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Autore: _Frame_    08/02/2015    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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23. Onore e Pietà

 

 

14 maggio 1940

 

Germania infilò l’unghia del pollice sotto il sigillo di ceralacca. Fece pressione, ruppe il marchio e distese il telegramma. Il generale si avvicinò alle sue spalle, la sua ombra coprì i timbri postali in alto a destra vicino all’indirizzo di destinazione battuto a macchina. Germania tenne gli occhi bassi, lesse piano le poche parole stampate con inchiostro blu sul foglio giallo.

 

RICHIESTA DI CESSATE IL FUOCO SU ROTTERDAM. TRATTATIVE DI PATTEGGIAMENTO IN CORSO.

PREUßEN

 

Le dita di Germania strinsero sui bordi della pagina. La carta si stropicciò agli angoli. Aggrottò la fronte nascosta dall’ombra e gli occhi rimasero fissi sul telegramma. Le parole si staccarono dalla carta, volteggiarono davanti agli occhi, ingrandendosi e gonfiandosi come davanti a una lente.

Cessate il fuoco, cessate il fuoco, cessate il fuoco...

Abbassò le palpebre. Posò il telegramma ancora aperto sul tavolo e lo tenne disteso con il palmo della mano. Sollevò il braccio, si prese la fronte tra le dita e restò chino.

Cessate il fuoco, cessate il fuoco. Trattative in corso!

I polpastrelli premettero sulle tempie fino a che non gli fece male l’osso del cranio. La mano aperta sul telegramma si chiuse, le unghie graffiarono la carta e il pugno seppellì il foglio.

 

.

 

1871

 

La luce rossa del tramonto si estendeva per tutta la valle, grande e ampia come una coperta. Il disco del sole si abbassò dietro i monti, i fitti raggi passarono tra gli spazi delle catene montuose e arrivarono a toccare la pianura. Le nevi splendevano sulle cime. Una spolverata di cristalli che brillavano di un intenso colorito oro, più scuro alla base, quasi bianco sulla punta. Le ombre delle montagne si ingrandivano sulla vallata, le sagome nere attraversavano i tratti di bosco, passavano le acque del fiume, e toccavano la base del promontorio scosceso.

Germania camminò verso la punta del picco. Mise il piede su un masso troppo grande e traballò, vacillando dentro gli stivali troppo grandi che gli arrivavano fin sopra le ginocchia. Si sbilanciò di lato e si appese con le manine alla roccia più vicina, colpendola con la spalla. Si tenne aggrappato incastrando le piccole dita che uscivano dalla larga manica della veste sulle rientranze dello scoglio. Germania si staccò dal masso e fece due piccoli passi all’indietro. Un raggio di sole arrivò dall’altro lato della pianura come una veloce pennellata, dritta e intensa. Germania sollevò un braccio davanti alla fronte e socchiuse un occhio. La manica della veste bianca gli arrivava oltre il polso, gli toccava le nocche, e i risvolti dorati brillavano come bracciali ingioiellati. Abbassò la mano, abituandosi alla luce del sole, e si spolverò la veste legata in vita. La croce rattoppata attraversava il petto, scendeva oltre la cinta che gli teneva ferma la stoffa sui fianchi, e arrivava alle ginocchia, proprio sull’orlo degli stivali.

Germania sollevò lo sguardo al cielo e voltò gli occhi alle sue spalle. Il sole si posò sul visino, sulla guancia bianca, sull’azzurro dell’iride, e un’onda dorata attraversò i capelli.

“Fratellone.” Tornò a stendere la mano davanti alla fronte per ripararsi dalla luce del tramonto, e socchiuse un occhio. “Abbiamo vinto?”

La sagoma scura di Prussia, coronata da un alone scarlatto, entrò nel raggio di sole. L’ombra scese, scoprì il bianco della veste teutonica, e il profondo marchio nero della croce che segnava il busto.

“Vinto e stravinto.” Prussia fece due passi avanti. Il rumore metallico degli stivali e della cotta di maglia sotto la veste emise un sottile tintinnio. Un lieve alito di vento gli mosse il mantello dietro le ginocchia, il panno bianco avvolse i polpacci, la croce nera sparì sotto le pieghe, e tornò piatto dietro le spalle.

Prussia si chinò sulle ginocchia. Posò il braccio sulla gamba piegata e tese l’altra mano per richiamare vicino Germania. Sollevò il mento verso la pianura. “Guarda là, West.”

Germania si avvicinò, lasciandosi cingere il busto con il braccio. Rimase in piedi di fianco a Prussia, aggrappandosi alla sua spalla, e tornò a guardare dove indicavano i suoi occhi.

“Il tuo futuro è tutto là,” disse Prussia. Strinse di più il braccio, attirando vicino Germania. Il sorriso gli scoprì le punte dei canini. “Stiamo facendo le cose in grande.”

Germania assottigliò le palpebre e continuò a fissare la luce rossa che si espandeva dagli spazi tra le montagne. Il fiume brillava, i raggi toccavano le onde che si increspavano sulla riva e si rimescolavano nel flusso. La foresta si stava scurendo. Una macchia nera in un tappeto rosso.

Germania camminò verso la punta del promontorio, e il braccio di Prussia sciolse la presa dal suo busto. La manina tornò tesa e ferma sulla fronte, facendo ombra agli occhi. Calpestò la punta di un masso aguzzo che sbucava dal terreno, e il ginocchio tentennò. Germania traballò in avanti e allargò le braccia per tenersi in equilibrio.

