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Autore: Carlos Olivera    29/11/2008    6 recensioni
Un lavoro finito in tragedia, una famiglia distrutta, e un dolore che solo la morte potrà sanare.
Un ragazzo disperato cerca la sua vendetta, la vendetta è la sua unica amica, la sua ragione di vita.
In un mondo governato dalla violenza, egli stesso la userà per infliggere il giusto castigo agli artefici del suo dolore, imprigionandoli in un incubo surreale che dovrà spingerli ad uccidersi tra di loro.
Un solo nemico.
La Lagoon Company.
Una fiction che avevo in mente già da tempo, e che per adesso è ancora in fase di sviluppo. Verso la fine dovrebbe essere anche un po' Rock/Revy. Buona lettura!
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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I suoi compagni non riuscirono a credere ai loro occhi vedendo Kyuzo ridotto così, sconfitto e inerme, a terra privo di sensi coperto di sangue per le numerose ferite.

  Yu-Ling, l’artefice della sua sconfitta, lo guardava impassibile, con suo sguardo spento, senza nessuna espressione, come una vera macchina da guerra creata solamente per uccidere.

  «È così che finisce.» disse Noboru avvicinandosi al corpo del ragazzo «Proprio come tuo padre. Distrutto dalla tua ingenuità. Ma avrete modo di chiarirvi l’un l’altro infondo all’inferno.

  Benfatto, Yu-Ling.»

  «Grazie, padre.» rispose lei meccanicamente per poi crollare svenuta, probabilmente per il grande sforzo sostenuto nello scontro appena concluso.

  Fortunatamente, in tutto quel tempo erano stati tutti troppo concentrati sullo scontro per accorgersi che Revy, raccolto faticosamente e con fatica un minuscolo coltellino che portava nella tasca dei pantaloni, aveva cominciato a tagliare il nastro che le immobilizzava le mani dietro la schiena.

  Visto che quando l’avevano raccolta Steven l’aveva già privata delle sue pistole nessuno, al momento di trascinarla all’ascensore, si era preso la briga di perquisirla, e così era riuscita a nascondere quell’utile strumento, messo da parte proprio per i casi di quel genere.

  Purtroppo non era facile lavorare in una simile posizioni, i polsi e le spalle facevano un male del diavolo e solo per miracolo riuscì a non urlare per il dolore, ma poi, finalmente, il nastro cedette, mettendola nelle condizioni di poter fare qualcosa.

  Con noncuranza e massima discrezione guardò alla sua sinistra; il Vysotniki accanto a lei aveva in mano il proprio AK-103 e guardava altrove, quello immediatamente dopo invece la sua arma la teneva addirittura sotto l’ascella. Subito dopo guardò a destra, incontrando come prima cosa lo sguardo di Steven, che le fece un cenno di assenso; Revy dedusse che anche lui era riuscito a liberarsi, e che attendeva solo il momento migliore.

  I due non smisero un momento di tenersi d’occhio, guardandosi vicendevolmente le spalle, e non appena Balalaika le tolse gli occhi di dosso Revy scattò in piedi, piantando il coltellino usato per liberarsi nello stomaco del nemico lì accanto e uccidendolo prima che potesse reagire; contemporaneamente, grazie alle proprie gambe di acciaio, Steven corse come un razzo verso il soldato a lui più vicino, gli afferrò il braccio facendolo piegare in avanti e con un colpo di tallone gli spezzò il collo.

  Prima che gli altri potessero reagire entrambi afferrarono le armi dei nemici morti cominciando a sparare in tutte le direzioni, e in pochi secondi si scatenò l’inferno.

  Rock e Hibraim corsero a nascondersi dietro ad un divanetto dove furono raggiunti da Steven, che liberò anche loro.

  «Ora sì che si fa sul serio.» disse passando a Hibraim una pistola rubata alla sua prima vittima «Proteggi Okajima.»

  «D’accordo» e subito dopo Steven lasciò nuovamente il nascondiglio, sparando all’impazzata per attirare il fuoco nemico.

  Immediatamente Rock cercò di mettere fuori la testa per capire dove fosse Revy, e come previsto la trovò intenta a svuotare il suo caricatore ben protetta da un vivaio.

  «Sta giù!» disse Hibraim sbattendogli la testa a terra e salvandolo da una pallottola vagante «Hai forse deciso di morire?»

  «Che facciamo? Siamo bloccati!».

  In quella un soldato sbucò da destra e cercò di colpirli, ma Hibraim fu più rapido di lui e gli piantò una palla in testa; quando cadde in avanti, Rock si accorse che assicurate alla cintura aveva le due Beretta di Revy, e senza pensarci le raccolse. Nello stesso momento Revy esauriva il caricatore del suo fucile, ritrovandosi in una situazione molto pericolosa.

  «Revy!» sentì gridare «Prendi!».

  Le due pistole volarono nell’aria brillando come stelle e Revy, saltando, le afferrò nello stesso momento.

  «A buon rendere, Rock!» disse ridacchiando.

  Con le sue armi favorite Two-Hands compì una vera strage, e nell’arco di pochi minuti un intero battaglione di Vysotniki venne quasi completamente sterminato.

  «Questa cosa non mi piace!» disse Samejima «Balalaika, leviamoci di torno!»

  «Con piacere!».

  Uno dei soldati superstiti si caricò Yu-Ling in spalla e si avviò verso l’ascensore; Rock li vide, e dapprima cercò di muoversi per cercare di fermarli, ma non appena vide Balalaika attardarsi per cercare di colpire Revy con la sua pistola, la stessa che aveva puntato in Giappone contro di lui, con un gesto del tutto istintivo le corse incontro gridando come un forsennato.

  «Okajima, no!»

  «Balalaika!».

  La donna si accorse di lui, ma prima che potesse fare qualcosa Rock la investì con la forza di un carro armato, buttandola a terra; la pistola volò lontano e lui, messosi sopra di lei, prese a tempestarla di pugni in faccia; il suo sguardo era di puro odio, odiava quel demonio per la strage commessa sulla Seaborn Star e odiava sé stesso per averle fatto da leccaculo per tutti quegli anni, in un modo non molto diverso dopotutto da come aveva fatto in Giappone coi suoi superiori.

  «Prendi questo, e questo, e questo, e questo! Muori, puttana!».

  Al sesto pugno Balalaika riuscì a reagire mollandogli una poderosa ginocchiata alle parti basse che pur non risultando sufficiente a stenderlo lo fecero esitare il tempo necessario ad allontanarlo con un calcio.

  La donna si rialzò in piedi sputando sangue e corse verso Samejima, in piedi assieme al Vysotniki superstite accanto all’ascensore; l’uomo, vedendo Kyuzo ancora disteso a terra, fu vinto dalla tentazione di realizzare il sogno covato per quattro lunghi anni.

  «Va’ all’inferno, maledetto».

