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Autore: Night_    08/02/2015    2 recensioni
Takeshi era un guerriero. Un distruttore senza patria e senza scrupoli. Quelle sillabe... quel nome le apparve a dimensioni piccole piccole nella sua testa, fra tantissimi altri scritti più grandi, in modo quasi ingombrante.
Eppure, anche se era così minuscolo, era il primo che i suoi occhi della mente leggevano all'istante – brillava.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Voglio solo che tu possa respirare l'aria pulita della pace. Voglio solo che tu stia bene. E che non ti accorga delle mie bugie.

Makoto.

 

 

 

 

 

 

 

Andrà tutto bene, vedrai

 

 

 

 

 

 

 

 

Era sparita dietro una nuvola di dubbi; una nuvola plumbea, fitta e violenta, frastagliata dai suoi occhi terrorizzati e accecati da una strana rabbia. Yuki aveva allungato una mano per prenderla, chissà da dove poi, ma le sue dita avevano piccchiato solo l'aria pesante e attanagliata dal caldo di Maggio. Era andataCon la consapevolezza della sua nuova natura, era sparita, corsa via, dopo aver guardato tutto e due come se fossero mostri dalle fauci macchiate di sangue – Yuki chiuse le mani a pugno, le serrò.
«Hai fatto la cosa giusta», la voce di Tetsuya le arrivò calma, alle orecchie intontite. Aveva fatto la cosa giusta? Come poteva saperlo? Come poteva dire che non avesse fatto l'errore madornale del secolo?
E Tetsuya sembrò interpretare queste domande nelle pepite oro dei suoi occhi. «Cosa sarebbe successo se avesse scoperto la sua natura da sola?». Si fermò, respirando lentamente. «Cosa sarebbe accaduto se fosse impazzita dal nulla? L'hai visto anche tu, lei è... ».
«... sul filo del rasoio».
L'aveva capito anche lei, sebbene la seconda volta che aveva incontrato Makoto. L'aveva portata da Tetsuya per una conferma: si diceva che non avrebbe dovuto farlo. Poi però, il vampiro biondo le faceva presente quelle eventualità e lei, con un sospiro più pesante di un macigno, annuiva e comprendeva, tornava lucida.
Oh, diamine. Quanto avrebbe voluto, in quel momento, stringersi all'amico dai capelli oro?
Immensamente – ma non si mosse da quel punto; le braccia lungo i fianchi e lo sguardo fisso per quella via che aveva intrapeso Makoto – la fuggitiva –, con il capo leggermente chinato verso il basso e le spalle impercettibilmente tremanti, deboliLe aveva ruotate, aveva scosso la testa e via, si era girata verso Tetsuya per schioccargli un'occhiata tenace. «Abbiamo ancora domani per aggiustare le cose. Per il momento, è meglio tornare dal resto della classe, tanto Makoto non riuscirebbe nemmeno a guardarci in faccia. Deve cercare di smaltire la faccenda. Domani mattina ho bisogno che tu mi copra le spalle».
L'avrebbe chiesto a Sayumi – ma avevano litigato.
E Takeshi... escluso a priori. Dunque, perché non affidarsi un minimo al suo migliore amico?
Quello annuì, battendo appena le palpebre. «Andrà tutto bene, vedrai».
La mezzosangue fissò i suoi occhi, le iride ametista, con la pupilla pregna del nero più oscuro, più fitto. E in quei due specchi della sua anima, lei aveva compreso la verità più atroce, il dovere più importante.
Ciononostante, sorrise e annuì.

 

 

 

***

 

 

 

Quando si guardò allo specchio – appena opaco dal vapore della doccia calda – vide i propri occhi. Essi erano di una forma normale, forse un poco più rotondi del normale, con le ciglia nere che battevano e le microscopiche gocce incastrate che cadevano a picco: un colore scuro, tendente al nero, ma con una strana luce blu.
Brillavano come topazi.
Ma, una nuova verità, una nuova scoperta, le stava gridando che erano colpevoli e carichi di oscurità – che non erano occhi di una vera luce. Non c'era una luce vera, non c'era una luce bianca. Erano i pezzi di un cielo rattoppato, ferito brutalmente: era stata lei a ferirlo? Oppure, i suoi genitori? Chi aveva le mani macchiate di sangue? Lei guardava i propri palmi lattei e non riusciva a capire: era lei che non ci vedeva bene o le sue mani non volevano star ferme? Un bruciore che partiva dalla punta dei piedi e terminava ai polpastrelli, li sentiva come se fossero miriadi di aghi a muoverla – era un burattino nelle mani del fato.
Le guardava, cercare di concentrarsi, ma era tutto così sfocato, così distrutto.
Distrutto.
E in quel momento, si rese conto di qualcosa. Qualcosa di storto, qualcosa di davvero strano. Era una brutta sensazione, che percorreva le sue braccia, la nuca, la schiena – brividi. La sua stanza al mattino rasentava il disastro, la distruzione. I mobili accappotati, i propri vestiti posati come piume in posti impensabili, lividi violacei sul suo corpo come pezze.
Non capiva ma, in qualche modo, aveva capito.

