi aveva donato la vita e che mi aveva insegnato a viverla in quello stato fece scivolare la prima lacrima sulla mia guancia.
La consapevolezza che probabilmente non avrei più rivisto i miei genitori fu destabilizzante. Era l'ultima volta. L’ultima volta che avrei potuto vedere gli occhi di mio padre o il viso di mia madre. 
«Tra circa venti minuti me ne andrò per sempre da quella porta, per cui ho bisogno di spiegarvi alcune cose molto importanti» chiarii con ritrovata determinazione, aspettando nuovamente la loro attenzione. «Me la caverò, non dovete preoccupatevi.»
Mamma sospirò, mordendosi con forza il labbro inferiore, cercando invano di trattenere le lacrime.
«Ho preparato tutto in questi giorni e ho racimolato un po’ di soldi, non sono tanti, ma basteranno in caso di necessità. Questa mattina ho praticamente inscatolato la mia stanza, spero non vi dispiaccia. La cosa più importante è che se doveste vedere una specie di grosso teschio nero in cielo o uomini incappucciati di nero, scappate il più lontano possibile. Il teschio è il simbolo dei Mangiamorte e gli uomini potrebbero essere loro.»
Mamma e papà inorridirono, lessi la paura nei loro occhi, ma mi decisi a continuare.
«Per qualsiasi cosa potrete contattarmi, se doveste aver bisogno o se ci sarà un’emergenza, ma soltanto per quello. Dovete accettare questa cosa, altrimenti renderete tutto soltanto più difficile e pericolo per me e per voi stessi. Vi lascerò sempre il mio gufo, ora è in giardino. Dovrete solo scrivere una lettera e consegnargliela dicendogli di darla a me come tutte le volte, lui saprà dove trovarmi. Io prenderò con me Martin. State attenti e se dovesse succedere qualcosa contattatemi subito» specificai.
Mamma continuava a piangere e papà la stringeva comprensivo. Sapevo di avergli dato il colpo di grazia, erano distrutti e si vedeva. Ma avevo bisogno che capissero che il legame si sarebbe spezzato, che non avrebbero più dovuto preoccuparsi per me come avevano sempre fatto. Se volevo che questa decisione funzionasse, dovevo fare in modo che l’addio, per quanto doloroso potesse essere, fosse definitivo.
«Non ti vedremo davvero più?» domandò papà con voce rotta.
Presi un lungo respiro prima di rispondere, mi sentivo un mostro, proprio come mi descriveva Petunia.  «No papà, mi dispiace, neanche per me è facile, ma è la soluzione migliore. Vi sto chiedendo di lasciarmi andare perché devo, perché sono costretta. Se non lo faccio tutti noi saremo ancora più in pericolo e voi non lo meritate. Promettetemi che andrete avanti, che accetterete questa mia decisione senza interferire.»
Papà annuì soltanto, così mi costrinsi a continuare. «Vado a salutare Petunia e spiego anche a lei la situazione. Nel frattempo, cercate di calmarvi, vi prego.»
Mi avviai al piano superiore della casa e bussai gentilmente alla porta della stanza di Petunia.
«Petunia, potresti aprire?» domandai imponendomi la calma.
Sentii la serratura scattare e mi ritrovai davanti un viso infuriato. Il viso di mia sorella, il viso della persona che aveva condiviso con me l’infanzia.
«Allora? Che cosa vuoi?»
«Sono venuta a salutarti, ma me ne andrò di casa per sempre. Quindi ci tenevo a dirti addio.»
Lei assottigliò lo sguardo con derisione. «Ho sperato tanto che te ne andassi e finalmente le mie preghiere sono state ascoltate, sei solo un mostro e porti solo guai. Guarda cosa hai fatto a mamma e papà! Li hai feriti per l’ennesima volta. Sei contenta adesso che hai rovinato tutto?»
Non piangere, mi ripetei. Non piangere, sii forte.
«No, certo che no. Non ho mai voluto questo. So bene cosa pensi di me, non preoccuparti, ho soltanto bisogno della tua attenzione per due minuti. Pensi di poterlo fare?»