  Revy, che stava inserendo un nuovo caricatore, si accorse di lui all’ultimo secondo, e malgrado la pistola non fosse puntata verso di lei senza alcuna esitazione gli sparò, colpendolo al fianco destro.

  L’uomo lanciò una imprecazione impronunciabile, e non appena le porte dell’ascensore si aprirono immediatamente ci si infilò dentro assieme a Balalaika e al suo uomo, mettendosi definitivamente in salvo.

  «State tutti bene?» domandò Hibraim sporgendosi dal suo nascondiglio

  «Sì, più o meno.» rispose Steven togliendosi una pallottola dalla gamba sinistra «Avevo appena cambiato la corazzatura, accidenti a loro».

  Rock, rimessosi dal colpo di Balalaika, corse immediatamente a sincerarsi delle condizioni di Kaito, raggiunto in pochi secondi da Revy e Hibraim.

  «Kaito! Kaito, rispondimi!».

  Dopo qualche istante il ragazzo riprese i sensi, ma era chiaramente ancora molto debilitato.

  Steven cercò di riattivare l’ascensore, ma per quanto premesse il numero sul monitor continuava a rimanere invariato.

  «Bastardi! Devono averlo bloccato!»

  «E adesso come usciamo di qui?» domandò Revy

  «L’… l’ascensore…» si sentì mugugnare di risposta.

  Tutti si girarono verso Kyuzo, che Rock aiutava a stare in piedi sorreggendolo alla propria spalla.

  «L’ascensore… di servizio…»

  «Ma certo!» disse Steven schioccando le dita «Ha ragione, me ne ero completamente dimenticato!»

  «Ma di che diavolo sta parlando?» domandò Revy

  «Quando il laboratorio era in costruzione c’era un ascensore che veniva usato dagli operai per raggiungere i livelli più bassi, e che aveva una fermata ad ogni piano!».

  Steven cominciò a correre frettolosamente lungo la parete battendo il pugno di tanto in tanto, poi, finalmente, sentì rumore di vuoto proprio dietro ad un grosso vivaio a muro.

  «Hibraim, dammi una mano».

  Unendo le forze i due riuscirono a spostare il pesantissimo vaso, portando alla luce un pulsante che appena premuto aprì una porta segreta dietro al quale si trovava uno di quegli ascensori che si vedevano nei cantieri.

  «Eccolo, è questo. Ora possiamo salire.»

  «E allora sbrighiamoci a tornare di sopra.» disse Revy «Questo gioco è durato anche troppo».

 

Lasciatisi alle spalle i loro inseguitori, Balalaika, Samejima, Boris e il Vysotniki superstite si erano rifugiati nella sala controlli al primo livello, dove i due uomini lasciati a fare la guardia ai nanorobot ancora li attendevano.

  Yu-Ling era assieme a loro, ed aveva ripreso i sensi.

  «Non sarebbe meglio andarcene di qui?» domandò Balalaika

  «Lassù… lassù si stanno ancora ammazzando.» rispose Samejima tenendosi con forza la ferita al fianco infertagli da Revy «E tutte le uscite sono sbarrate. L’unica via d’uscita è il tetto».

  In quella la ricetrasmittente che Boris portava nella tasca interna della giacca iniziò a gracchiare, e il soldato se la portò all’orecchio.

  «Sono Boris… d’accordo. Capitano. L’elicottero è atterrato sul tetto.»

  «Molto bene. Ordina loro di entrare nell’albergo e fare piazza pulita degli ultimi rimasti.»

  «Sissignore. E come ci comportiamo con quelli della Lagoon? Sembra siano ancora vivi.»

  «A questo punto di loro non abbiamo più alcun bisogno.»

  «Signore?» disse Boris con comprensibile stupore

  «Fate fuori anche loro. Non dobbiamo lasciare testimoni.»

  «Io… sì capitano.»

  «Yu-Ling, vai anche tu.» disse Samejima «Prima ce ne andiamo meglio è.»

  «Sì padre».

  Non appena la ragazza se ne fu andata l’uomo, barcollando vistosamente, raggiunse il contenitore frigorifero, e apertolo nuovamente recuperò uno dei contenitori.

  «Che stai facendo?» domandò Balalaika

  «Ora che sappiamo che funziona non c’è alcun motivo per indugiare.»

  «Sei sicuro di quello che stai facendo? Il tuo codice genetico potrebbe non essere adatto.»

  «Se non hai le palle per correre il rischio affari tuoi. Io non ho intenzione di crepare dissanguato, non con un simile ritrovato fra le mani».

  Determinato come non mai Samejima si tolse la sua bella giacca grigia e si sollevò la manica destra della camicia, mettendo a nudo il suo braccio leggermente ossuto ma comunque abbastanza robusto, quindi, sfruttando i numerosi e piccoli aghi da iniezione che spuntavano da una delle due estremità metalliche del contenitore, si iniettò i nanorobot.

  L’operazione doveva essere molto dolorosa, perché l’uomo strinse vigorosamente i denti, e per i successivi secondi il suo volto si contorse in una smorfia di stentata sopportazione.

  Poi, ad un certo punto, l’espressione sofferente fece posto ad una come di leggero godimento, e Samejima, alzatosi in piedi, si strappò via la camicia imbrattata di sangue; Balalaika e i suoi uomini poterono vedere la ferita al fianco rimarginarsi a vista d’occhio, e tutto ciò che ne rimase dopo una trentina di secondi era una piccola cicatrice.

  «È…» disse la donna «È incredibile».

  Persino Samejima non riusciva a credere ai propri occhi, e la sensazione che pervadeva tutto il suo corpo non si poteva descrivere.

  «Mi sento… come se fossi rinato. È come se un fiume di lava mi scorresse nelle vene. Sento… di poter fare qualsiasi cosa».

  Con sguardo a metà fra la completa incredulità e il delirio di onnipotenza l’uomo allungò il braccio; Boris avvertì in quella un formicolio al fianco, e appena aprì la giacca per capire di che si trattava vide la propria pistola scivolare via dalla fondina per volare, lentamente, in mano a Samejima, a cui bastò stringerla leggermente nel pugno per ridurla in pezzi come fosse stata di marzapane.

  «Sì! Sì!» disse sgranando gli occhi «Questo potere… il potere di un dio… è nelle mie mani!».

  La sua espressione si fece rapidamente in tutto e per tutto simile a quella di un pazzo furioso, del resto autodefinirsi un dio non era certo cosa tipica di una persona sana. In pochi attimi ogni traccia di lucidità parve scomparire dal suo sguardo, lasciando posto ad un sadico delirio capace di mettere paura persino a Balalaika.

  «Sa… Samejima…»

  «Ne voglio ancora! Voglio più potere!».

  Prima che qualcuno potesse intervenire Noboru afferrò quasi tutti i contenitori e se li infilò tutti insieme nello stomaco con entrambe le mani. Il dolore, logicamente, fu cento volte più forte della prima volta, tanto che cadde pancia a terra quasi in posizione fetale, e dopo poco gli occhi i suoi occhi sembrarono farsi giallo oro, simili a quelli di un leone.