Una mano gli afferrò la cinta che reggeva la veste sui fianchi. Le spalle di Germania si inchinarono, ma la presa lo trattenne.

“Non sporgerti troppo,” gli disse Prussia.

Germania si diede un piccolo slancio e tornò con la schiena dritta. Le braccia larghe e i piedi ancora tremanti ben premuti a terra.

“Voglio solo vedere meglio,” rispose.

Le dita di Prussia lasciarono andare la cinta. “Aspetta.” Prussia si diede una spinta sul ginocchio, si rimise in piedi trascinandosi dietro il tintinnio metallico della veste. La sua ombra tornò alta, coprì il piccolo corpicino di Germania. Prussia gli fece passare una mano dietro la schiena e una dietro le gambe. Germania capì e si appese con le manine alle sue spalle, dove nasceva l’attaccatura del mantello. Prussia si mise in piedi con uno scatto e lo prese in braccio.

Fece un piccolo saltello inarcando la schiena all’indietro. “Gott, West.” Trattenne il respiro. Il viso si stropicciò in un’espressione che era a metà tra il divertito e lo scandalizzato. “Diventi sempre più pesante.”

Rimbalzò in avanti stringendo Germania dietro le spalle, tenendolo premuto contro il suo petto. Le piccole mani di Germania strinsero di più sulla veste bianca, si incrociarono dietro il collo del fratello.

Prussia fece roteare gli occhi al cielo. La smorfia stampata lì. “Sarà l’effetto dell’unificazione.”

Germania sollevò lo sguardo verso il viso di Prussia. Staccò una mano dalla sua spalla, alzò il braccio e tese la mano rivolgendo il palmo verso il basso.

“Un giorno diventerò più alto di te e così potrò guardare da solo,” disse.

Prussia rise, e Germania sentì il petto sobbalzare contro il suo corpicino. “Ah!” Prussia lo tenne sollevato con un braccio solo e si cinse il fianco con la mano libera. Prese un forte respiro e si gonfiò il petto. “Nessuno diventerà più grande del sottoscritto.” Si tolse la mano dall’anca e strofinò le dita tra i capelli di Germania, dalla frangia fino alla nuca. Gli occhi rossi avevano la stessa luce del tramonto. “Rimarrai per sempre il mio fratellino piccolo.”

Il braccio che Germania aveva sollevato sopra la testa tornò a calare. La mano strinse le dita di Prussia e gli fece scivolare via il palmo dal suo capo. Germania scosse la testa e i capelli tornarono in ordine. Si aggrappò di nuovo contro busto di Prussia, le piccole dita si appesero alle spalle e si incrociarono alla base del collo. Prussia gli diede una piccola spinta dietro le gambe rannicchiate e lo tenne più vicino al petto. Sotto la veste bianca, Germania sentiva la guaina della cotta di maglia muoversi ed emettere il sottile trillo metallico.

Soffiò di nuovo il vento che gli agitò le ciocche sulle guance. Germania strinse forte le braccia, avvolse il collo del fratello e lasciò che il suo abbraccio placasse il piccolo tremolio.

“Uhm, adesso anche questo paese fa...” Una manina scivolò dall’intreccio delle dita. Passò sulla spalla di Prussia, toccò l’aggancio del mantello, e il palmo si aprì sul petto di Germania, in alto, dove batteva il cuore. “Fa parte di me?”

Prussia gli diede un’altra piccola spintarella. “Non è così immediato.” Fece un passo in avanti, oscillò di lato facendo scricchiolare dei sassolini sotto gli stivali, e tornò fermo sul picco del promontorio. “Ma ormai il territorio è in mano nostra. Basterà aspettare un pochino, buttare giù qualche legge, un paio di scartoffie,” scrollò le spalle, e le mani strinsero dietro la schiena di Germania, “e poi dovremmo essere apposto.”

“E al paese che c’era prima di me cosa succede?”

“Dipende.”

Germania sollevò gli occhi, in cerca di quelli di Prussia. La frangia scivolò giù dalla fronte, lasciò scoperta la pelle che brillava di rosso e le iridi azzurre che si stavano scurendo con il sole del tramonto.

Lo sguardo di Prussia fissava la pianura. I riflessi scarlatti gli illuminavano il viso. Gli occhi ruotarono lentamente, incrociarono quelli di Germania, una sottile piega inarcò verso l’alto un angolo delle labbra.

“A volte cambiano nome.”

Germania sbatté le palpebre. Il cuoricino che batteva nel petto si fermò per un istante.

Prussia tornò a guardare il profilo delle montagne che stavano inghiottendo il sole. “A volte si fondono con qualcun altro, a volte assumono una forma diversa e, a volte...” Chiuse gli occhi, le spalle tornarono a sollevarsi. “Scompaiono e basta.”

Germania abbassò gli occhi. La sua mano tornò a posarsi sul petto di Prussia, le dita strinsero sulla veste bianca proprio di fianco al braccio più corto della croce teutonica.

“Scompaiono?” Lo chiese quasi sospirando.

Prussia diede le spalle al promontorio. L’ombra che nasceva dai piedi si allungò sul terreno brullo, ogni passo scuoteva gli speroni allacciati agli stivali che squillavano come un sacchetto di monete che veniva agitato.

