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Autore: Ortensia_    31/01/2015    2 recensioni
Io sono una persona e in quanto tale ho dei limiti.
Io sono uno scrittore e in quanto tale sarò giudicato per quello scrivo.

[...]
Chi sono io? Mayuzumi Chihiro. E cosa rimarrà di me? Un foglio di carta e una penna.
[...]
Se credessi nell'esistenza del Diavolo, sono sicuro che i suoi occhi sarebbero questi.
[ Vincitrice del contest "Ripopola Fandom" indetto da __Bad Apple__ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Chihiro Mayuzumi, Kiseki No Sedai, Ogiwara Shigehiro, Seijuro Akashi
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Gli occhi del Diavolo'
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Capitolo II

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A dodici anni mi sono reso conto che leggere non mi bastava più, quelli erano mondi altrui, io avevo bisogno di crearne uno mio.
Dubito che abbia iniziato a scrivere per amore dell'attività stessa, è un sentimento che è sopraggiunto molto dopo, quando ha cominciato a fruttarmi i primi riconoscimenti.
Ammetto di essermi comportato da egoista nei confronti della scrittura, di averla utilizzata per rifugiarmi in mondi fittizi dove non potessi essere trovato e di aver iniziato a considerarla come una passione, oltre che ad un nascondiglio, soltanto quando ho pubblicato il mio primo libro, ma ancora oggi, a distanza di anni, il motivo primario per cui scrivo resta questo: pur essendo una perfetta riproduzione delle persone reali, i personaggi di carta non fanno male.
Non lo faccio per soldi, non lo faccio per regalare delle emozioni ai lettori o a me stesso.
Sono una persona statica, non mi piace il cambiamento, non mi piacciono i viaggi, non mi piace parlare con gli altri. La scrittura mi ha fruttato molti soldi e non so che farmene. La scrittura mi ha dato notorietà e ammirazione, ma anche di questo non so che farmene.
Non voglio i soldi, non voglio l'amore delle persone. Tutto quello che voglio è poter vivere in un mondo dove le persone non possano farmi del male, ma so che pretendere questo dalla realtà è da pazzi, per cui ho deciso di crearmelo da solo.
I miei primi due romanzi parlavano di omicidi misteriosi, ma con Glicine ho cambiato genere e a poco a poco sono approdato alla dimensione fantastica, ai miti e alle leggende. Avevo bisogno di allontanarmi il più possibile dalla realtà.
Batto il polpastrello dell'indice sulla tastiera fredda e sospiro sommessamente: è tipico di me lasciarmi andare allo sconforto già al secondo capitolo, ho paura di non riuscire a rendere il mio mondo fittizio abbastanza solido come quelli dei miei romanzi precedenti, ho paura che si riveli così fragile da non riuscire a stare in piedi e crollare, temo che possa abbandonarmi da un momento all'altro.
Rivolgo il mio sguardo al fiore di ciliegio accanto al mouse, resto in silenzio e mi lascio scappare un sorriso: non so da dove sia venuto, non so come sia finito nel mio letto, ma voglio interpretarlo come un segno, un frammento di ciò che ho scritto ieri e che, in qualche modo, è riuscito a balzare fuori e a prendere forma concreta in questo mondo grigio e triste.
Il mio imperatore si chiama Akashi Seijuurou e ha qualcosa in comune con me: sua madre è la sola donna che abbia mai amato in tutta la vita, anzi la sola persona, ma lei è morta molto giovane e lo ha lasciato solo con i capricci e le isterie di suo padre.
Seijuurou è una persona molto delicata e sulla sua fragilità ha costruito la perfezione assoluta, ha cominciato ad accumulare successi prima per volere di suo padre, poi per pura assuefazione di vittoria e per cercare di nascondere il volto di sua madre sotto un mucchio di trionfi.
La morte prematura della madre è il suo unico cruccio, l'unico, minuscolo ostacolo che lo separa dalla perfezione ultraterrena ed eterna.
Midorima Shintarou, uno dei suoi più fedeli servitori, gli ha spiegato che l'unico modo per superare il trauma è trovare una sposa degna di lui, qualcuna che possa colmare il vuoto lasciato da sua madre, ma a questo punto del romanzo è già stato spiegato che nessuna donna è riuscita a conquistarlo, per cui subentra un secondo valletto. Un secondo valletto che potrebbe essere importante ai fini della storia ma a cui non so dare un nome, ed è questo il motivo che mi costringere a smettere di scrivere e a fermarmi a riflettere per qualche istante.
Akashi.
Midorima.
C'è qualcosa in questi nomi.
Aka.
Midori.

Rosso e verde. I colori.
Voglio aggiungere il blu e il giallo, e anche il viola, ma prima il nero.