  Balalaika e i suoi non fecero in tempo a fermarlo, e all’improvviso videro tutto il suo corpo cominciare a contorcersi come se avesse avuto una miriade di insetti che gli camminavano sotto la pelle; i suoi urli e i suoi mugugni doloranti parvero tramutarsi in una specie di ringhiare sommesso, e in breve intere porzioni di pelle cominciarono letteralmente ad esplodere sotto la spinta di lunghi e minacciosi tentacoli marroni.

  Quando si rialzò aveva guadagnato quasi mezzo metro di altezza, e un corpicino dapprima piuttosto minuto ora traboccava di muscoli che non smettevano un attimo di contorcersi; l’urlo demoniaco che Samejima lanciò mettendosi in piedi riecheggiò per tutto il laboratorio e fu udito anche da Revy e dagli altri, i quali stavano lentamente risalendo verso la superficie usando l’ascensore di servizio, che a differenza di quello usato precedentemente impiegava circa dieci minuti ad andare da un livello all’altro.

  «Che diavolo era quello?» domandò Revy.

  Gli uomini di Hotel Moskow ne avevano viste di cose spaventose nei lunghi anni trascorsi in giro per i peggiori campi di battaglia del mondo, ma nulla era paragonabile all’essere che stava prendendo forma davanti ai loro occhi.

  Sembrava un incrocio fra Mr. Hyde e una piovra gigante, unghie e denti cadevano a ritmo incessante per fare posto a dei sostituti molto più affilati, la pelle sembrava pian piano venire ricoperta di croste marroni dall’odore nauseabondo mentre qui e là continuavano a spuntare quei lunghi tentacoli carnosi che si agitavano nell’aria come un esercito di serpenti.

  Il Vysotniki sopravvissuto alla battaglia nel secondo livello fu il primo a perdere l’autocontrollo, e alzata la sua arma sparò cinque colpi praticamente d’istinto diretti alla schiena di Samejima, ma nessuno di questi sortì l’effetto di ucciderlo, e anzi dai fori di entrata sbucarono dopo alcuni secondi altri tentacoli. Uno di questi, guizzando come una frusta, colpì l’aggressore, aprendolo a metà con un taglio obliquo dall’ascella sinistra al fianco destro come neanche una lama affilata avrebbe saputo fare.

  Balalaika assistette alla scena, e per la prima volta dai tempi della guerra il suo fu uno sguardo di terrore; Boris, istintivamente, si parò in sua difesa, gli altri due uomini invece presero le pistole e iniziarono a sparare all’impazzata a quella creatura e ogni secondo che passava sembrava sempre meno umana.

  Samejima, dietro quella scarica di colpi, si girò nella loro direzione, e persino Boris per poco non vomitò; la bocca grondava sangue, forse a causa della caduta dei denti, sostituiti da vere e proprie fauci da squalo, gli occhi, gialli e brillanti, erano quasi completamente fuori dalle orbite, gli erano caduti tutti i capelli e del naso era rimasta solamente la parte ossea.

  Non appena i due mafiosi esaurirono i caricatori vennero a loro volta tranciati a metà, e a quel punto rimasero solamente Boris e Balalaika. Entrambi cercarono di guadagnare l’uscita, ma il mostro, con un’incredibile agilità, si piazzò davanti alla porta bloccando loro ogni via di fuga.

  Boris istintivamente fece per sfoderare la pistola, ricordandosi solo in quel momento di non avercela più; non fece in tempo a rendersene conto che venne trafitto al petto da un tentacolo partito dal palmo della mano di Samejima come da una spada. Dopo essere stato sollevato in aria fu fatto dondolare per qualche attimo, poi, non appena smise di agitarsi, con uno scatto rabbioso venne scaraventato contro il muro.

  Balalaika osservò terrorizzata la sua ultima linea difensiva venire abbattuta, e quando si ritrovò faccia a faccia con quel mostro tremò come una bambina.

  Lui la guardò, ma non sembrava intenzionato a riservarle lo stesso trattamento; tuttavia, dopo poco, cominciò a camminare lentamente verso di lei.

  «No…» balbettava lei camminando all’indietro «Non avvicinarti!».

  Anche lei, spinta dalla disperazione, sparò tutti i colpi della sua pistola, ma come era già accaduto prima non vi fu alcun effetto, e in pochi secondi la donna si ritrovò con le spalle al muro.

  Il mostro a quel punto si fermò, la guardò ancora poi, ringhiando, le sparò lo stesso tentacolo con cui aveva colpito Boris diritto in bocca, e un istante dopo l’aria fu sventrata da un urlo agghiacciante.

 

L’ascensore di servizio avrebbe dovuto condurre Revy e gli altri direttamente nei sotterranei dell’albergo, ma quando la cabina passò davanti alla porticina che sbucava in una stanzetta del primo livello dei laboratori Kyuzo, ormai rimessosi quasi del tutto grazie agli straordinari poteri curativi dei nanorobot, spinse la leva che azionava il freno.

  «Kaito, che stai facendo?» domandò Rock

  «Io scendo qui.» rispose lui aprendo la porta

  «Perché, cosa vuoi fare?»

  «Bisogna disinnescare le bombe che avete in corpo e sbloccare le uscite dell’albergo se vogliamo andarcene, e la consolle nella stanza di comando è l’unico punto da cui può essere fatto.»

  «Ma perché devi essere tu a farlo?» chiese Steven

  «Forse perché sono l’unico a conoscere i codici di sicurezza.»

  «Vengo con te.»

  «Non dire scemenze Okajima. Tu hai ben altro da fare. Andate ora, avvertirò Dutch e gli altri superstiti di lasciare l’albergo. E fate attenzione, perché sicuramente ci saranno dei Vysotniki ad aspettarvi al varco.»

  «D’accordo.» rispose Hibraim dandogli la propria pistola «Ma porta questa con te. potrebbe servirti.»

  «Ti ringrazio».

  Kyuzo fece per chiudere la porta, ma Revy lo fermò all’ultimo secondo.

  «Ehi, supereroe da quattro soldi».

  Si guardarono, e dopo poco lei gli lanciò un sorriso provocatorio.

  «Cerca di non crepare. Ammazzarti è un privilegio che spetta a me.»

  «Farò il possibile.» rispose lui con la stessa espressione «Del resto, sono curioso di sapere cosa vi siete dette tu e mia sorella».

  Detto questo Kyuzo chiuse la porta e si avviò in tutta fretta verso la sala controllo.

  Appena uscì in corridoio si ritrovò davanti a qualcosa di incredibile e sconvolgente; tutto lì dentro era devastato, molte lampade erano distrutte, cavi e tubature pendevano dal soffitto, e in più punti delle pareti si notavano profondi solchi a gruppi di tre che parevano lasciati dagli artigli di un gigantesco animale.