Lo zoccolo del cavallo calpestò uno spazio d’erbetta che cresceva tra le rocce. L’animale abbassò il muso, dilatò le narici sopra uno stelo d’erba di montagna più alto e lo racchiuse tra le labbra. Diede uno strattone al ciuffo d’erba, sradicandolo alla radice, e lo masticò tra i denti imbrigliati nel morso. Schiumò un sottilissimo strato di saliva verdognola che sporcò gli anelli del filetto di ferro legati al cuoio delle redini.

Prussia sollevò Germania e lo sporse verso la sella. Germania si appese all’arcione tenendosi per il pomo e scavalcò con il piede la schiena del cavallo. Raddrizzò le spalle come gli avevano insegnato, lasciò ciondolare le gambe sul cuoio. I piedini non arrivavano a toccare le staffe, sfioravano la pelle borchiata dello staffile. Prussia infilò le dita dentro l’anello del morso e diede un piccolo strattone per far sollevare la testa al cavallo. Raccolse le redini e le diede in mano a Germania.

“Fratellone?”

Prussia sollevò gli occhi. “Mhm?”

Germania strinse le mani attorno al cuoio. Le redini si tesero e il cavallo fece scattare il muso verso l’alto.

“Se le altre nazioni scompaiono, è...” Fece dondolare le gambe, i talloni tamburellarono sui quartieri della sella. “È colpa mia?”

Prussia strinse tra due dita la parte di finimento più vicina alla bocca del cavallo. L’animale gli camminò dietro, il muso teso in avanti, vicino alla sua spalla. Lo squillo dei ferri che battevano sul ghiaieto scandiva i passi dell’animale.

“Queste cose succedono spesso,” disse Prussia. “Soprattutto di questi tempi.” Voltò lo sguardo all’indietro senza smettere di camminare e incrociò gli occhi di Germania. “Non vederla come una cosa negativa.” Aprì la mano che non reggeva le redini, la posò sul petto, chiuse gli occhi ed estese il sorriso da guancia a guancia. “Noi stiamo compiendo nobili gesta per costruire un grande e forte paese.”

Gli occhi di Germania brillarono. Le spalle ben dritte si allargarono. “Forte e grande come te?”

Prussia gettò il capo all’indietro e scoppiò a ridere. Si piegò sulla pancia tenendosi stretto lo stomaco, e passò la mano avvolta dal guanto sulle palpebre. “Ah, West.” Socchiuse gli occhi, ancora lucidi e brillanti come due gocce di sangue. Sollevò le sopracciglia e snudò l’arcata dentale che ghignava infossata nelle guance. “Nessuno riuscirà mai a eguagliare il sottoscritto.” Sollevò il braccio e continuò a camminare a testa alta. “A te che sei il mio fratellino piccolo riserverò un posto speciale nella mia piramide della magnificenza.”

Germania si strinse nelle spalle. Le ginocchia aderirono al cuoio della sella, le gambe diedero due piccoli colpetti sui fianchi del cavallo.

“Ma se io divento più grande di te, poi anche tu scomparirai?”

Prussia sputacchiò una risata più contenuta. Le sue spalle si scossero. “Pft! Scomparire...” Si voltò di scatto e poggiò il palmo aperto sotto il collo, in cima al braccio superiore della croce. Un sopracciglio si corrugò fino a stropicciare la fronte. “Io?” Tolse la mano dal petto e la sventolò per aria. “Scomparirò solo quando sarai diventato più alto di me, West. Ti ci vorrà tanto, tanto, tanto, tanto tempo.”

Gli occhi di Germania si intristirono. Sbatté le palpebre, si sporse in avanti tenendo i pugnetti poggiati sul pomo della sella. “Ma io non voglio che scompar –”

Le redini strette tra le dita lo strattonarono verso il basso. La testa del cavallo si abbassò con uno scatto, facendogli abbracciare il collo. Il viso del piccolo affondò tra i crini che gli solleticarono il naso e gli punsero le guance. Profumavano di erbe di campo e di paglia.

Prussia tornò a far sollevare il muso all’animale. Raccolse le redini tenendo alta l’imboccatura e porse di nuovo le cinghie di cuoio a Germania.

“Tieni bene le redini, non farti portare verso il basso.”

Germania prese tra le dita i finimenti e li tirò piegando i gomiti sui fianchi. Sollevò un braccio – la mano stretta attorno alla fettuccia di cuoio – e si strofinò il viso che pizzicava ancora per la botta sulla criniera.

“Non mi hai risposto,” disse Germania. Arricciò il naso e il formicolio sparì.

Germania riaprì gli occhi, riabituandosi alla luce bassa e scura del tramonto.

Prussia camminava di spalle, il braccio piegato verso la bocca del cavallo e la mano stretta sui finimenti. Una folata di vento agitò il mantello dietro le spalle, la stoffa si ripiegò sulla schiena, deformò la croce teutonica e avvolse le gambe infilandosi tra i polpacci. Il rumore metallico dei passi si univa alla marcia degli zoccoli che frantumavano le pietre sotto i ferri.

“Scherzavo,” disse Prussia. Passò qualche secondo prima che si girasse. Premette la punta del pollice sul petto e tornò a stendere il sorriso. “Questo mondo non riuscirà a disfarsi di me tanto facilmente.”

Un piccolissimo sorriso toccò anche le labbra di Germania. Le guance lattee si spolverarono di rosso. “Promesso?”

Prussia chiuse gli occhi e tenne la mano sul cuore. “Promesso.”