Petunia restò in silenzio così continuai. «Se vedi uomini incappucciati o un grosso teschio nero nel cielo, scappa più lontano che puoi, si tratta di persone cattive. E se dovesse succedere qualcosa a te o a mamma e papà il mio gufo saprà cercarmi.»
Petunia alla parola gufo inorridì talmente tanto che divenne cadaverica. «Quell’uccellaccio? I vicini lo noteranno prima o poi! Come faremo a spiegare che abbiamo come animale domestico un gufo e da anni poi!» sbraitò guardando ansiosa fuori dalle finestre. Di tutte le cose che le stavo spiegando, lei si preoccupava dei pettegolezzi.
«Non lo so. So che mi consideri un mostro e una persona orribile, però la cosa non è reciproca. Per quanto mi riguarda resti sempre mia sorella e sempre lo sarai.»
Sperai con tutto il cuore che almeno per una volta mettesse da parte l’odio e il rancore. Sentivo la necessità di farle capire che potevamo ancora rimediare a tutti questi anni in cui ci eravamo odiate talmente tanto da non vedere quello che stavamo perdendo. Avevamo spezzato un legame che invece avrebbe potuto durare nel tempo, eravamo state troppo orgogliose, entrambe. Lei non aveva saputo guardare al di là delle differenze che ci separavano e io non avevo saputo mostrarle quanto fossero belle e quanto potessero in realtà unirci quelle medesime differenze.
«Per me no, io non ho una sorella. Tu hai portato via la felicità da questa famiglia, hai deciso di andartene in quella stupida scuola, beh, questo è il risultato. Ti odio e non potrò mai perdonarti.»
Accusai i colpi uno ad uno, sentendomi esattamente come mi aveva appena descritto. Non solo ero una pessima figlia, ero anche una pessima sorella. A quanto pare non andavo bene per nessuno. I miei genitori aveva desiderato soltanto una figlia speciale entro i limiti della normalità e avevo ripagato loro con anni di stranezze e bugie. Avevano voluto che io fossi ordinaria e non lo ero mai stata, mi avevano chiesto di lasciar perdere la magia e non ci ero riuscita. Avevano relegato ogni singola mia peculiarità in un baule resistente e io, per cercare di compiacerli, lo avevo accettato, ma mai del tutto. E adesso la mia stessa sorella mi odiava esplicitamente e anche loro, con ogni probabilità, lo avrebbero fatto, forse non così apertamente, ma in cuor loro, con il passare degli anni, il rancore avrebbe preso il sopravvento.
«Non voglio più sentire parlare di te, te ne andrai per sempre e ne sono felice. Hai altro da dirmi o posso andare da Vernon? A differenza tua io non sono una perdigiorno.»
Aveva ragione, lei aveva Vernon e un lavoro. Aveva un fidanzato e una stabile occupazione che le potesse dare un guadagno. Aveva la sua vita, tre anni di differenza e l’abisso tra noi si era fatto incolmabile. Io dovevo ancora finire la scuola, mentre lei ormai era un’adulta. Per tutta l’estate non avevamo fatto altro che litigare, ma ora era il momento di mettere da parte il risentimento e salutarla per sempre.
«Addio Tunia» sussurrai, non rendendomi conto di aver usato il nomignolo di quando eravamo bambine.
Andai veloce in camera e mi chiusi la porta alle spalle, lasciandomi scivolare stremata.
Un minuto di più e sarei crollata. Mi concentrai sul mio respiro, cercando di calmare i miei nervi tesi e pensare con lucidità. Avevo bisogno di essere lucida, c’erano tante cose a cui dovevo ancora pensare.
Guardai il mio baule pronto per essere portato via e Martin acciambellato sul letto. Mi osservò e poi capendo che ero giù di morale mi venne incontro, rannicchiandosi tra le mie gambe. Lo accarezzai dolcemente e lui fece le fusa.
Era un gatto di razza europea con il manto tigrato di colore grigio e profondi occhi verdognoli. L’avevo trovato sul ciglio della strada, a qualche isolato da qui, circa due anni fa e da allora era sempre stato con me.
Capii di essermi calmata quando il respirò tornò regolare.
Presi in braccio Martin e guardai l’orologio. Il piano prevedeva che mi sarei materializzata alla stazione di King’s Cross, quindi non avevo fretta, il treno partiva alle undici.