 

 

 

***

 

 

 

«Yuki-chan?».
L'albina, al richiamo, non si era fermata. Senza rallentare, né accelerare, aveva continuato a camminare in direzione delle scale: aveva tutta l'intenzione di stendersi nella camera. Era stanca. Ma quella voce, la cui provenienza appariva sfocata, indistingubile, continuò a chiamarla. «Non mi ignorare! Ehi!».
Solo quando la voce divenne acuta e squillante, l'albina la riconobbe e, con una certa sorpresa stampata sulla faccia, si fermò e girò alle sue spalle. Sayumi aveva la fronte aggrottata e le dita stringevano forsennatamente l'orlo della gonna della divisa, a stroppicciarla – sembrava nervosa e confusa. Un passo, due passi, e la distanza fra le due ragazza andò a diminuire di un bel po'. «Volevo... », si interruppe, sospirando. «... parlarti».
Al contrario della ragazza, la mezzosangue aveva una calma zen invidiabile – la sorpresa era andata via subito. Nettamente calma. Non disse nulla, quasi in attesa delle parole dell'amica«Uhm, beh, ecco... », fece per prendere un respiro profondo, ma si fermò, guardando negli occhi ambra di Yuki, con i propri turchini. «Sono stata brusca, l'altra volta. Non ti dirò che mi dispiace, ma piuttosto che vorrei che tra di noi ci fosse un'amiciza che comprende il "confidarsi". Mi sento come se fosse una messinscena. E'---».
«Ti fermo subito».
Sayumi batté le palpebre e strinse la labbra.
«Ciò che vuoi è che io mi confida con te, anche se la cosa potrebbe mettere in pericolo qualcuno, anche se io non voglio, non me la sento o odio farlo?», disse lentamente Yuki – il tono freddo di un iceberg. «Per avere un'amiciza che non sia una messinscena. Capisco. Eppure mi sembra che tu mi abbia conosciuta e capita anche senza che ti rivelassi chissà cosa». Sayumi sentì dentro di sé che non poteva darle torto. Ricordava ancora, come se fosse appena il giorno prima, quando si erano incontrate; entrambe si erano sentite sorprese, meravigliate, l'una di fronte l'altra, a guardare dentro occhi di lucenti sfumature ma con, all'interno – nel profondo –, tutt'altra luce. E si erano capite, incastrate come puzzle, come amanti.
E adesso, sembrava che la cosa fosse impossibile – ma l'impossibile non esiste. Vide la mezzosangue passarsi il palmo della mano dal punto in mezzo alle sopracciglia fino a toccare la radice dei capelli argentei, scuotendo piano la testa.
A guardarla meglio, sembrava davvero stremata... «... va tutto bene?». La notò spostare lo sguardo di lato e far tornare il braccio lungo il fianco, meccanicamente – no, decisamente no. Ma le avrebbe detto ciò? Non poteva sempre e solamente leggerle negli occhi, per riuscire a capire i suoi stati d'animo, i suoi problemi.
Aveva bisogno che lei parlasse, di tanto in tanto. Della sua voce, graffiante e acuta.
«Una ragazza», esordì – Sayumi sopresse un sussulto. «C'è una ragazza che ho conosciuto, ieri sera e... stamani abbiamo capito che è un demone. Ma lei non lo sapeva».
La reception del ryokan era vuota. L'unico suono che si udiva, era lo scalpitare leggero e sommesso degli inservienti, mentre preparavano la tavola per la cena; tintinni di patti e bicchieri accompagnava un crescente vociare, che andava infiltrandosi nelle orecchie delle due ragazze e spingere, spingere fino a trovare il timpano. Improvvisamente, era arrivato il rumore.
«Sono preoccupata per lei», aggiunse piano l'albina, abbassando lo sguardo, toccando con i propri occhi le punte degli stivali della divisa. «Non so dove sia, come stia. Beh, posso immaginare, come si senta».
Sayumi ascoltava le sue parole e tutto ciò che riuscì a dire, per il momento fu un: «Capisco», teso e preoccupato quanto Yuki. Capiva, ma in realtà, fino ad un certo punto. Ci un attimo di puro silenzio, persino il fracasso dei piatti e degli inservienti divenne muto, di un muto quasi assordante.
«Cosa pensi di fare, ora?», domandò Sayumi. «Con la ragazza, intendo».
Yuki si morse avidamente il labbro inferiore – cosa pensava di fare? «Non... domani mattina andrò a cercarla e cercherò di... aiutarla a capire la faccenda. Ecco tutto».
Avrebbe voluto aggiungere, con il tono acido di chi era stufo marcio di tutto, "sei contenta adesso?", ma dalle sue labbra fuoriuscì soltando un grave sospiro. Come aveva sospettato, non si era sentita particolarmente a suo agio, a parlare di quale fosse il problema.
Forse era lei quella strana. Forse sbagliava lei.
Forse era lei quella sbagliata.
«Vado in stanza», disse e, con l'ombra dell'errore in viso, sparì per le scale.