La presa sulle redini si fece più forte. Germania sollevò le spalle, tenne la schiena dritta, e avvolse i quartieri imbottiti della sella con le gambe. Allungò le punte dei piedi verso il basso, tese bene le gambe e sfiorò la cima della staffa. Spinse ancora di più, allungò le dita dentro lo stivale, ma non riuscì a infilare il piedino. Scrollò le spalle senza lasciar svanire il sorriso.

Un giorno ci riuscirò.

“Fratellone?”

Prussia tornò a voltare lo sguardo. “Mhm?” Poggiò la mano sul muso del cavallo per tenere lontana la bocca ancora schiumante di erba e saliva.

Germania prese un piccolo respiro. “Quando noi conquistiamo un paese, e il paese è ancora, uhm...” Abbassò gli occhi. Si guardò i pugni come cercando una risposta scritta sulle redini. “Uhm, in...” Stropicciò lo sguardo.

Prussia continuò per lui. “Integro?”

Germania annuì sbarrando gli occhi. “Sì, integro.” Incrociò lo sguardo del fratello. “Noi cosa dobbiamo fare?”

Prussia emise un piccolo sospiro. Si massaggiò il collo e sollevò le dita fino a sfregare la nuca. “Anche questo dipende da un sacco di cose.” Le dita si sciolsero dai capelli, il braccio tornò basso. “Dipende da come si è comportato prima quel paese, da come si comporterà dopo, da come intende collaborare e dal suo grado di ostilità nei tuoi confronti.”

Germania arricciò un angolo delle labbra. Socchiuse una palpebra e si grattò una tempia, con sguardo confuso.

Prussia sollevò un palmo e fece ruotare il polso. “In pratica, il fatto che lui sia parecchio incazzato con te potrebbe complicare le cose. Se non dovesse accettare le condizioni, è molto probabile che scompaia da sé o che diventi qualcos’altro.”

“Oh.” Germania tornò a stringere le redini con entrambe le mani. Schiena dritta, spalle larghe. “E se non succede e continua a voler lottare contro di noi, cosa dobbiamo fare? ”

“Mhm.” Prussia guardò in basso, in mezzo agli zoccoli anteriori del cavallo e lo tirò di lato facendogli schivare un masso più grosso. “Non è così facile deciderlo.” Tornò a camminare in linea retta. La mano si aprì sul manto grigio e massaggiò il collo dell’animale sotto la criniera scompigliata. “Quando diventerai grande lo capirai meglio.” Socchiuse una palpebra. Lo sguardo fiero e arrogante venne attraversato da una lieve vena di malinconia. “Ti capiterà molte volte di doverti trovare davanti a scelte così difficili.”

“E non posso chiedere a te, allora, quando succederà?”

La mano di Prussia fermò la carezza, le dita rimasero intrecciate ai crini. I passi secchi e pesanti seguivano il ritmo dei ferri di cavallo che calpestavano il terreno.

Germania strinse forte le ginocchia e si spinse verso l’alto, tendendosi con le spalle in avanti. “Hai detto che ci sarai per sempre.”

Il braccio di Prussia scivolò verso il basso, il palmo passò tra i sottili crini grigi e neri, seguendo la lunghezza del muscolo del collo, e si strinse. Prussia sollevò il mento e tornò a colpirsi il busto sopra il cuore. Il pugno batté sul petto gonfio.

“Ma è ovvio che ci sarò sempre! Se dovessi...” Si voltò di spalle e il mantello svolazzò attorno alle ginocchia. “Se dovessi trovarti davanti a scelte simili, ricordati di seguire le virtù dei cavalieri teutonici.”

Germania simulò uno sguardo pensoso. Sollevò un pugnetto senza mollare la redine e tese il pollice, guardandosi la punta del dito. “Sacrificio.” Alzò l’indice. A ogni parola, un dito per contarla. “Onestà, compassione, virtù, umiltà.” Passò al pollice dell’altra mano. “E onore.”

Prussia annuì. “Proprio quelle.”

Germania riprese le redini e si sporse in avanti fino a toccare il garrese del cavallo con i fianchi. “Ma una volta Austria mi ha detto che non valgono niente perché non è vero che tu sei umile.”

Prussia inciampò sulla punta di un sasso. Sobbalzò in avanti trascinandosi dietro il muso del cavallo, tirato dal finimento ancora tra le sue dita. Si rimise dritto, sistemò la veste dietro la schiena, ma le spalle erano ancora chine.

“Quella...” Rantolò un grugnito tra i denti. “Quella è la meno importante di tutte.”

Germania piegò il capo di lato con occhi interrogativi.

“Se uno è magnifico ha tutto il diritto di far partecipe il mondo della sua magnificenza, no?” Prussia sollevò il palmo. La voce assunse una punta di acidità, come se le parole fossero state ovvie. “Il vanto è gratificante.”

“Uhm.” Germania abbassò gli occhi. La punta dell’indice tornò a strofinare i capelli sopra la tempia. “Sì.”

Prussia annuì deciso. Quando si voltò e allontanò lo sguardo da Germania, si prese una nocca tra i denti. Il viso si infiammò, una vena di rabbia gli gonfiò la fronte.

Bastarda di una principessina. Strinse i denti lasciando passare un sottile ringhio. Questa dopo gliela faccio mangiare.

“E allora quali di queste devo usare?”

Il viso di Prussia si rilassò. La presa dei denti attorno alla nocca si allentò, lasciando scivolare la mano verso il basso.