  «Che diavolo è successo qui?» si domandò senza smettere di correre.

  Nulla di tutto ciò però poteva prepararlo a quello che trovò al suo arrivo in sala controllo; la porta d’ingresso era stata divelta, e la parete tutto intorno sfondata. All’interno, il pavimento era un tappeto di sangue, cadaveri e interiora, e Kaito non riusciva a capire chi o che cosa avesse potuto compiere un simile macello.

  «Mio Dio, ma cosa…».

  Appena vide il contenitore criogenico aperto subito ci si fiondò sopra, trovandovi però un solo campione di nanorobot.

  «Dannazione. Beh, uno basta e avanza per adesso».

  Fortunatamente la consolle funzionava ancora, quindi, senza pensare ad altro, immediatamente cominciò a lavorare ai codici di sicurezza, riuscendo in pochi minuti a disattivare tutte le cariche esplosive ancora funzionanti e a sbloccare tutte le porte, inclusa quella principale.

  Stava per attivare i microfoni dell’albergo per avvertire tutti i superstiti del Death Game affinché abbandonassero immediatamente l’edificio, ma gettando uno sguardo ai monitor vide, come previsto, che l’albergo pullulava di Vysotniki, intenti a fare strage degli ultimi concorrenti.

  Nello stesso momento, alcuni di loro stavano seriamente impegnando Dutch, che nascondendosi dietro ad un angolo nei corridoi del primo piano cercava di sfuggire a quelle raffiche micidiali.

  «Ma si può sapere che diavolo succede?» brontolò il gigante ricaricando la sua magnum «Da dove sono saltati fuori tutti questi Vysotniki? E soprattutto, perché ci sparano!»

  «Perché vi vogliono morti, mi sembra ovvio!» rispose una voce famigliare

  «Ma cosa…».

  Dutch guardò attonito il suo orologio-segnalatore, vedendo riflessa sul piccolo monitor la faccia, ora molto più amichevole, di Kyuzo.

  «Tu, bastardo! È anche questa opera tua?»

  «No, decisamente no.» rispose lui.

  Non solo Dutch, ma anche ma anche Revy, Eda e Benny, ovvero gli unici partecipanti al Death Game ancora in gioco, si erano ritrovati di colpo a tu per tu con colui che li aveva rinchiusi lì dentro; Benny si trovava nei bagni di servizio poco distante dalla posizione del suo collega nero, Eda invece sul bordo di una delle terrazze che davano sull’ingresso, dove si era appena liberata di un manipolo di aggressori.

  «Se proprio volete saperlo, questo gustoso scherzetto è opera di Balalaika.»

  «Che cosa!? Balalaika!?»

  «Ma non dire stronzate.» disse Eda «Balalaika l’ho ammazzata io, con le mie mani!»

  «Quella era solo una sosia.»

  «Una sosia!?»

  «La verità è che ci ha menati tutti per il naso fin dall’inizio. Ora che ha avuto ciò che voleva intende sbarazzarsi di ogni possibile testimone, quindi sarà meglio per tutti levare le tende il prima possibile.»

  «Non è possibile!?» disse Benny «Mi stai dicendo che Balalaika… ci ha traditi?»

  «Tradimento è una parola inesistente nel suo vocabolario. Del resto, il voltafaccia è la sua specialità.

  Contro i Vysotniki non resisterete a lungo, quindi sbrigatevi a raggiungere le uscite.»

  «Cosa, le uscite!?» esclamò Dutch «Così se non ci ammazzano loro lo faranno le tue stramaledettissime bombe!»

  «Le ho disinnescate tutte. E ho anche sbloccato le porte. Fareste meglio ad andare prima che se ne accorgano anche loro.»

  «Fanculo, chi ci dice che non sia un altro dei tuoi sadici giochetti?»

  «Mettiamola così, potete scegliere se fidarvi di me, oppure restare e venire ammazzati. La scelta è vostra».

  Dutch digrignò i denti, era chiaramente indeciso se dare retta o meno a Kyuzo, ma mentre cercava di soppesare tutte le possibili alternative dall’orologio giunse una nuova voce, anch’essa a lui ben nota.

  «Dutch, smettila di fare il diffidente stronzo e dagli retta!»

  «Cosa, Revy!?» disse Benny

  «Ah già, mi ero dimenticato di dirvelo.» intervenne Kyuzo «Le radio degli orologi sono collegate fra di loro.»

  «Dutch, sta dicendo la verità. Quella stronza ci vuole tutti morti, e se non ce ne andiamo di qui al più presto ci ammazzeranno davvero!»

  «Merda. D’accordo, se lo dici tu mi fido.»

  «Ottimo. Allora sbrigatevi».

  Benny fu il primo a raccogliere l’invito e se la diede a gambe passando per la porta principale senza incontrare fortunatamente alcuna resistenza, Eda usò la scala di emergenza, Dutch invece, essendo bloccato dal fuoco ininterrotto dei Vysotniki, dovette ricorrere a metodi più sbrigativi, buttandosi di sotto da una finestra.

  Il suo volo di sette metri venne fortunatamente attutito da una palma, ma non fu mai così contento di poggiare il suo enorme fondoschiena sull’asfalto di Bangkok. Benny gli corse incontro.

  «Dutch! Tutto bene?»

  «Sono stato meglio. A quanto pare quel piccolo bastardo diceva la verità. Dov’è Revy?»

  «Io non l’ho vista. Probabilmente è ancora all’interno».

  Dopo poco furono raggiunti da Eda.

  «Ehi, chi si rivede. Allora siete sopravvissuti anche voi.»

  «Che c’è, sei sorpresa?» domandò provocatoriamente Dutch «Piuttosto trovo incredibile che tu sia stata capace di conservare la pellaccia per tutto questo tempo.»

  «Ehi, bada a come parli. Mi è rimasto ancora un colpo.

  Cambiando discorso, Two-Hands non è con voi?»

  «Tu la vedi per caso?».

 

Pochi minuti dopo finalmente Revy e gli altri occupanti dell’ascensore raggiunsero il pianterreno dell’albergo, dove il punto di arrivo era mascherato all’interno di una delle quattro grosse colonne del ristorante francese.

  «Forza.» disse Steven «Sbrighiamoci ad uscire, prima che ci siano addosso.»

  «Procedete con estrema cautela.» disse Kyuzo, sempre attraverso la radio da polso di Revy «Ce ne sono ancora molti in giro… cazzo, attenti, stanno arrivando!»

  «Da dove?» chiese Revy

  «Porta d’ingresso! Sono tantissimi!».

  Prima che anche gli altri potessero rendersene conto la grande porta a due ante fu sventrata da una granata, e una quindicina di Vysotniki fece irruzione nel locale. Revy ribaltò immediatamente il tavolo più vicino, giusto in tempo per evitare la prima raffica, dietro al quale tutti si nascosero.