Guardai per un’ultima volta la mia stanza. Le pareti lilla spoglie senza più disegni e fotografie, la libreria di mogano bianco vuota senza più libri a colorarla, il letto troppo ordinato e la scrivania senza più quaderni e fogli ad ingombrarla. L’armadio se ne stava lì immobile, privo di vestiti da contenere e anche la poltrona mi sembrava un semplice arredo ora che non mi ci potevo più sedere per leggere davanti alla finestra che dava sul giardino. Tutto era troppo monotono, troppo distante. Era come se la mia stessa stanza si stesse trasformando nel ricordo di una vita passata, quando fino a ieri era la camera in cui ero cresciuta e avevo abitato per anni.
Avvertii una certa malinconia, malinconia che non potevo permettermi, così presi la borsa dentro la quale avevo riposto qualche galeone, la divisa di Hogwarts e le cose necessarie per il viaggio. Dentro il baule avevo sistemato il resto e ci ero riuscita grazie ad un particolare incantesimo. Feci per prenderlo, ma mi accorsi che con tutto quello che conteneva era troppo pesante. Poi mi ricordai dell’incantesimo, così presi la bacchetta. «Baule Locomotor.»
Subito il pesante baule ondeggiò uscendo dalla camera e scendendo magicamente le scale. Io lo seguii e trovai i miei genitori all’ingresso, l’espressione allucinata mentre il baule si posava delicatamente a terra.
«M-magia» balbettò mamma.
Sospirai, posando Martin per terra. «Sì, il baule era troppo pesante. Non l’ho mai fatto perché non me lo avete mai permesso. Allora, mi materializzerò direttamente in stazione a Londra come vi ho già spiegato.»
Loro deglutirono nervosi e papà si sporse verso di me. «Avevamo intuito che te ne saresti andata prima o poi, abbiamo visto durante l’estate che eri un animale in gabbia. Pensavamo, però, che magari parlandotene avresti cambiato idea, ma sei sicura della tua scelta. Inoltre non sapevamo nulla della guerra e della situazione nel mondo magico.»
L’ingenua speranza che io potessi vivere senza la magia mi suggerì che ormai eravamo troppo distanti.
«Resterai sempre la nostra bambina, purtroppo dobbiamo fare i conti con il fatto che sei cresciuta. Sei cresciuta in un mondo lontano, di cui non abbiamo mai fatto parte. Ti vedevamo partire a Settembre e tornare in estate o a Natale ed eri sempre più distante, eccitata dalla magia e orgogliosa di farne parte. Tornavi e crescevi sempre di più e io mi sentivo gelosa e arrabbiata verso quel mondo che ti aveva portato via da noi. Ormai sei una donna, ma sei comunque la mia bambina» iniziò a singhiozzare mamma.
Io cercai di parlare, ma lei mi bloccò. «Quello che voglio dire è che mi sono persa anni della tua vita, perché mentre tu eri in quella scuola, noi eravamo qui. Sei sempre stata una ragazza speciale, soltanto che noi non siamo stati abbastanza bravi da capirlo. Non biasimarmi se vorrei tenerti qui, capisco che è la tua ora di sganciare le redini.»
Chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie con evidente spossatezza. «Ma il fatto che Petunia passa ormai tutto il suo tempo tra Vernon e il lavoro e tu te ne stai andando, mi rende terribilmente infelice. Tutte e due siete troppo giovani e tutte e due avete già scelto la vostra strada. Lei credo sia felice e spero che anche tu lo sarai. Anche se non approvo, lo capisco. Vorrei che le cose potessero andare diversamente, vorrei soltanto che tu potessi restare qui con noi, vivere come noi.»
Mi ritrovai a piangere perché questo era un addio, perché nonostante tutto amavo le persone di fronte a me.
Anche papà mi guardò. «Sarai sempre la mia Lily, la bambina che mi faceva sempre controllare che non ci fossero mostri sotto il suo letto, quella che si arrampicava sull’albero in giardino e dovevo prometterle ogni volta la merenda per farla scendere. E io sarò sempre il tuo papà. Ricordati che questa casa sarà sempre aperta a te, ogni volta che lo vorrai, anche se ho capito che ormai hai deciso. Questo mi rammarica, ma ho fiducia in te e nelle tue decisioni, per cui cercherò di adattarmi ad esse.»