Prussia tornò serio. “Mettiamola così.” Alzò gli occhi al cielo rosso, verso le poche nuvole che sporcavano il tramonto. “A volte, un atto di pietà nei confronti del nemico è una dimostrazione di forza ben più valida rispetto a una barbara prevalenza fisica.”

Germania tornò a stropicciare lo sguardo. Si chiuse nelle spalle. Lo sguardo incerto. “Mhm, non so se ho capito molto.”

“Lo capirai.” Prussia sollevò di nuovo il braccio libero, ma non posò la mano sulla criniera del cavallo. Aprì il palmo e toccò la gamba di Germania, gli carezzò il ginocchio che sbucava dall’orlo degli stivali e gli diede di piccoli colpetti sulla coscia. Si guardarono negli occhi. “Gli anni passano, le nazioni si trasformano e le persone cambiano.” La luce che brillava negli occhi divenne più scura, la voce più grave e profonda. La mano che carezzava la gamba di Germania lasciò un tocco caldo e forte. “Ma le guerre restano sempre le stesse, sia che tu combatta con i bastoni che con la spada.”

Ci volle qualche istante prima che Germania riuscisse a distogliere gli occhi e a riprendere a respirare. Guardò dritto, oltre la via di montagna, oltre il sole che spariva dietro la catena montuosa. Gli occhi rimasero aperti, ipnotizzati.

“Pietà?” Lo disse piano, lentamente.

Il vento si portò via quell’unica parola. Soffiò tra di loro, sbuffando sulla criniera del cavallo, agitando il mantello di Prussia, e scese a valle, dove stava calando la notte.

 

.

 

La mano di Germania strinse sul telegramma stropicciato. Il foglio giallo sparì inghiottito dalle sue dita chiuse a pugno sul bordo del tavolo. Il braccio tremò, le vibrazioni salirono fino alle spalle chine, e corsero lungo la schiena.

Germania chiuse gli occhi, strinse i denti.

Pietà. Sollevò la mano che non reggeva la pagina appallottolata, premette le dita sulla fronte, nascondendo lo sguardo. Per chi mi stai chiedendo di avere pietà, fratello? Separò le dita. Tra gli spazi della mano passò la luce di un occhio che puntò verso l’alto, sulla parete. La mappa srotolata era ancora appesa al muro, i segni e le frecce trapassavano i confini come le punte di una pioggia di lance. Loro ne hanno forse avuta di noi?

Il pugno continuò a stringere, le nocche sbiancarono, le vene pulsanti salirono in rilievo e corsero lungo le dita. Le unghie grattarono la carta, e i bordi del foglio stropicciato punsero la pelle del palmo. Germania sciolse lentamente la morsa. Il giallo del telegramma tornò a farsi vedere tra gli spazi fra le falangi.

Il generale si avvicinò di un passo, la sua ombra si ingrandì sul tavolo. “Signore?”

Germania prese un respiro. Chiuse le palpebre, la planimetria del Fall Gelb svanì, inghiottita dal nero. Raddrizzò la schiena e lisciò il telegramma sui bordi, andando da un angolo all’altro della paginetta.

“Generale.”

L’ufficiale irrigidì i muscoli e tese le braccia lungo la schiena dritta.

Germania tenne il telegramma stretto con una mano. Lo sollevò davanti al viso, mostrando il messaggio battuto a macchina, i timbri postali e la firma di Prussia – ribattuta anche quella – in basso a destra. Indurì lo sguardo e scosse il foglio.

“Io e lei non abbiamo mai visto questo telegramma.” Lo piegò in due sulla parte più lunga e stirò con i polpastrelli la linea che lo divideva. “Non è mai esistito, e tantomeno è giunto sotto i nostri occhi.”

Il generale piegò un sopracciglio. Germania aprì il primo bottone della divisa e infilò il foglio ripiegato nella tasca interna della giacca. Gli occhi scuri, freddi come pietre, fermi su quelli del generale.

“Sono stato abbastanza chiaro?”

Il generale ritirò il labbro inferiore. Batté un tacco a terra e tornò rigido sull’attenti. Un respiro gli gonfiò il petto, rilassò i tratti del viso.

“Chiarissimo, signore.”

Germania richiuse l’uniforme e intrecciò le dita dietro la schiena. Lanciò un’ultima occhiata alla sezione ‘d’ della mappa, in basso a destra. Gli occhi in ombra ruotarono dal confine tedesco, da dove partivano le frecce, fino alla costa nord della Francia. Si voltò di spalle e finì immerso nel buio.

“Proceda con l’ordine di bombardamento, mobiliti la flotta aerea su Rotterdam.” Il telegramma ripiegato sul petto cominciò a pesare e a pulsare. Gli premeva sulle costole come un pugno di sassolini aguzzi. Germania aggrottò la fronte. “Non ho intenzione di farmi fermare da una simile idiozia.”

Camminò verso la porta. Il foglio premeva sul petto a ogni passo, le punte dei sassi colpivano la pelle, si ritiravano, e di nuovo insistevano. Germania ignorò il peso.

“Faccia procedere l’Armata B verso le Ardenne.” Impugnò la maniglia, senza girarla. “Noi portiamo avanti l’avanzata per la Mosa attraverso la foresta.”

La voce del generale scattò dietro di lui. “Agli ordini.”

Germania uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Il pugno di sassi continuò a pulsare sul petto.