― Non poteva accettare l'idea che fosse già tutto perduto, che avrebbe dovuto rinunciare a quella forma di perfezione tanto desiderata soltanto perché non era riuscito a trovare una sposa degna del suo nome.
«Mi rifiuto, Shintarou.» aveva una voce soave, ma particolarmente tagliente.
«Akashi-sama, non esisterà mai una donna in grado di sostituire la venerabile imperatrice.»
Gli occhi dell'imperatore scintillarono, il labbro superiore fece pressione su quello inferiore e la cassa toracica tremò in uno spasmo di impazienza.
«Akashi-sama?» una voce flebile, decisamente più morbida di quella del primo servitore, ruppe il silenzio e attirò l'attenzione dell'imperatore.
«Qual è il motivo che ti ha spinto ad interrompere la nostra conversazione, Tetsuya?» lo scrutò, parlò piano, la sua voce era una nenia velenosa che per un istante bloccò il respiro al giovane valletto.
Kuroko Tetsuya era uno dei suoi più fidati servitori, quello per cui Akashi nutriva maggior rispetto e ammirazione, tuttavia pretendeva da lui la stessa ubbidienza e la stessa riverenza che esigeva dagli altri e non amava essere interrotto – ma Tetsuya era una persona intelligente e, soprattutto, ciò che diceva non era mai fuori luogo, quindi doveva esserci una buona ragione se aveva ritenuto necessario troncare la sua conversazione con Shintarou –.
«Le chiedo perdono, Akashi-sama, ma recentemente ho appreso qualcosa che potrebbe estinguere i suoi affanni.»
L'imperatore spalancò gli occhi e tese il busto in avanti, separando la schiena dal morbido schienale di velluto rosso.
«Ti ascolto, Tetsuya.»
Il valletto si fermò di fronte a lui e si inchinò in segno di ringraziamento, riprendendo a parlare pochi istanti dopo.
«Ho trovato un antico testo nella seconda biblioteca imperiale, conteneva una profezia.» Tetsuya aveva il compito di leggere e tradurre ogni codice ed ogni manoscritto che non fosse stato ancora decifrato, per cui conosceva gran parte dei testi presenti nella prima biblioteca imperiale e parte di quelli della seconda, che aveva cominciato ad esplorare da pochi mesi.
«Parlava dell'uomo perfetto, Akashi-sama. Raccontava che lei si sarebbe messo alla ricerca di una giovane sposa per colmare la mancanza di sua madre, ma che, tuttavia, non sarebbe mai riuscito a trovare una donna degna della sua perfezione.»
«Questo lo sappiamo già, Tetsuya.»
«C'era qualcos'altro, Akashi-sama. C'è una seconda opzione.»
L'imperatore si alzò dal suo trono e scese la scalinata che lo separava dai suoi servitori, eccitato all'idea che ci fosse una seconda possibilità per raggiungere la perfezione eterna.
«Deve uccidere cinque mostri leggendari, Akashi-sama.»
Seijuurou si fermò a pochi centimetri da Tetsuya e sorrise.
«Elencami questi mostri leggendari, Tetsuya.»
Tetsuya restò a guardarlo per un attimo, poi riabbassò lo sguardo e si morse il labbro inferiore, vittima di un cattivo presagio.
«Il Drago Rosso di Ethyl, la Fenice delle Terre Fredde, il Cerbero che vive sotto la Cascata di Sheji, la Sirena del Lago Mihn e l'Idra delle Montagne Bianche.»
L'imperatore restò in silenzio, immobile. Batté le palpebre e fece marcia indietro, si sedette di nuovo sul trono e si rivolse ai due servitori.
«Shintarou, a te affido il Cerbero. Tetsuya, a te la Sirena. Dite a Daiki di prepararsi per affrontare la Fenice, a Ryouta di partire per Ethyl e ad Atsushi di indossare vestiti pesanti per quando sarà arrivato alle Montagne Bianche.» ―