  «Merda!» disse Revy «Sono come gli scarafaggi, non te ne liberi mai!»

  «Meno chiacchiere» rispose Hibraim «Cerchiamo piuttosto di uscire vivi!».

  Come la prima volta furono Revy e Steven a dirigere le danze, ma a differenza del primo scontro stavolta i Vysotniki sembravano molto più agguerriti, senza contare che spazi angusti e pieni di nascondigli come quel ristorante costituivano il loro campo di battaglia ideale.

  Tre di loro, rimasti sulla porta, offrivano copertura sparando continuamente, e intanto gli altri si avvicinavano sempre di più, rendendo le loro sventagliate più precise e letali.

  Steven venne ferito leggermente alla spalla quando si sporse per rispondere al fuoco, Revy invece fu colpita di striscio alla gamba, e più i secondi passavano più la situazione si faceva disperata.

  «Merda, siamo in trappola!» disse Steven «Ci vorrebbe un miracolo!»

  «Ma non dire cazzate!» rispose Revy ricaricando le sue armi «I miracoli ce li creiamo da soli! Sta a guardare!».

  Senza un briciolo di esitazione Two-Hands lasciò il proprio nascondiglio e cominciò a correre lateralmente, sparando all’impazzata; molti Vysotniki caddero sotto i suoi colpi, alcuni di quelli che si distrassero per starle dietro furono prontamente centrati da Steven.

  All’improvviso, mentre tutti erano ancora intenti a spararsi, un verso terrificante simile ad un ruggito risuonò nell’aria, accompagnato da un impercettibile quanto preoccupante tremolio delle pareti.

  Sia i Vysotniki che i loro bersagli rimasero immobili per lo spavento, non riuscendo a capire di che potesse trattarsi, poi, di colpo, una parete andò letteralmente in pezzi come colpita da un bulldozer, e dal polverone così prodotto uscì lentamente una creatura che solo con molta fantasia si poteva definire umana.

  Alto più di due metri, quella specie di mostro aveva la pelle di un colore marrone, quasi squamosa, in cui le vene, soprattutto nelle gambe, sembravano quasi brillare di rosso; in alcuni punti sembrava addirittura che i muscoli, rossi e pulsanti, fossero usciti all’esterno, soprattutto sul torace e sulla testa, dove la scatola cranica era in parte esposta.

  Ciò che più spaventava di lui però era il braccio sinistro, grosso come quello di un gorilla e la cui la mano sembrava quella di un rettile, con tre dita grosse e lunghe, quello centrale più degli altri, armate tutte di minacciosi uncini; la mano destra era tutto sommato normale, fatta eccezione per i cinque artigli che sporgevano da ogni dito, ognuno dei quali superava i cinquanta centimetri di lunghezza;.

  Al posto dei denti aveva quattro file di fauci acuminate, due in alto e due in basso, gli occhi erano molto più grossi di quelli di un essere umano, quasi completamente fuori dalle orbite e anch’essi simili a quelli di un rettile, e del naso si vedevano solamente i fori ossei.

  Qua e là, in varie parti del suo mostruoso corpo, spuntavano lunghi tentacoli carnosi che non smettevano di agitarsi.

  «Ma cosa diavolo…» disse Revy sgomenta.

  A trovarselo più vicino furono i Vysotniki, che terrorizzati non esitarono a fregarsene dei loro obiettivi primari per sparare nella sua direzione, ma per quanto lo colpissero, facendo schizzare fiotti di sangue, quello non sembrava neppure provare dolore.

  Dopo alcuni secondi, forse irritato per quelle raffiche che non smettevano di abbattersi su di lui, il mostro lanciò un ringhio terrificante, e con un’agilità del tutto inconsueta per la sua stazza si avventò sui russi, facendone strage; li trapassava con gli artigli, gli fracassava le teste stringendole nella mano, o li apriva coi suoi tentacoli, che colpivano peggio di un nugolo di fruste affilatissime.

  Revy e gli altri assistettero immobili e terrorizzati, e persino Kyuzo, che osservava la scena grazie alle telecamere, si sentì tremare leggermente le gambe.

  «Mio dio, ma cosa…».

  Non appena i Vysotniki furono tutti morti la creatura inevitabilmente si concentrò sui superstiti. Per interminabili secondi rimase immobili a fissarli, e ogni istante sembrava essere quello dell’assalto.

  Invece, a sorpresa, fu Revy a fare la prima mossa, sollevando le sue due pistole e mettendosi a sparare, urlando contemporaneamente con tutta la sua voce.

  «Revy!» cercò di dire Rock «Non fare pazzie!».

  Come previsto quella nuova pioggia di pallottole non sortì alcun effetto, e in breve Two-Hands si ritrovò nuovamente a secco di munizioni, ma questo non bastò certamente a scoraggiarla; rinfoderate le pistole, sollevò in aria con il piede il fucile a canna mozza di un Vysotniki morto, quindi riprese a sparare.

  Questa volta la pioggia di pallettoni sembrò produrre qualche risultato, perché il mostro, investito in pieno, cominciò a camminare all’indietro, ma quando anche quell’arma fu vuota era ancora in piedi, e dopo alcuni secondi tutte le ferite che Revy gli aveva inferto cominciarono rapidamente a scomparire.

  «Oh, merda!».

  Un nuovo, terrificante ruggito fu ciò che spinse lei e gli altri ad abbandonare in tutta fretta il campo; purtroppo, essendo la strada verso l’uscita sbarrata dal mostro, l’unica via di salvezza si rivelò la cucina, che fra le altre cose aveva una porta che dava sulla scala interna di servizio.

  Steven la aprì nel momento esatto in cui anche la creatura entrava in cucina sfondando la doppia porta, chiudendola immediatamente dopo che tutti furono entrati e usando la sua tessera di riconoscimento per chiuderla a chiave.

  Il mostro ci si avventò sopra un istante dopo ma fortunatamente la porta era a doppia blindatura e resistette, anche se l’urto spaventoso la fece piegare leggermente verso l’interno.

  «Che cazzo era quello!?» domandò Revy

  «Ho paura a dirlo» rispose Kyuzo «Ma credo fosse Samejima.»

  «Che cosa!? Quel mingherlino giapponese tutto azzimato!?»

  «Ma come ha fatto a diventare così?» chiese Hibraim

  «Temo si sia iniettato una quantità esorbitante di nanorobot, così tanti da alterare il suo codice genetico provocando una mutazione.»

  «Gli ho sparato più di trenta colpi senza fargli un graffio.» disse Revy

  «La cosa non mi sorprende, con tutti i nanorobot che si ritrova in corpo, e se proprio volete saperlo credo che la sua mutazione sia solo all’inizio.»

  «Noi cosa possiamo fare per togliercelo di mezzo?» chiese Steven

  «Non molto temo. La sua velocità di guarigione è troppo rapida».

  Un silenzio angosciato si diffuse tra i presenti, e intanto quel mostro continuava incessantemente a colpire la porta nel tentativo di sfondarla.