 

♦♦♦

 

15 maggio 1940, Rotterdam

 

Il muso dell’Heinkel 111 fendette la colonna di fumo, la coppia di eliche che sporgeva davanti alle ali vorticava tra gli spessi riccioli neri e rimescolava le polveri e i vapori delle esplosioni. Le ali tagliarono la nube plumbea, gli sbuffi si dissolsero scivolando sul fianco, passarono sulla croce della Luftwaffe tatuata sulla vernice verde, e si dissolsero sull’alettone in punta.

L’Heinkel inclinò il muso, il portellone sotto la pancia si aprì. Tre bombe cilindriche piovvero una dietro l’altra, rimasero sospese in aria, le punte si inclinarono, trafissero i muri di fumo che si elevavano dalla città, e scesero in picchiata. L’Heinkel impennò la traiettoria di volo, compì una parabola e schizzò verso l’alto. Rigurgitò l’ultima bomba e le ante del portellone si richiusero. L’aereo volò verso il cielo nero, oltrepassando la coltre grigia. Le luci dell’incendio si riflettevano tra gli sbuffi e i vortici che brontolavano sopra i tetti delle case distrutte.

La punta metallica del primo missile mirò verso terra. Le lingue di fuoco eruttarono uno sciame di scintille, le luci trasportate dalle spire avvolsero la bomba come un rovo di braccia. Il missile centrò il tetto dell’edificio già circondato dall’incendio. Sfondò le tegole, vi entrò come un sasso nell’acqua. Le finestre ancora integre brillarono, le crepe si aprirono come ragnatele ed esplosero sotto l’onda d’urto. Una bolla di fuoco ingigantì la luce tra le pareti, gonfiò l’edificio, il fumo passò tra le crepe del cemento e lo fece saltare. Frammenti infuocati volarono tra i muri di fiamme, si fusero con l’incendio e avvolsero la casa in un vortice di fumo.

L’onda d’urto rotolò al suolo. Fece inclinare le lingue di fuoco e toccò la casa vicina. Una facciata era già carbonizzata, il tetto mezzo crollato, divorato dall’incendio. La vampata nera travolse la casa e la punta del secondo missile piovve sul lato integro. Lo sfondò. Un ago che buca la stoffa. Lo schianto squarciò l’aria, coprì il ronzare della flotta aerea, e l’esplosione finì di radere al suolo la casa. Le fiamme si inchinarono, toccarono l’edificio adiacente fino ad avvolgerlo in un abbraccio di fumo che spaccò le pareti. Dava sul Maas. Le onde acquatiche agitate dal vento dei bombardamenti riflettevano le spire rosse, bianche e nere che si intrecciavano in spessi pilastri di fuoco che sembravano sorreggere il cielo scuro.

La terza bomba colpì l’angolo della casa, penetrò la banchina sulla riva del fiume, e spazzò via l’intero edificio con un vento di luce. L’onda scoppiò sul fiume, sollevò ampie creste d’acqua che sfrigolarono ed evaporarono in sbuffi bianchi subito inghiottiti dal muro dell’incendio. Era come spruzzare una ditata di goccioline d’acqua su una piastra rovente. Le fiamme si ritirarono dal fiume, il riflesso tornò a specchiarsi e tinse di rosso le acque nere e agitate del Maas.

Un ronzio tornò a sfrecciare nel cielo notturno di Rotterdam. Tre Heinkel uscirono dalle nuvole, sorvolarono le fiamme, passarono tra i fumi, e fecero piovere un torrente di missili scaricandoli dalle pance di ferro. Il ronzio si allontanò insieme ai profili dei tre aerei, il fumo lo ovattò.

Pesanti e secchi scoppi a ripetizione fecero brillare l’aria nera, le bolle si espansero ed esplosero. Le onde investirono i residui sbudellati delle case e i frammenti fumanti travolsero la base dell’incendio.

Il generale sollevò gli occhi sgranati al cielo.

Le punte delle lingue di fuoco toccarono le nubi, sottili venature attraversarono la coltre color piombo, come i fulmini di un temporale. Una fiamma si elevò verso la cima di un comignolo. Le spire si arrotolarono, circondarono i mattoni e si richiusero come fauci. Il comignolo cedette, il cemento si carbonizzò e piovve in un grumo di cenere. L’edificio si sciolse ingoiato dal fuoco.

Gli occhi del generale rimasero spalancati. Lo spettacolo infernale si riflesse dentro le sue pupille immobili, la pelle del viso bruciava sotto il calore rovente, il vento di fumo gli agitava il colletto della divisa dietro le spalle. La puzza di polvere da sparo gli punse la gola e le narici, non lo fece respirare.

“Generale!”

Un tuono di voce sventrò l’aria con ancora più forza delle esplosioni. Il suono più aspro rispetto al ronzare metallico degli Heinkel.

Il generale distolse lo sguardo ipnotizzato dalle fiamme, lo abbassò sul fianco. Una mano lo strattonò per il bavero dell’uniforme, strinse le dita sotto i bottoni e lo tirò verso l’alto.

Il viso di Prussia bruciava più dell’incendio che divampava al loro fianco. Gli occhi di brace si accesero, due vortici rossi in cui spirava la stessa ira che gli oscurava la fronte. Prussia gettò un braccio verso la città in fiamme e spalancò il palmo. Il petto gonfio di rabbia lo fece esplodere.

“Che cazzo sta succedendo?”

Le labbra ancora socchiuse del generale balbettarono. L’uomo sbatté ripetutamente le palpebre come per mettere a fuoco. “S-signore...”