Il trillo del telefono è assordante, alle mie orecchie risulta così amplificato perché, molto probabilmente, mi sono abituato al silenzio di casa, al battere famigliare delle dita sulla tastiera e a come immagino le voci dei miei personaggi che, a tratti, riescono addirittura a sovrapporsi e sovrastare i suoni assordanti che provengono dalla strada.
Faccio un po' di fatica ad abbandonare la stesura del secondo capitolo – soprattutto perché sono quasi alla fine – e rispondo al telefono.
«Mayuzumi-san?»
Riconosco subito la voce vagamente roca del mio editore e rimango senza fiato.
«Sono Yamada Akinori, forse mi sbaglio ma io e lei non dovevamo vederci per parlare della seconda edizione di Fuoco a mezzanotte
Mi sento uno stupido: come ho fatto a dimenticare una cosa così importante? Yamada-san ha deciso di concedermi un po' del suo tempo un paio di settimane fa e io ho appena buttato via un'occasione preziosa. Questo romanzo mi sta risucchiando l'anima, ho il brutto vizio di lasciarmi trasportare fin dalle prime righe e di dimenticarmi che il mondo fuori dalla mia porta va avanti.
Mi alzo immediatamente e rivolgo un'occhiata nervosa allo schermo del computer, rafforzo la stretta attorno alla cornetta del telefono e trattengo un sospiro.
«Non l'ho dimenticato, Yamada-san.» mento, non posso fare altrimenti «ho avuto un contrattempo.»
Che cosa devo fare? Vorrei continuare a scrivere e rimandare questo incontro, ma è probabile che l'occasione di avere un appuntamento con Yamada-san si ripresenterà fra diverse settimane.
«Ha ancora un po' di tempo? Cerco di raggiungerla il prima possibile.» forse è meglio fare una pausa, dopotutto sono ore che scrivo, ho passato tutto il pomeriggio a parlare dei servitori dell'imperatore, del loro passato, del perché si trovano lì e delle loro reazioni alla notizia che ad ognuno di loro è stato assegnato un mostro leggendario da uccidere.
«Cerca di essere qui entro le diciassette.»
Guardo l'orologio: sono quasi le sedici.
«La ringrazio, a fra poco.»
«A fra poco.» gli lascio appena il tempo di farmi eco, poi ripongo la cornetta, salvo il documento e spengo il computer: devo sbrigarmi, sarebbe impossibile parlare esaustivamente di una possibile seconda edizione in soli venti o trenta minuti. Un po' mi dispiace interrompere la stesura del secondo capitolo quando manca così poco per finirlo, ma forse è meglio così: riprenderò una volta tornato a casa, a mente lucida, e magari riuscirò a sfruttare la serata per correggere e perfezionare tutto quello che ho scritto oggi.
Mi dirigo alla porta, infilo il cappotto con un paio di gesti rapidi e imbraccio il borsone, poi esco e imbocco le scale dell'appartamento in tutta fretta.