  «Ragazzi…» disse Kyuzo dopo un po’ «Sono costretto a riattivare le chiusure di emergenza e a sigillare l’albergo. Non possiamo permettere a quel mostro di andarsene in giro indisturbato per le strade di tutta Bangkok.»

  «Sì, ti capiamo.» rispose Rock con voce da funerale «Procedi pure».

  Alcuni secondi dopo Dutch, Eda e Benny, che ancora attendevano fuori dall’Hotel Universe l’arrivo di Revy, videro tutte le porte e le finestre dell’edificio venire sbarrate da delle robuste grate di metallo, trasformando di fatto l’albergo in una sorta di insuperabile prigione.

  «E ora che diavolo sta succedendo?».

  Benny, che aveva ancora con sé il palmare, si collegò alle telecamere, e non appena vide quel mostro intento a colpire la porta della scala di servizio a suon di spallate, incrinandola sempre di più, per poco non se la fece sotto.

  «Oh, mio Dio.»

  «Che cazzo di bestia è quella?» domandò Dutch.

  Completata la messa in sicurezza dell’albergo, Kyuzo si appoggiò sconsolato alla consolle, senza più idee.

  Cosa potevano fare per riuscire ad avere la meglio su quella creatura all’apparenza immortale?

  Un’idea, dopo poco, gli balenò in testa.

  Una soluzione forse c’era, ma era molto rischiosa. Una volta sigillato l’albergo uscire era praticamente impossibile, quindi, di conseguenza, tale soluzione imponeva quasi sicuramente la morte di tutti coloro che ancora si trovavano al suo interno.

  «Che possiamo fare adesso?».

  Anche Revy e gli altri erano visibilmente sconvolti, con la rassegnazione dipinta sul viso; ormai non prestavano neanche più attenzione ai ruggiti terrificanti del mostro e al rumore dei suoi colpi contro la porta blindata, che più passava il tempo più si incrinava.

  Era dunque quello il loro destino?

  Sarebbero morti tutti, proprio quando erano ad un passo dalla salvezza?

  Kyuzo chiuse gli occhi, cercando in tutti i modi di farsi venire un’idea, quando improvvisamente una mano gli si avvinghiò alla caviglia.

  Istintivamente afferrò la pistola ricevuta da Hibraim e la puntò ai suoi piedi, incrociando lo sguardo spento e quasi morente di Boris; nuotava nel sangue che continuava ad uscire dall’orrenda ferita provocatagli da Samejima, e appariva chiaro che la sua vita fosse ormai prossima a finire.

  «Il…» mugugnò sputando fiumi di saliva insanguinata «Il tetto…»

  «Che cosa!?»

  «C’è… c’è… un elicottero…»

  «Un elicottero!? Mi stai dicendo che c’è un elicottero sul tetto…»

  «Il nostro… elicottero…».

  Kyuzo cercò di soccorrerlo, malgrado solo due giorni prima lo avesse quasi ucciso, e il russo, infilata una mano nella giacca, ne cavò fuori due cd-rom nelle rispettive custodie.

  «P… prendi questi…»

  «Che cosa sono?»

  «I… risultati delle ricerche… la cura… è qui dentro…».

  Il giovane, attonito, prese i cd mettendoseli in tasca, e subito dopo la mano che stringeva cominciò a perdere rapidamente di forza.

  «Da… dasvidania…» fu l’ultima parola che Boris pronunciò prima di morire.

  Per lunghissimi istanti Kyuzo stette immobile ad osservare il corpo senza vita di quell’uomo, stringendo la sua mano ormai morta, ma poi, con rinnovato spirito, afferrò nuovamente il microfono.

  «Ascoltatemi bene, c’è una possibilità.»

  «Che cosa!?» disse Revy «Sputa il rospo, di che si tratta?»

  «C’è un elicottero sul tetto, quello con cui probabilmente sono arrivati Samejima e Balalaika. Possiamo usarlo per andarcene.»

  «Alla grande! E allora forza, muoviamoci!»

  «Ma come facciamo con Samejima?» chiese Rock «Non possiamo certo lasciarlo in vita.»

  «Non temere, ci ho già pensato. C’è una soluzione anche per questo.»

  «Una soluzione?» disse Steven, che dopo poco ebbe l’illuminazione «Ma certo, la bomba!»

  «Di che bomba parli?» domandò Revy

  «Quella che era stata piazzata nei sotterranei. Un piccolo espediente nel caso il Death Game fosse sfuggito al nostro controllo.»

  «Volevate farci saltare in aria!? Ma io vi…»

  «Ora non c’è tempo per questo.» intervenne Kyuzo «Sbrigatevi a raggiungere il tetto. Io imposterò il computer per programmare l’esplosione a distanza.»

  «D’accordo.» rispose Steven «Sbrigati a raggiungerci, e fa attenzione al mostro.»

  «Ok, userò l’ascensore principale.»

  «Perfetto. Forza, muoviamoci!».

  Chiusa la comunicazione, Kyuzo cominciò a lavorare al computer centrale della bomba, che come tutte le altre apparecchiature poteva essere controllato direttamente dalla consolle principale, ma ad un certo punto su di un angolo del monitor si accese un led rosso. Il ragazzo lo osservò dapprima incredulo, poi chiuse gli occhi accennando un sorriso.

  «Beh, tanto sarebbe comunque finita così».

  Completato il lavoro fece per lasciare la stanza, quando, fra le macerie, notò casualmente la famosa pistola rinvenuta nella cabina della Seaborn Star, accanto alla sedia di Harue, e come un fulmine a ciel sereno si ricordò della promessa fatta tanto tempo prima. Quella promessa doveva ancora essere mantenuta, quindi, recuperata l’arma, la infilò alla cintura dietro la schiena, e a quel punto si diresse verso l’ascensore.

 

Steven, Hibraim, Rock e Revy presero a salire il più velocemente possibile le scale di servizio in direzione del tetto, contando freneticamente sia i piani che li separavano dalla salvezza sia quelli che avevano messo fra loro e il mostro.

  Quel bestione non aveva alcuna intenzione di arrendersi, e difatti, ad un certo punto, la porta blindata cedette, permettendogli di entrare.

  «Oh, merda!» disse Steven guardando di sotto «Correte!».

  Tutti quanti misero tutta la forza loro rimasta nelle gambe e presero a correre il più velocemente possibile, ma nonostante ciò il mostro si faceva sempre più vicino, questo perché invece che salire di gradino in gradino riusciva con un solo balzo a percorrere un’intera rampa.

  Era evidente che non avrebbe impiegato molto a raggiungere il gruppo, e al tetto mancavano ancora molti piani.

  L’unica soluzione per riuscire a guadagnare un po’ di tempo era quella di separarsi, quindi, giunti al dodicesimo piano, Revy e Rock imboccarono la porta d’uscita, mentre Hibraim e Steven continuarono a salire lungo le scale, e purtroppo fu su questi ultimi che il mostro decise di concentrare la propria attenzione.