L’altra mano di Prussia lo afferrò sul petto dell’uniforme. Le mani stritolarono la stoffa, strinsero sulle targhette dei gradi, e fecero salire l’uomo sulle punte dei piedi. La voce del generale si mozzò in un singhiozzo strozzato.

Prussia aggrottò la fronte nera di rabbia e lo trafisse con gli occhi di fuoco. “Esigo spiegazioni per questo macello.” Le sue braccia tremarono, passarono le vibrazioni al corpo dell’uomo. “Subito.

Scollò una mano dall’uniforme dell’ufficiale e tornò ad aprire il braccio. Il generale scese dalle punte.

“Chi ha dato l’ordine per il via libera ai bombardamenti?”

“Signore.” La voce del generale suonò più secca e decisa. L’uomo posò la mano sul polso di Prussia e lo guardò negli occhi. “L’ordine è arrivato direttamente da Berlino, noi non abbiamo fatto nulla.”

Prussia storse un sopracciglio. Dalle labbra increspate sbucò la punta di un canino. “Cosa?”

Il boato di un’altra esplosione li fece chiudere nelle spalle. Strizzarono gli occhi, Prussia lasciò andare il generale e portò la mano davanti al viso per ripararsi dal vento di fumo che puzzava di polvere da sparo. L’aria rovente gli bruciò la pelle umida di sudore per il forte calore.

Il ronzare dell’Heinkel passò sopra le loro teste e finì ovattato tra le nuvole.

Prussia si allontanò di un passo. Si piegò su un fianco, diede un colpo di tosse contro il braccio e tornò a inquadrare il generale.

“Non vi avevo detto di inviare un messaggio di cessate il fuoco fino a mio nuovo ordine?”

Il generale barcollò, tolse la mano dal viso e allargò il colletto dell’uniforme. Tossì anche lui. Le palpebre si abbassarono.

Prussia si avvicinò e tornò ad alzare la voce. “Le trattative per il patteggiamento erano ancora in corso, non era –”

“Lo abbiamo fatto, signore.” Il generale diede altri due colpi di tosse. Si strofinò il viso, ripulendolo dal sudore, dal pulviscolo e dalla cenere, e sollevò il palmo. “Il telegramma è stato inviato, signore. Forse...” I suoi occhi puntarono le fiamme, l’incendio brillò sulla sua pelle, si riflesse dentro le pupille ristrette. “Forse non è arrivato in tempo, o non è mai giunto a destinazione.”

Prussia seguì il suo sguardo. Sollevò gli occhi tornando a fissare l’incendio che divorava la città. Fece schioccare la lingua, la mano incollata al fianco si strinse a pugno, il braccio tremò.

“Merda.”

Due blocchi di fuoco si ritirarono, abbagliarono i resti di due edifici ancora integri e le fiamme filtrarono tra le crepe di cemento, tra gli spazi delle assi di legno e nelle finestre infuocate. Avvolsero le carcasse, gonfiarono una bolla che scoppiò in una pioggia di scintille bianche, e trascinò al suolo i resti delle case. Caddero come grumi di neve sotto il sole. L’incendio si ingrossò. Le spirali di fuoco che si divoravano a vicenda bucarono le nuvole, toccarono il cielo della notte e si abbassarono, tornando a bruciare e a sgorgare grumi di fumo nero.

Prussia si passò una mano tra i capelli. Il palmo si fermò sul collo, si strinse dietro la nuca.

“Perché c’è tutto quel fuoco?” chiese.

Il generale si avvicinò di un passo. “Le esplosioni hanno raggiunto un deposito di margarina e lo stabile si è incendiato.”

La bocca di Prussia si storse. Gli occhi non riuscivano a scollarsi dalle fiamme e dal calore del fumo.

“Le fiamme si sono propagate e ora non c’è modo di domarle,” continuò il generale. La sua voce tentennò, e lui si schiarì la gola. Gonfiò il petto e la luce dell’incendio brillò sui gradi dell’uniforme e sulla croce di ferro puntata al collo. “Rotterdam è spacciata, ormai. Contiamo già circa novecento morti, civili compresi.”

Uno schizzo di scintille esplose davanti a loro. Prussia e il generale fecero due passi indietro, tenendo gli occhi riparati dietro le braccia. Prussia fece stridere i denti. Sollevò piano le palpebre e gli occhi di brace tornarono a infiammarsi.

“Signore.”

La mano del generale gli toccò il gomito. Le guance dell’uomo brillarono di rosso, le piccole goccioline di sudore rifletterono la luce delle fiamme sul viso sciupato e sbavato di cenere.

“Dobbiamo portarla via di qui.”

Prussia si tirò indietro con uno strattone, sfuggendo alla presa della sua mano. “Mi faccia il favore, generale.” Gli lanciò un’occhiataccia e si aggiustò i risvolti dell’uniforme prima sul collo e poi sulle maniche. “So camminare da solo, e so meglio di lei quando è il caso di levare le tende.”

Un violento tremito fece rabbrividire il generale. L’uomo si chiuse nelle spalle e guardò in basso. “S-scusi.”

Prussia si voltò. Diede la schiena al fuoco, alle esplosioni, alla città devastata. Camminò sulla sponda del Maas. Gli occhi rivolti sulle acque continuarono a vedere il riflesso capovolto di Rotterdam divorata dall’incendio.

“Faccia uscire i nostri plotoni,” disse Prussia, rivolto al generale. “Sciolga le formazioni e riprendiamo l’avanzata verso il confine belga.”