Quaranta minuti sono stati sufficienti.
Ho in serbo qualche modifica per Fuoco a mezzanotte e Yamada-san ha accolto con entusiasmo tutte le mie idee, quindi la seconda edizione si farà, ma soltanto dopo che avrò concluso il romanzo su Akashi – dopotutto non ci metterò molto a terminarlo se continuo con questo ritmo –.
Sono le diciassette passate e io cammino lentamente, questa volta mi godo con piacere il marciapiede mezzo vuoto e cerco di resistere alle punture che l'aria gelida mi lascia sulle guance digrignando i denti.
All'improvviso qualcosa transita davanti ai miei piedi e mi taglia la strada.
Mi fermo, trattengo il fiato e seguo quel movimento leggiadro con espressione confusa.
So benissimo che non ci sono alberi in questa zona e che quelli che si trovano nel parco vicino alla metropolitana non sono di ciliegio, tuttavia alzo gli occhi al cielo e li cerco, trovando soltanto le nuvole scure e turgide di pioggia.
Torno ad osservare il fiore e una folata di vento lo spinge ad almeno un metro di distanza dai miei piedi, allora mi dimentico di tutti e lo raggiungo, mi chino a terra e lo afferro.
Ha la stessa consistenza di quello che ho trovato ieri sera nel mio letto, lo so perché è una consistenza diversa dai fiori di ciliegio che ho toccato finora, questi hanno petali più vellutati e resistenti, e poi sono di un rosa veramente delicato e piacevolmente luminoso.
Alcuni pedoni mi passano accanto rapidi, è come se non mi vedessero, eppure ho la sensazione di avere gli occhi di qualcuno puntati addosso.
Chiudo le dita attorno al fiore senza fare pressione e sollevo il viso.
Il mio cuore salta un battito, i miei occhi e le mie labbra si spalancano: è un kimono di pura seta bianca punteggiata di trame d'oro e d'argento quello che vedo, ma è una visione che scompare non appena sbatto le palpebre.
Rimango chinato a terra, serro le labbra e gli occhi e mi massaggio la radice del naso con le dita della mano destra: sono troppo stanco, dovrei tornare a casa e mettermi a letto. Ecco: la stanchezza è un limite, perché per colpa sua terminerò il romanzo fra breve, ma non in tempi così ristretti come potrei fare se fossi perfetto.
Sospiro profondamente: l'idea di tornare a casa, cenare e mettermi a letto senza concludere nulla mi rende particolarmente nervoso. Non mi importa niente della mia salute fisica, ho bisogno di scrivere per coccolare il mio animo e sentirmi parte di qualcosa, anche se questo qualcosa è un mondo immaginario.
Quando riapro gli occhi, il kimono di seta bianca è di nuovo lì, tuttavia non ho tempo di alzare lo sguardo, perché un fiore di ciliegio proveniente dall'alto cade proprio davanti a me. Quando lo afferro e lo sistemo insieme all'altro fra le dita della mano sinistra, il kimono di seta bianca scompare.
Spalanco le dita della mano sinistra per assicurarmi che i fiori siano reali, ed è così.
Mi alzo piano, riprendo a camminare ancora più lentamente rispetto a prima, confuso e alla disperata ricerca del kimono bianco.
Dopo aver attraversato la strada, un colore particolare attira la mia attenzione e il mio cuore salta di nuovo un battito.
I capelli erano color del sangue.
Ricordo alcune parole del primo capitolo e cerco di riprendere fiato: questa volta si tratta di una visione nitida e precisa, c'è qualcuno a pochi metri da me che ha lo stesso colore di capelli del mio imperatore.
Accelero il passo e scorgo un movimento lento e ondeggiante, quello di un kimono bianco.
Capelli così rossi sono facili da individuare fra quelli neri degli altri passanti.
Un kimono bianco è facile da individuare fra gli abiti all'occidentale di colore scuro indossati dalla maggior parte delle persone.
È così facile da individuare, eppure lo perdo di nuovo di vista.
Accelero il passo senza rendermene conto e mi fermo soltanto quando, giunto al punto in cui l'ho scorto prima, trovo altri tre fiori di ciliegio.
Sto forse impazzendo?
Sento di doverli raccogliere, sento che sono importanti, e allora mi chino di nuovo e ho modo di scorgere l'obi rosso e dorato.
Sorpasso alcuni passanti e giungo ad un bivio: la strada di fronte a me è vuota, per cui svolto a sinistra.
C'è un altro fiore di ciliegio e un vicolo cieco. Un vicolo cieco che non c'è mai stato.
Forse sto impazzendo sul serio.
Sospiro spazientito e mi chino a raccogliere il fiore, ed ecco che un paio di zouri di fibra intrecciata con lacci bianchi e il bordo del kimono di seta, dove si intrecciano finissimi decori in argento e in oro, compaiono davanti ai miei occhi.
«Ce ne hai messo di tempo, Chihiro.»
Mi sento morire.
La sua voce è soave, ma particolarmente tagliente, proprio come l'ho descritta nel secondo capitolo.
Ho il terrore di alzare gli occhi e di non trovare nessuno, scoprire che si tratta davvero di una visione provocata dalla stanchezza.
«Perché non mi guardi?»
Già, perché non lo guardo? Perché lui non può essere reale, ecco perché.
«Come conosci il mio nome?» deglutisco appena, mi ostino a guardare l'intreccio preciso della fibra e dei lacci bianchi dei suoi sandali.
«Come potrei non conoscerlo? Avanti, guardami.» la sua voce non è più così soave, è un coltello che sferza con forza l'aria, una lama sospesa sulla mia testa.
Resto in silenzio e sollevo lo sguardo, lui mi scruta e accenna un sorriso.
Ha i lineamenti fini, un viso armonioso, gli occhi felini, uno rosso e uno giallo. È lo stesso viso che ho immaginato e descritto nel mio romanzo, anzi è molto più bello.
Lui è bellissimo, ma non—
«Stai pensando che io non posso esistere, non è vero?» riesce ad incalzarmi con poche parole e io resto imbambolato, non posso credere che sia proprio di fronte a me.
«Alzati.» me lo ordina come se fossi uno dei suoi servitori. Non mi piace il tono di voce che usa, l'espressione con cui mi fissa, ma sono estasiato dalla sua bellezza e per questo faccio ciò che mi dice senza opporre alcuna resistenza.
Non dice più nulla e continua a guardarmi, poi amplia appena il sorriso e mi sfiora la guancia con un rapido tocco delle dita.
Non mi piace essere toccato, ma questa carezza non mi infastidisce, anzi mi fa capire che lui è reale e mi lascia completamente senza fiato.
Vorrei dire qualcosa, ma lui mi zittisce porgendomi un fiore di ciliegio.
Che diavolo significa? Questi fiori mi hanno già stufato.
Afferro il fiore e torno a guardarlo, ma lui è scomparso.
«Akashi ...» pronuncio il suo nome a fior di labbra, ma non ricevo alcuna risposta in cambio. Sono rimasto di nuovo solo.
   
 
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