 

 

 

***

 

 

 

Fu il rumore di sassi contro il vetro a destarla dal suo sonno, tormentato. Suoni secchi e precisi, quasi venisse presa la mira, prima di effettuare... il lancio; ma in quel momento, non era il modo di lanciare i sassi ad occupare la sua mente, quanto più: chi diavolo era?
Gettò un'occhiata stralunata all'orologio: 4:27. E certo.
Oh, quella giornata era peggio della precedente, qualcuno doveva essersi messo d'accordo contro di lei per rovinarle la gita ascolastica – e lei non voleva nemmeno andarci, dannazione! Furente, con le palpebre assottigliate e i denti stretti, si era messa in piedi di scatto e avvicinata alla finestra qualche metro distante.
«Hm... ? Che diamine... ?», ecco, aveva svegliato Sayumi. Ma che diamine. Il manto albino scendeva un poco disordinato lungo la schiena, coperta dal sottile tessuto della veste da notte – si girò a guardarla, assente. «Un idiota vuole morire, torna a dormire», non l'aveva detto particolarmente addolcita, no. 
La ragazza si era sollevata sui gomiti, il nido di capelli rosa tragicamente scompigliato e gli occhi attaccati dal sonno disturbato – il proprio futono di fianco a quello di Yuki. Già.
«Ah, uhm... ». Lentamente, tornò con la testa sul cusci-- «MAKOTO!».
Un urlo, sconcertato, meravigliato, sollevato.
Sayumi era tornata sui gomiti e aveva guardato la figura di spalle della ragazza con le sopracciglia alzate, mentre ella si girava e scattava verso la porta. «Yuki?!». E niente, era già scivolata via, come una qualche creatura notturna: non poteva perdere tempo, non in quella situazione. Scese le scale, saltò qualche gradino, atterrando in un equilibrio poco stabile e, nel giro di pochi secondi, era fuori dal ryokan; purtroppo però, c'era ancora un tratto di strada da fare, poiché la stanza si trovava sul fianco dell'edificio.
Corse. Corse, forsennatamente, con la velocità che aumentava ad ogni passo, ad ogni respiro – eccola.
Il viso chinato a fissare l'asfalto plumbeo, le mani nelle tasche di una giacca blu col cappuccio sollevato, il peso spostata suo una gamba e l'altra posta leggermente più indietro. Di spalle, in attesa.
Forse di Yuki.
«Makoto!», gridò ancora, l'albina. Vide la sua figura muoversi e girarsi verso di lei, mentre accorciava ancora la distanza, fino a giungerle davanti – era un po' stanca, doveva dirlo. Appoggiando una mano sulla fronte, per scostarsi i capelli da quel punto, inspirò profondamente l'aria tiepida della notte. «Makoto... ».
Era così felice di vederla... ! Avrebbe circondato il suo corpo per abbracciarla, consolarla, rassicurarla; sarebbe andato tutto bene, se le avesse dato retta, perché avrebbe saputo dirle cosa doveva fare e cosa... doveva assolutamente evitare. Per la sua sopravvivenza.
Per la sanità mentale.
«Makoto, stai... », si fermò, espirando in modo irregolare. Lei sollevò il viso e incrociò lo sguardo dell'albina, titubante. Ecco, nei suoi occhi c'era ancora la parvenza dell'incertezza e della paura, del "cosa sto facendo?".
Yuki la capiva, in qualche modo, e non le dava una colpa – si sentiva un po'...
«Come faccio a sapere che sono davvero un... », la voce di Makoto era trattenuta, come stretta da una corda. «... mostro?».
«Non sei un mostro», replicò Yuki, piano. «Essere un demone non vuol dire essere un mostro. Sei tu che decidi come esserlo!». Makoto era sicura che l'albina scontrosa avesse ragione; che non per forza lei sarebbe stata qualcosa di disumano, in grado di lacerare le carni altrui, di scavarne all'interno e accarezzare con l'acquolina in bocca la pelle morbida, tenera... no. Non era così.