  «Porca puttana, quello non ci molla! Hibraim, corri!».

  Le gambe di Steven gli permettevano di correre molto veloce, ma l’iracheno purtroppo non aveva lo stesso privilegio; Steven faceva il possibile per riuscire a stargli vicino, ma intanto Samejima si avvicinava sempre di più, e ormai a dividerli c’erano solo sei o sette rampe.

  All’improvviso Hibraim, sovraeccitato e terrorizzato, appoggiò male il piede su uno scalino, cadendo molto malamente e provocandosi una slogatura.

  «Hibraim!» disse Steven tornando indietro.

  Cercò di aiutarlo a rialzarsi, ma il dolore alla caviglia era tremendo e non gli riusciva neppure di muoversi.

  «È inutile, non ci riesco!»

  «Non dire stupidaggini! Forza, siamo quasi in cima!»

  «Mi fa troppo male! Non riuscirei neanche ad appoggiarla a terra!».

  Steven fece per aiutarlo a rialzarsi, ma Hibraim lo allontanò violentemente.

  «Vattene, va’ via di qui!»

  «Non posso farlo! Non puoi chiedermi di abbandonarti!»

  «Finiscila di sparare cazzate e vattene! Vuoi che quel mostro ci ammazzi entrambi?»

  «Hibraim…».

  Per la prima volta dopo tanto tempo, dal giorno della morte del padre, Steven pianse nuovamente.

  «Vai, Steven.» gli disse l’iracheno in tono più pacato, non molto diverso da quello di un fratello «È meglio così.»

  «Amico mio…»

  «Hai promesso di rifondare la tua compagnia. Non puoi morire qui. Io quello che dovevo fare l’ho fatto. Sta a voi scegliere l’uso migliore per le mie scoperte».

  Alla fine, piangendo tutte le sue lacrime, Steven accettò l’inevitabile e abbandonò il proprio amico proseguendo nella salita. Rimasto solo, Hibraim sorrise.

  «Certo che è una bella sfortuna».

  Quando il mostro raggiunse il pianerottolo che stava subito prima della rampa dove l’iracheno era stato lasciato lo trovò con in mano una cintura militare piena di granate, sottratta probabilmente ad uno dei Vysotniki uccisi al secondo livello.

  «Samejima, volevo dirtelo da tanto tempo. Vaffanculo.» quindi tirò una delle linguette.

  L’esplosione che ne derivò distrusse quasi interamente la tromba delle scale; Steven, che nel frattempo aveva raggiunto il penultimo piano, fece appena in tempo ad aprire la porta e a buttarsi a terra, evitando di venire investito dalla nube di fuoco proprio per un soffio.

  «Hibraim!».

 

Nello stesso momento Revy e Rock, tenendosi insolitamente per mano, stavano attraversando in tutta fretta il dodicesimo piano per raggiungere la scala principale, posta dal lato opposto a quella di servizio, e poter così riprendere la salita verso il tetto.

  Non sapevano se il mostro li avesse scelti o meno come bersaglio, quindi erano più che mai ansiosi di andarsene da lì e mettere finalmente la parola fine a quell’incubo surreale.

  Avevano corso così tanto da avere entrambi il fiatone e quando, giunti sulla terrazza che si affacciava sull’androne principale, ebbero la certezza di non essere seguiti, decisero in comune accordo di fermarsi per riprendere fiato.

  «Forse…» disse Rock «Forse l’abbiamo seminato.»

  «Sì, ma non dormire sugli allori. Non è ancora finita»

  «Hai ragione, scusa».

  Revy, calmato il battito, si appoggiò al parapetto, mentre Rock al contrario ci stava mettendo più del previsto a recuperare le energie; non era proprio tagliato per quel genere di vita.

  «Senti Rock. C’è una cosa che volevo chiederti.»

  «Di che si tratta?» domandò lui ancora con il fiatone

  «Beh ecco… non credo tu sia stato coinvolto in questo stupido gioco, o sbaglio?»

  «No, infatti. Quando mi sono svegliato ero nei sotterranei. Forse per via della nostra vecchia amicizia Kaito ha voluto lasciarmi fuori.»

  «Capisco. Beh, se è così, che ci facevi qui nell’albergo prima, quando ti ho visto insieme a lui?».

  Okajima a quella domanda si ritrovò del tutto impreparato a rispondere, rimanendo con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa.

  Solo dopo molte esitazioni infine trovò la forza per rispondere.

  «Io… io ero preoccupato per te.»

  «Preoccupato… per me!?» replicò lei con la medesima espressione

  «Quando ho sentito cosa avevano in mente di farti, ho cercato di venirti a salvare. Volevo aiutarti, fare qualcosa, ma invece non ho fatto altro che mettermi nei guai, e se Kaito non fosse venuto ad aiutarmi a quest’ora sarei sicuramente morto.

  Mi dispiace, Revy. La verità è che non so proteggere nessuno, neppure me stesso».

  Two-Hands restò così impressionata dalle parole del suo partner che, come lui, non riuscì a trovare la forza per rispondere; solo poche ore prima l’aveva quasi uccisa, e poi d’improvviso si era quasi fatto ammazzare per cercare di aiutarla?

  Solo in quel momento, dopo quasi due anni, Revy cominciava a scoprire sul serio la sua vera personalità.

  «Sei uno stupido, Rock.» disse accendendosi la sua ultima sigaretta «Cosa ti fa pensare che io potessi aver bisogno del tuo aiuto? Che tipo di aiuto potresti mai darmi?».

  In altri tempi Rock si sarebbe accorto fin da subito della scarsa convinzione che Revy aveva infuso in quelle parole, ma per lo stato in cui era gli sembrarono terribili e incredibilmente ammonitorie.

  «Hai perfettamente ragione. Ma tu hai rischiato tante volte la vita per aiutarmi, che ho pensato fosse venuto il momento di ricambiare. In realtà, non ho fatto altro che peggiorare le cose.»

  «Forse. Ma devo ammettere che quando hai fatto esercizi di boxe sulla faccia della sorellona hai dimostrato un fegato che non ti avrei mai attribuito.»

  «Non so cosa mi sia preso. Tutto d’un tratto, non ci ho visto più. Quella donna ha rovinato la vita di decine di persone per soddisfare il suo egoistico desiderio personale. Non potevo permetterle di passarla liscia, non potevo.»

  «Beh, se ti può consolare, anch’io d’improvviso ho avuto una gran voglia di ammazzarla. Dovrò ricordarmi di ringraziare Kyuzo per avermi fatto capire che razza di stronza era».

  Seguì, un nuovo silenzio, poi Revy fece qualcosa che Rock non avrebbe mai più dimenticato.

  «Rock… mi dispiace».

  Lui la guardò come si guarderebbe un fantasma.

  «Mi dispiace di avertelo tenuto nascosto per tutti questi anni.»