Corsi ad abbracciarlo, stritolandolo in lacrime. Lui mi avvolse dolcemente, come era solito fare quando avevo qualche incubo. Ci staccammo e mi precipitai ad abbracciare anche mamma. Lei mi strinse a sé con quel calore che solo una madre poteva darti.
«Mi mancherete ogni secondo, vi voglio bene e sto facendo tutto questo per proteggervi. Ricordate, se dovesse accadere qualcosa o se doveste avere bisogno mandatemi una lettera. Dite ancora addio a Petunia da parte mia. E mamma, non era stata Petunia a magiare il cioccolato quattro anni fa e nemmeno a rompere quella statuetta che ti aveva regalato la nonna, sono stata io» dissi e lei rise tra le lacrime.
«Quella statuetta nemmeno mi piaceva, la tenevo soltanto perché era un ricordo per tuo padre. E ti vogliamo bene anche noi»
Li guardai entrambi dolcemente. Mamma con quei suoi capelli biondi, lo stesso colore di Petunia, gli occhi azzurri e il viso dolce. Quei quarantacinque anni portati così bene, pieni di vita. Con la sua espressione gentile e amorevole, pronta a capirti in ogni momento. Anche adesso, nel pieno di un addio, lei rimaneva sempre se stessa.
E papà, i capelli color carota che si stavano lentamente sbiadendo data l’età, la barba leggermente incolta, le lentiggini sparse qua e là e i miei stessi occhi. I suoi erano così bonari e limpidi. Qualche ruga data dal lavoro e dalla preoccupazione per le sue due figlie.
Gli amavo tanto da lasciarli. Gli amavo tanto da permettere loro di vivere la vita come l’avevano sempre desiderata, lontano dai problemi che io avevo portato in questa famiglia.
Presi in braccio Martin e strinsi il manico del baule e la bacchetta. Lanciai un’ultima occhiata all’orologio sulla parete in soggiorno, segnava le undici meno un quarto.
Li guardai ancora, mi osservavano piangendo, papà che stringeva un braccio intorno a mamma e lei che poggiava la testa sulla sua spalla.
Volli ricordarmeli così: pieni di amore, anche per la figlia che non era stata in grado di renderli felici.
«Vi voglio bene.»
«Te ne vogliamo anche noi.»
Capii che erano pronti e mi accorsi stupita di esserlo anche io, così mi concentrai. Pensai intensamente, pensai alla stazione di King’s Cross, ad ogni particolare che mi venisse in mente. Dopo quello che mi sembrò qualche secondo avvertii la tipica sensazione di smarrimento e soffocamento.
Urlai un ultimo addio e poi iniziai a sentirmi schiacciata in un vortice nero.
Quando riaprii gli occhi ero esattamente dove volevo essere.
Mi guardai intorno alla ricerca di qualcuno che avrebbe potuto vedere la mia comparsa dal nulla, ma grazie al cielo non c’era nessuno.
Lascai Martin sopra il baule e poi rovistai nella borsa. Presi uno specchietto e guardai il mio riflesso: occhi gonfi e viso pallido. Con un veloce incantesimo che mi aveva insegnato Alice, il mio viso tornò quasi perfetto e solo se mi si osservava bene si poteva notare che avevo pianto. Rimisi tutto in borsa e guardai il mio baule, era assurdo pensare di poterlo trascinare fino al binario. Vidi allora una fila di carrelli da trasporto poco più avanti e ne presi uno. Posai con qualche sforzo il baule e Martin sul carrello, chiusi la borsa e mi incamminai un po’ scossa verso la stazione.
I babbani camminavano ignari accanto a me, qualcuno correndo con la paura di perdere il treno e altri chiacchierando allegramente con il collega o l’amico. C’era un gran fermento, funzionari che correvano da tutte le parti e famiglie con bambini che intralciavano spesso la strada; mi piaceva osservare la gente, mi piaceva provare ad immaginare cosa si nascondesse dietro quei visi così umanamente diversi gli uni dagli altri.
Percorsi velocemente il ponte di collegamento e arrivai spedita al binario nove e tre quarti.