Era tutto sbagliato.
Lei non era quello che... non poteva esserlo. Voleva vivere, voleva inseguire i propri sogni. Voleva diventare un'attrice. Partecipare a quegli spettacoli senza precendeti. Non un demone. Non una bestia.
«Makoto, devi sapere una cosa», Yuki sussurrò. Sembrava che non volesse farsi ascoltare – la demonessa la guardò, turbata. «I demoni hanno dei poteri, degli enormi e potenti poteri. Però, non devi usarli. Non li usare. Non dovresti averne nemmeno bisogno».
Makoto la guardò ancora. Quando Yuki aveva detto che lei era un demone, era sicura che anche l'albina lo fosse – e adesso aveva avuto la conferma. «Perché?», chiese, secca.
La vide avere un leggero tentennamento. «I poteri di un demone, se usati per più di tre mesi, in continuazione, finiscono con... privarti della razionalità».
Razionalità. Esserne privati. Perdere il privilegio della comprensione, della logica. Dentro Makoto, questi concetti rimbalzavano e producevano echi distanti; conosceva il significato di quelle frasi – di ciò che aveva detto Yuki stessa – eppure, non capiva... a cosa serviva la razionalità? I suoi occhi scuri come la pece brillarono, guizzanti. «Perdere la razionalità. Perdere. Perdere tutto. Perdere il lume della ragione. Impazzire. Razionalità».
Razionalità.
Essere perduti.
«No», Yuki digrignò i denti. Con uno scatto, le sue mani si posarono sul viso di Makoto e la costrinse, la costrinse a guardarla dritto negli occhi ambra – no. «Dannazione, Makoto, smettila. Smettila, okay? Andrà tutto bene. Se mi darai retta, se mi ascolterai, non sentirai nemmeno la differenza. Sarà come se tu fossi sempre stata umana. Makoto? Makoto, mi---».
«RAZIONALITA'!».
Makoto la spinse via. Le sue mani, gelide, agguantarono le spalle della mezzosangue per scostarla – era ripugnante.
«Ma io penso di non aver mai avuto quella cosa, quel... la razionalità». La sua voce calava a picco e poi tornava rapidamente su, instabile. «La notte faccio dei sogni strani, dei sogni che non hanno niente di sensato. Sogno che tutto va' a farsi benedire. Tutto cade, tutto si distrugge. I mobili si muovono. Ma... oh! Non fanno tutto da soli!».
Un leggero sorriso arcuò la bocca rosea di Makoto, mentre piegava le ginocchia e i palmi delle sue mani volteggiavano – Yuki restava in silenzio.
«C'è come un vento. Tanto vento. Folate, brezze, schiaffi di vento. E' piuttosto forte, ma... è bello. E' uno spettacolo stupendo», Makoto tacque, fissando Yuki.
La fissava, con le pupille appena ristrette, e un espressione sconcertata in viso – la fissava, la squadrava, l'apriva. «Tu hai già capito, non è vero? Avanti, dillo. Cosa aspetti? Pensi che io sia una debole, mi disperirò di fronte alla verità? Ma cosa... ». La sua espressione divenne grave. La bocca si strinse in una ferra morsa, le sopracciglia si inarcarono – una piccola vena fece la sua comparsa, disegnando la scia dell'ira. «Ma cosa ne sai di me! Mostro, mostro, MOSTRO!».
Yuki non parlò.
Tacque. L'ombra della notte accarezzava la sua pelle, sulle spalle, nuda – i suoi occhi, vacui, guardarono l'edificio.
«Sonnanbulismo, eh?».

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Posso essere sincera?
Credo che, tra quello scorso, questo e quello a venire, MORIRO'. Non so, trovo molta difficoltà a scrivere di Makoto e... la sua pazzia, ecco. E niente.
Ho il kokoro un po' brekkato, nau, torno a scrivere. C:

 

Night, ovviamente, con affetto.

  
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