Qualcosa crollò. Il boato delle pietre che cadevano e si frantumavano fece tremare l’aria e altre scintille evaporarono come uno sciame di lucciole che si spargono nel buio.

“Ormai qui non c’è più niente da fare.”

La voce del generale arrivò da lontano, bassa e fioca. “Sissignore.”

Le immagini continuarono a scorrere sul pelo dell’acqua nera. Le spire vorticavano, si alzavano e divoravano l’aria. Immobile, ferma tra le lingue di fuoco, davanti a uno dei muri carbonizzati, si ergeva una piccola sagoma nera.

Prussia voltò di scatto lo sguardo di nuovo verso gli edifici incendiati. Un vortice di fumo passò in mezzo alle gambe di Olanda, fece sventolare la sciarpa attorno ai polpacci, soffiò attorno al suo busto, tenendo lontane le fiamme, e agitò i capelli. Lo strato di cenere nera portata dal vento si depositò ai suoi piedi. Olanda si tolse la sigaretta dalla bocca, esalò un piccolo sbuffo di fumo che si confuse con il rigurgito grigio dell’incendio. Le fiamme oro, rosse e arancio coronavano la sua sagoma dritta e scura, la facevano brillare insieme alla punta della sigaretta.

Prussia si voltò verso di lui. Unì i piedi, tenne le ginocchia incollate e raddrizzò la schiena. Piegò il gomito e batté il fianco della mano sulla fronte. Un saluto militare rivolto alle fiamme.

Le dita di Olanda si separarono. La sigaretta cadde sul suolo arroventato e continuò a fumare il sottile rivolo dalla punta. Olanda alzò la mano, ma il gomito rimase basso. Imitò il gesto, meno rigido e fermo, ma lo sguardo celato dalle fiamme bruciava con la stessa intensità. Mosse un passo in avanti, schiacciò il mozzicone di sigaretta e un ultimo sbuffo salì dalla suola della scarpa. Olanda non ne accese un’altra.

 

.

 

Diari di Germania

 

Qualcosa stava iniziando a cambiare. Da quando era cominciata la guerra avevo cercato di mantenere un atteggiamento distaccato, agivo velocemente, andavo in contro al mio obiettivo senza lasciarmi coinvolgere, né dai nemici né dagli alleati. L’invasione polacca era stata un successo, la Guerra d’Inverno aveva richiesto molta più fatica ma alla fine ne eravamo usciti vincitori. Avevamo tentennato, e probabilmente il nostro più grande errore era stato sottovalutare la forza della coalizione nordica. Con Francia non volevo ripetere lo stesso sbaglio.

Il Fall Gelb era il piano perfetto. Un capolavoro di logistica, strategia e abile uso delle forze a nostra disposizione messe in atto contro i punti deboli del nemico precedentemente studiati. Vincendo la battaglia di Francia non avremmo prevalso solo fisicamente su tutta Europa, ma anche moralmente. Perdere avrebbe significato ribaltare su di noi tutte queste conseguenze, ed equivaleva a un’autodistruzione. Non potevamo perdere.

Mi arrivò il telegramma da Rotterdam. Mio fratello aveva dato inizio a delle trattative di patteggiamento con Olanda, e voleva un immediato cessate il fuoco su tutta la zona. Fu in quel momento che sentii rompersi qualcosa. Capii quello che mi stava chiedendo, ricordai gli insegnamenti sull’onore, sulla pietà nei confronti dell’avversario, ma quello che riuscivo a percepire in quegli istanti era solo debolezza. Accettare le trattative di un avversario, risparmiarlo e concedergli la mia sottomissione alle sue richieste sarebbe stata la prima vera sconfitta, la prima scheggia che si incrinava nel mio lucido piano cristallino. Non avevo motivo di concedere pietà a dei paesi che non ne avevano avuta nei miei riguardi e, soprattutto, non volevo farlo.

Tornò la rabbia. La rabbia che ormai ero convinto di essermi lasciato alle spalle cominciò a fiorire dal germe che avevo nascosto così a lungo. Ero convinto di star agendo solo per il mio onore, per la mia integrità, ma la verità è che lo facevo solo perché trascinato dall’ira e dalla frustrazione.

Rasi al suolo Rotterdam, e fu allora che valicai il punto di non ritorno. Anche ciò che avrebbe potuto riportarmi indietro, l’unica cosa che avrebbe potuto farmi tornare alla ragione, sembrò non aver più effetti su di me. Ripensandoci e rivivendo quei momenti, è questo che fa più male. Il pensiero di aver trascinato Italia nella mia lotta. Forse lo avevo fatto con la speranza che lui avrebbe saputo tenermi a galla, e alla fine siamo affondati tutti e due. Molti vedono Italia come la sanguisuga che si è incollata al mio braccio, che si è nutrita fin quanto ne aveva bisogno per poi staccarsi all’improvviso. La verità è che sono sempre stato io a tendergli la mano, ero io quello che ne aveva bisogno. Ero io a non volerla lasciare.  

Iniziai la mia discesa nel buio aggrappandomi e portandomelo dietro, forse con la speranza che un giorno sarebbe stato lui a ricondurmi in superficie. Quando mi accorsi di aver ormai toccato il fondo di quell’oblio, era troppo tardi. Troppo tardi per tornare a galla e troppo tardi perché Italia trovasse le forze di riportarmi indietro con lui.

   
 
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