Senza indugiare attraversai la barriera che divideva la stazione babbana dall’espresso per Hogwarts.
Oggi era il primo settembre 1977, da oggi iniziava la mia nuova vita. Da oggi sarei stata sola. Da oggi le mie scelte mi sarebbero appartenute.

*****

Sentii un tonfo provenire dal bagno seguito da un’esclamazione piuttosto spazientita.
«Padfoot?» domandai allarmato.
«Tutto a posto!» mi rispose Sirius al di là della porta.
Scossi la testa esasperato, rendendomi conto solo in quel momento che Sirius era in bagno da più di un quarto d’ora.
«Pad, cosa stai facendo esattamente?»
Ci fu un momento di silenzio, poi Sirius borbottò: «Dannate mutande, non so quale scegliere!»
«Stai ancora scegliendo le mutande! Muoviti, razza d’idiota!» sbraitai nel pieno di una crisi isterica da perfetta ragazzina. Di solito queste cose le faceva Moony e io ero quello chiuso in bagno a farsi bello, ma oggi non potevo permettermi questo lusso.
«Quelle rosse con l’osso o quelle nere?» chiese lui in tono assolutamente tranquillo.
Non risposi ed iniziai a tirare leggeri calci alla porta.
«Vestiti.»
Un calcio.
«E.»
Un calcio.
«Muoviti.»
Un altro calcio.
Mia madre poi sarebbe salita e sì che sarebbero stati guai.
Nessun poteva fermare Dorea Potter, nessuno. Lei era esattamente quel tipo di donna che ti costringeva, obbligava e persuadeva a fare ogni cosa soltanto con lo sguardo.
Sbuffai disperato. Dovevamo ancora preparare i bauli e mancava poco alle undici. Era un dramma! Un fottutissimo dramma.
Piegai la divisa per Hogwarts e la infilai nello zaino insieme ad un sacchetto di galeoni. Presi a gettare vestiti alla rinfusa, prendendo tutto quello che mi veniva in mente e cacciandolo disordinatamente nel baule. Non che normalmente fossi un promotore dell’ordine, ma questa mattina era proprio l’ultima delle mie priorità.
Dovevo ricordarmi la mappa del Malandrino, il mantello dell’invisibilità e la lista con gli scherzi che avevamo stilato diligentemente durante l’estate. E poi c’era anche il materiale per Hogwarts, l’occorrente per gli scherzi e naturalmente la spilla da capitano e da Caposcuola e la mia bellissima scopa.
Già, quest’anno sarei stato Caposcuola, oltre che capitano della squadra di Quidditch. Sirius non aveva perso l’occasione di prendermi in giro senza lasciarmi il tempo di realizzare la cosa, cioè il gran casino in cui Silente mi aveva cacciato, mentre Moony si era dichiarato orgoglioso di me, il che per Padfoot era stato doppiamente divertente. La cosa positiva era che l’altra nomina di Caposcuola era stata assegnata a Lily, per cui avremmo passato molto tempo insieme.
Riposi tutto nel baule, sedendomi sopra per chiuderlo. Nel momento esatto in cui stavo facendo una strana contorsione per restare seduto e al tempo stesso chiudere quel dannato baule, Sirius entrò nella stanza e iniziò a ridere, tenendosi una mano sulla pancia e appoggiandosi allo stipite della porta.
«La tua virilità è andata a farsi fottere Prongs!»
Lo guardai imbufalito, si permetteva pure di fare lo spiritoso.
«E anche il tuo cervello, Sirius. Ti conviene fare il tuo baule dato che mamma ci chiamerà tra meno di due minuti» ribattei incrociando le braccia al petto e guardandolo con superiorità.
«Niente di più facile» rispose alzando le spalle. Con disinvoltura prese la bacchetta ed esclamò «Bagaglius!»
Osservai stupefatto ogni cosa di Sirius levarsi a mezz’aria, la sua scopa inclusa, e finire perfettamente ordinata nel baule, compresa la divisa che svolazzò piegandosi nella borsa a tracolla.
«Io ti odio!» strepitai più arrabbiato di prima.
Lui ghignò e chiuse fischiettando il suo baule, rimettendo la bacchetta nella tasca posteriore dei pantaloni neri.