  «Ma cosa dici, Revy. Tu non hai fatto niente.»

  «Appunto. Potevo salvarla. Potevo salvare quella ragazzina, e impedire che si compisse quella strage. Nulla di tutto questo sarebbe mai accaduto se avessi dimostrato un cazzo di coraggio.»

  «Revy, non devi essere in collera con te stessa. Ciò che conta ora è uscire di qui. Sono certo che Harue non ti ha dimenticata. Sono anzi convinto che ti sia profondamente grata per aver tentato di proteggerla, e che presto vi ritroverete.

  Tra poco Kaito potrebbe non esserci più, e lei avrà bisogno di un nuovo fratello.»

  «Sì, forse.» rispose lei a bassissima voce «Ma quello non è un ruolo che spetterà a me».

  D’un tratto, un rumore sommesso di passi fece terminare anzitempo quella insolita conversazione.

  Revy e Rock si misero subito sul chi vive, poi, da un corridoio laterale dinnanzi a loro, videro uscire qualcuno che non si aspettavano, ed entrambi a stento si trattennero dal vomitare inorriditi.

  Balalaika, la Balalaika che era stata all’origine di ogni cosa, di ogni tragedia capitata in quell’hotel maledetto, camminava barcollando verso di loro.

  I suoi capelli biondi, solitamente annodati, erano ora sciolti, ma anche imbrattati di sangue. La giacca militare che portava di solito non c’era più, le mancava una scarpa, e il suo vestito rosso appariva strappato in più punti.

  Tuttavia, la cosa spaventosa erano le sue menomazioni; invece che semplici cicatrici sembravano ora un ammasso contorto di carne putrescente che ondeggiava e pulsava come un enorme formicaio, emanando fra l’altro un odore nauseabondo; doveva anche essere cieca dall’occhio destro, perché la pupilla era completamente bianca. Inoltre, dalle orecchie, dal naso e dalla bocca fuorusciva costantemente una strana poltiglia violacea.

  «Balalaika!?» disse Rock

  «Ma che cazzo le è successo!?».

  Provarono a chiamarla, ma lei non diede segno né di averli sentiti né tanto meno di riconoscerli; tutto ciò che faceva era continuare a camminare verso di loro con espressione quasi delirante, e ripetendo continuamente la solita litania.

  «I miei nanorobot… i miei nanorobot…»

  «Ma cos’è, la Notte dei Morti Viventi?»

  «Credo sia colpa dei nanorobot.»

  «Come fai a dirlo?»

  «Guarda quella gelatina che ha in faccia. Samejima deve averle come iniettato alcuni dei suoi nanorobot, ma evidentemente invece che guarirla le hanno devastato corpo e mente, trasformandola in una specie di zombie.»

  «Perfetto, siamo a cavallo».

  Revy alzò la pistola e provò a sparare, ma prima che potesse farlo Balalaika balzò in avanti e le diede un tremendo spintone, buttandola giù dal balcone; Two-Hands riuscì fortunatamente ad aggrapparsi al parapetto con una mano, ma la donna sembrava determinata a finire il lavoro e alzò la mano come a volerla trafiggere con le sue unghie insolitamente lunghe.

  Prima che potesse riuscirci Rock le saltò addosso tentando di trattenerla, ma lei, con una forza sovrumana, si liberò dalla stretta, e giratasi menò un colpo di unghie che ferì il giovane al petto strappandogli la camicia.

  Per il dolore Okajima barcollò leggermente all’indietro, ricevendo a sua volta uno spintone che lo buttò a terra, e subito dopo Balalaika gli si inginocchiò sopra, afferrandogli il collo con entrambe le mani.

  «Rock!» gridò Revy cercando di tornare su.

  Lui lottò con tutte le sue forze per tentare di liberarsi, ma era come se quelle mani fossero state le zampe di un orso, e ogni suo tentativo per allontanarle da sé risultava vano.

  Velocemente si sentì mancare il respiro, la sua lotta si fece sempre meno cruenta, quando d’un tratto il rumore di uno sparo rimbombò nel vuoto dell’androne, e la stretta di Balalaika cominciò gradualmente a diminuire fino a che la donna non allontanò le mani dal collo della sua vittima.

  Istintivamente Rock pensò fosse stata Revy a sparare, ma quando, giratosi, vide la sua partner ancora intenta a riguadagnare una base per i piedi, capì che doveva essere stato qualcun altro.

  Balalaika, che era stata colpita ad una spalla, si rimise lentamente in piedi, girandosi alle sue spalle, e contemporaneamente Rock riuscì a distinguere dinnanzi a sé la figura di Kyuzo, in piedi davanti alla donna con la pistola fumante in mano puntata verso di lei.

  «Questo era per mia madre.» disse con il suo sguardo di ghiaccio.

  Indifferente al colpo subito, Balalaika per la seconda volta lasciò perdere il proprio obiettivo per concentrarsi sul nuovo arrivato, cominciando a camminare verso di lui.

  «I miei nanorobot… i miei nanorobot…».

  A quel punto, gettando via la prima arma, Kyuzo sfoderò quella che un tempo era stata di Revy, prese la mira e sparò senza esitazioni, colpendo il suo obiettivo dritto in mezzo alla fronte.

  «E questo per mio padre».

  Nonostante ciò Balalaika continuò a non voler morire, ma la forza di penetrazione della pallottola fu tale da buttarla all’indietro, al di là del parapetto.

  «I miei… nanorobot…» continuò a dire mentre precipitava verso il basso.

  La sua caduta si concluse proprio sulla spada della statua di San Giorgio, che trafiggendola alla schiena la passò da parte a parte fino all’elsa.

  Balalaika emise un gemito, una sorta di perfida risata, quindi, in un modo che forse neppure lei aveva mai immaginato, spirò.

  «Brucia all’inferno, puttana».

  Nello stesso momento Revy riuscì finalmente a risalire sulla terrazza, e sia lei che Rock osservarono dapprima il corpo senza vita della loro ex-socia impalato trenta metri più in basso, poi colui che era stato l’artefice della sua morte.

  «Andiamo, ora. Dobbiamo raggiungere il tetto».

 

Nota dell’Autore

Come avevo promesso, ecco qua il penultimo capitolo di questa fan fiction, la quale ha preso una svolta che neppure io inizialmente mi sarei mai immaginato.

Mi dispiace di non aver aspettato l’arrivo dei miei recensori abituali, ma come ho già detto precedentemente gli impegni si susseguono, e visto che Death Game ormai è praticamente alla fine sono più che mai ansioso di pubblicare al più presto i capitoli conclusivi.

Per l’ultima parte e l’epilogo credo avrò bisogno ancora di qualche giorno, ma se tutto va’ bene dovrei poterli inserire entrambi entro martedì.

Ringrazio Selly e Beat per le loro recensioni.

A presto con l’ultimo capitolo!^_^

Carlos Olivera

  
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