Poco dopo mi resi conto che non c’era molto da stupirsi, a Sirius tutto veniva semplice. Lui era quel tipo di persona che riusciva a cavarsela in ogni situazione, probabilmente sarebbe sopravvissuto pure ad Azkaban. Moony ripeteva sempre che se continuava così ci sarebbe finito.
«Scendiamo?» chiesi dopo essermi dato un’ultima occhiata allo specchio.
Sirius si mise la borsa a tracolla in spalla e prese il manico del suo baule in una mano e con l’altra prese la gabbia del gufo, io feci lo stesso e lo afferrai per una manica per fare la materializzazione congiunta. Sir, infatti, doveva ancora sostenere l’esame in quanto aveva compiuto diciassette anni solo questo agosto. Atterrammo proprio davanti alla porta di casa, scatenando come al solito l’ira di mamma.
«Non è possibile che per ogni minimo movimento voi due vi dobbiate smaterializzare a vostro piacimento! Siete degli irresponsabili! E se eravate distratti e non funzionava? Ci lasciavate il cervello, magari» gridò con tutte le corde vocali che aveva in gola.
Sentii Padfoot accanto a me deglutire terrorizzato. Eh già, quella era mia madre. La spaventosa, ma meravigliosa Dorea Potter.
Un viso dolce e materno incorniciato da morbidi capelli castani e un indole autoritaria degna di un qualche sergente babbano.
Tutti quegli anni a fare l’auror l’avevano resa di carattere forte. Ora ogni tanto aiutava al San Mungo, anche se si vociferava fosse controllato dai Mangiamorte, e faceva di tutto per combattere la guerra. Lei e papà erano spesso fuori casa, ma cosa facessero io e Sirius non eravamo mai riusciti a capirlo.
Arrivò di corsa anche papà, guardando mamma con la nostra stessa, medesima espressione.
«Tesoro, pensavo fosse un attacco di Mangiamorte. Le tue grida sono arrivate fino allo studio.»
«Charlus Potter, i tuoi figli si sono smaterializzati ancora, quando li avevo espressamente pregati di non farlo» lo accusò lei come se fosse colpa sua.
«Beh, non è il caso di far scoppiare la terza guerra mondiale babbana, cara. Avete tutto pronto?»
Papà, invece, faceva l’auror a tempo pieno e questo gli causava ormai capelli ingrigiti dalle pressioni e dall’età.
«Sì, siamo pronti. Anche perché è il caso di andare, mancano dieci minuti alle undici» risposi.
Mamma ci guardò di nuovo e dopo un sospiro di esasperazione, mi concentrai per smaterializzare me e Sirius al binario nove e tre quarti.
In un attimo sentii la famigliare sensazione di volare e quando aprii gli occhi, il vociare e la confusione mi invasero potenti.
Mamma e papà riapparvero a qualche metro di distanza da noi e ci raggiunsero per salutarci.
«Bene. Guai a voi se riceverò lettere dalla McGranitt, non combinate casini e non andate in cerca di guai. Studiate e impegnatevi perché questo è l’ultimo anno, lasciate in pace quelle povere ragazze e James, ricordati che sei un Caposcuola e pettinati quei capelli, per l’amor del cielo» finì mamma.
Papà, invece, iniziò a fare il suo solito discorso drammatico. «Fate i bravi e vedete di trovarvi finalmente una ragazza, che vorrei al più presto avere dei nipotini, e salutatemi anche il resto della banda.»
Abbracciammo entrambi papà e poi mamma stritolò me e Sirius in un unico, grande abbraccio.
«I miei ragazzi al loro ultimo anno ad Hogwarts, vi voglio bene e state attenti per favore» mugugnò cedendo alle lacrime.
Io e Padfoot ricambiammo la stretta imbarazzati e poi ci staccammo prendendo le nostre cose.
«Ci si vede a Natale!» esclamai ilare.
Ci incamminammo per salire sul treno, sentendo la voce di mamma, ormai distante, gridarci «Vedete di scrivere almeno qualche lettera, razza di scapestrati!»
Sirius rise e io ghignai.
«Prongs, pensi che Remus e Peter siano già saliti?»
«Non lo so, avevamo detto che ci saremmo ritrovati sul treno. Saliamo sul treno e … cavolo, gli specchi gemelli!»
«Li ho presi io, sapevo che te li saresti dimenticati. Tu hai preso la mappa e il mantello?»
«Sì sì, figurati se me li dimentico. Stavo dicendo, saliamo sul treno e troviamo uno scompartimento libero. Al massimo guardiamo se sono già saliti» risposi sollevato.
Io e Sirius ci incamminammo trascinandoci dietro i bauli e salimmo con qualche fatica sul treno.
Vedevo genitori in lacrime ovunque, anche se sembrava che il clima generale fosse molto più cupo. C’erano molte meno famiglie rispetto agli anni passati e i sorrisi mi sembravano più spenti, alcuni si dileguarono in fretta, quasi avessero paura di un attacco dei Mangiamorte a sorpresa.
«Non ti sembra che la guerra si faccia sentire anche qui?» domandai accigliato.
«L’ho notato anche io, tutto sembra molto più spento.»
Ci guardammo senza bisogno di parole, entrambi eravamo consapevoli del rischio in cui tutti noi ci trovavamo.
Subito pensai a Lily, mi chiesi se stesse bene e se fosse già salita sul treno. Nel frattempo Sirius trovò uno scompartimento libero e caricò il suo baule e la gabbia con il gufo sul portabagagli, sedendosi poi stravaccato sui sedili. Io esitai alla porta, guardandomi in giro in attesa di vedere un viso scarlatto tra i mille sconosciuti. Il treno fischiò e mi sentii ancora più irrequieto, avevo bisogno di assicurarmi che stesse bene.
Per tutta l’estate avevo rischiato di dare di matto, l’infinità di lettere disperate che avevo scritto ad Alice o a qualcuna delle ragazze pregandole di darmi l’indirizzo di Lily non erano bastate a tranquillizzarmi. Ogni volta che sentivo di qualche attacco dei Mangiamorte volevo smaterializzarmi a casa sua e controllare che stesse bene. E ogni volta Padfoot mi teneva inchiodato ad una sedia per impedirmi di finire arrostito, o peggio. Entrambi sapevamo che se mi fossi presentato a casa sua, mi avrebbe ucciso o, secondo Alice, ci avrebbe pensato il padre.
Qualcuno gridò il mio nome e girandomi riconobbi Moony e Wormtail che correvano verso di me con tanto di bauli e gufi.
«Non hai tempo di salutarci, idiota! Perché non se già nella carrozza dei prefetti?»
Cavolo, avevo dimenticato la riunione!
Anche Sirius si affacciò alla porta e mi guardò sghignazzando.
«Muoviti, Lily è qualche vagone più in là e ti sta aspettando!» mi riprese di nuovo Remus, questa volta esasperato.
Grazie a Godric stava bene!
Presi a correre per raggiungerla e mi tastai la tasca dei pantaloni cercando la bacchetta. Passai qualche vagone dopodiché la vidi: stava chiacchierando con Alice, ma non aveva esattamente una bella cera.
«Evans!» esclamai con il fiato corto.
Lei si girò e mi guardo con un’espressione sofferente. «Ti stavo aspettando Potter, non che la cosa mi faccia piacere.»
Sorrisi scompigliandomi i capelli e poi salutai Alice con un abbraccio. Lei mi fece cenno con la testa di andare, così mi incamminai accanto a Lily.
Mi presi qualche minuto per osservarla, era cambiata molto durante l’estate. I capelli rossi creavano una deliziosa e ondulata cornice attorno al viso di porcellana. Notai che era molto pallida, tanto che le lentiggini quasi risaltavano sulla pelle bianca e i suoi occhi, di solito accesi di un’abbagliante luce, erano spenti. In più era dimagrita molto e sembrava ancora più fragile di quanto non fosse prima. Lily non era propriamente alta, ma con la corporatura magra ancora più marcata, sembrava più piccola ed esile di quanto effettivamente non fosse.
Non mi accorsi che nel frattempo eravamo arrivati davanti alla porta della carrozza dei prefetti e che Lily si era fermata di colpo per guardarmi.
«Potter» mi puntò il dito accusatore contro, «vedi di non farmi fare figure. Se Silente ha deciso di farti Caposcuola, che tra parentesi non so quanto Whisky Incendiario si fosse bevuto quando ha preso questa malsana decisione, un motivo forse c’è. Per quanto assurdo possa sembrare, ora sei un Caposcuola e dato che ce ne sono due in tutto, e l’altro sono io, vedi di collaborare, perché non ho intenzione di assumermi anche le tue responsabilità. Quindi non fare casino e carca di essere all’altezza della situazione, chiaro?»
La guardai scioccato. Come poteva apparire sempre così terrificante?
«Potter, mi stai ascoltando?» mi richiamò lei.
«Sì sì, certo. Niente cavolate in pubblico, ho capito. Avrei solo una domanda.»
«Ovvero?»
«Non sono mai stato un Prefetto e di conseguenza non sono mai stato ad una riunione. Noi cosa dobbiamo fare esattamente?» domandai confuso.
«All’inizio presenteremo i nuovi componenti, poi esporremo le regole generali, che sono le stesse di sempre, e i Prefetti si sceglieranno gli orari e i giorni di ronda. Noi dovremo solamente supervisionare il tutto.»
Va bene, sembrava facile. Non c’era nulla di cui preoccuparsi, sarei andato bene.
Lily mi guardò ancora una volta e poi entrò nello scompartimento.
Non ero mai stato nel vagone dei Prefetti, era l’ultimo vagone del treno e per noi Malandrini, tranne che per Moony logicamente, quella era una zona ad alto rischio. Sirius era solito definirli “cervelloni isterici moralisti” e siccome, sempre secondo il suddetto ragazzo, l’isteria moralista poteva essere contagiosa, negli anni avevamo sempre evitato come la peste questa ala del treno.
Quando entrai, tutti smisero di parlare e mi osservarono sbigottiti. I Serpeverde furono i più audaci, non si degnarono neanche di nascondere il disgusto.
«Potter, dove hai lasciato il resto dei tuoi amici bastardi?» mi domandò Regulus.
L’altro Black, il fratello di Sirius. Lily sbuffò e l’attenzione si concentrò su di lei.
«Una Sanguesporco Caposcuola?» continuò Regulus.
Persi la pazienza in un attimo e tirai fuori la bacchetta con rabbia. L’aveva davvero chiamata in quel modo? L’avrei preso a pugni.
«Prova ancora a ripeterlo e giuro che non risponderò delle mie azioni, Black!» sputai con odio.
Lo odiavo. Lo odiavo perché ogni singola volta riduceva Sirius uno straccio, perché era un cretino, ma di quelli della peggior specie, quelli che sapevano di poter cambiare, ma erano troppo codardi per farlo.
«Ora capisco perché quel traditore ti chiama fratello, siete entrambi due sciocchi.»
Sentii una mano stringermi delicata il braccio destro. La pressione aumentò e mi accorsi che era Lily. Mi girai e lei bisbigliò soltanto «Controllati.»
Era un chiaro avvertimento, avrei dovuto far vedere che ero maturato. Sapevo gestire la situazione, non mi sarei lasciato coinvolgere.
«Appena saremo ad Hogwarts ti toglierò venti punti per mancato rispetto verso i due Caposcuola. Esatto Black, sono il secondo Caposcuola e ora sedetevi che abbiamo una riunione da fare» ordinai e mi sedetti accanto a Lily.
Alcuni mi guardarono ancora più stralunati di prima e riconobbi Susan e Andrew, compagni Grifondoro, sorridermi entusiasti.
Sapevo che tutti erano stati presi in contropiede, essere nominato Caposcuola non aveva fatto parte nemmeno dei miei stessi programmi, ma quest’anno avrei fatto in modo che tutto funzionasse nel migliore dei modi, non avrei commesso errori. Avevo stretto un patto con me stesso, lo facevo perché volevo dimostrare che ero cambiato. E non solo per le altre persone, ma soprattutto per me stesso.
Nessuno mi avrebbe più etichettato come Potter l’arrogante, il montato o il pallone gonfiato. Questo sarebbe stato l’anno dei cambiamenti, l’anno in cui avrei dimostrato che nulla avrebbe potuto fermarmi.
Questo sarebbe stato l’ultimo anno.

  
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