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Autore: Akemichan    08/02/2015    3 recensioni
"Per gli Alleati e per la Germania, sarà il giorno più lungo." E. Rommel.
Il 6 Giugno 1944 è il giorno che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale, permettendo agli alleati di sbarcare in Francia ed iniziare la controffensiva contro la Germania. Tuttavia, è stato anche il giorno che ha cambiato le sorti di molti soldati presenti, sia i morti e i sopravvissuti.
Come Sabo, nobile francese, che si è ritrovato a fare i conti fra il suo sogno, la sua famiglia e un paese invaso da liberare. Come Ace, che è diviso tra il desiderio di vendicare un fratello e il dovere di proteggere l'altro, senza dimenticare la promessa che ha fatto ad entrambi. E assieme a loro le storie delle persone che amano, dal fratellino Rufy con il sogno di diventare campione olimpico a tutte quelle persone che hanno caratterizzato la loro vita fino a quel fatale 6 Giugno.
Questa è la loro storia, la storia di tutti loro.
1° Classificata al Contest "Just let me cry" indetto da Starhunter
2° Classificata al Contest "AU Contest" indetto da Emmastar
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ace/Marco, Koala, Marco, Monkey D. Rufy, Sabo, Sabo/Koala, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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1940 - Parte III
 
Boston, 22 Giugno
 
L'irritante voce del presentatore iniziava a dargli sui nervi. Il jazz gli piaceva, ma in quel momento riteneva che ci fossero notizie più importanti da dare, come ad esempio cosa stesse succedendo in Europa, dove c'era, tipo, una fottuta guerra!
«E basta! Dammi qualche notizia, maledizione!» Ace afferrò il cuscino più vicino a sé e lo lanciò con forza verso la radio. Il cuscino colpì la radio in pieno e la fece precipitare oltre il tavolino su cui era accomodata. «Merda!»
Si alzò di scatto per recuperarla e mosse le manopole per farla riprendere, ma pareva morta. La agitò un attimo sperando di ridarle vita, ma fu tutto inutile. «Oh, ridicolo ammasso di ferraglia» sbottò. Non era possibile che si rompesse per un colpo così minuscolo come quello.
Si accoccolò di nuovo sul divano, seccato: non solo non era riuscito ad avere notizie sulla guerra, ma adesso non aveva nemmeno la consolazione del jazz. Il silenzio non era positivo, lo costringeva a pensare. E pensare significava Sabo.
L'anno precedente c'erano state le prime avvisaglie di un nuovo conflitto, per cui Ace e Rufy non avevano potuto passare l'estate allo Château d'Ô com'era abitudine da anni. E già quello era stato insopportabile da accettare. Tuttavia, nonostante la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra alla Germania, le lettere di Sabo erano arrivate con regolarità e nulla indicava che la sua vita avesse subito un qualche cambiamento sostanziale.
Le notizie erano peggiorate in primavera, ma l'invasione della Francia era stato comunque un fulmine a ciel sereno. Avevano provato a spedire dei telegrammi per avere notizie, ma nessuno era giunto a destinazione. Parigi aveva subito una forte emigrazione, per cui non era improbabile che anche Sabo l'avesse lasciata, ma non erano arrivate lettere di avvertimento con nuovi indirizzi.
Ed Ace non era abbastanza paziente da rimaner seduto finché la radio decidesse che quello che succedeva in Europa era abbastanza importante anche per gli americani. La radio comunque non poteva essere più utile al momento. Non avevano notizie da Sabo da quasi due mesi e il pensiero che non sapessero come raggiungerlo era insopportabile.
La porta si aprì di scatto e Rufy balzò nella stanza gridando. Ace era talmente preso dai suoi pensieri che quasi cadde giù dal divano per lo spavento.
«Accidenti a te, che caspita ti è preso!»
Rufy era troppo eccitato per preoccuparsi di una cosa di così poco conto come il bernoccolo che aveva procurato. Allungò la busta che teneva con entrambe la mani, quasi fosse una reliquia sacra. «Una lettera da Sabo...» esalò, con le guance rosse e gli occhi brillanti.
«Scherzi?» Ace scavalcò il divano e gliela strappò dalle mani: era davvero una lettera da Sabo, la scrittura era la sua e il francobollo era francese. «Perché non l'hai detto subito!» esclamò, mentre la apriva.
«Ma se è la prima cosa che ti ho detto!» protestò Rufy, con gli occhi che seguivano ogni movimento delle sue mani, da quando aveva strappato la busta a quando ne aveva esaminato il contenuto. «Leggi, leggi!»
 
Cari Ace e Rufy,
probabilmente non riesco ad esprimere a parole quanto mi mancate e quanto sia dura dover rinunciare ad una seconda estate con voi. Se avessi avuto più tempo, avrei cercato di descrivere meglio i miei sentimenti, ma vado piuttosto di fretta oggi. Vi devo chiedere scusa: ho la possibilità di poter venire da voi, a Boston, ma ho deciso di non sfruttarla. La mia decisione non ha nulla a che fare con voi e voglio che sappiate che mi mancherete moltissimo.
Come probabilmente saprete, la Francia è in guerra contro la Germania e pare che uno scontro fra i due eserciti sia imminente. Mio padre vorrebbe semplicemente andarsene, ma io non posso farlo. Ho intenzione di arruolarmi e andare a combattere per la salvezza della mia patria. Forse non approverete la mia decisione, ma sono sicuro che capirete come mi sento.
Non è stato facile decidere e rinunciare a voi e ho dovuto farlo in fretta. Cercherò di farvi avere mie altre notizie in futuro, se potrò, ma dovunque siate sappiate che vi voglio bene perché siete i miei preziosi fratelli e che non smetterò mai di pensare a voi.
Ace, mi raccomando, se dovesse succedermi qualcosa spetterà solo a te accompagnare Rufy sul podio olimpico. Lo sai che conto su di te.
 
L'ultima frase era sbavata e mal scritta, come se per Sabo fosse stato difficile mettere su carta la paura che non sarebbe tornato dall'avventura che lo stava aspettando. Ace stringeva la lettera con forza e ne fissava le frasi nere sperando che indicassero qualche altra notizia.
«Almeno sappiamo che sta bene» commentò Rufy, dato che non gli piaceva il silenzio che era sceso alla fine della lettura della lettera.
«È vecchia.»
«Cosa?»
Incapace di guardare ancora quelle parole, Ace la appallottolò e la gettò via. «Risale a più di un mese fa. Chissà dov'è adesso!»
Sabo aveva ragione, per quanto lo capisse non gli era piaciuta la decisione che aveva preso. Sapeva cosa stava succedendo in Francia, eserciti in rotta, centinaia, migliaia di prigionieri e morti anche fra i civili. Aveva sperato, ogni giorno, di ricevere notizie che indicassero che il fratello era ben lontano da quel disastro e adesso scopriva che ci era finito proprio in mezzo. Volontariamente, per di più! “L'imbecille...” pensò.
«Andrà tutto bene» affermò Rufy annuendo. «Abbiamo fatto una promessa, ricordi? Sabo mantiene le promesse.»
Ace gli scoccò un'occhiataccia ed ebbe l'intenzione di lanciargli una frecciata sul fatto che la guerra non fosse uno scherzo, ma poi notò che Rufy non era certo così sicuro come lasciava credere: era pallido e sudava.
«Se Francia e Germania sono arrivate ad un accordo, forse le poste torneranno a funzionare» rifletté. «A quel punto, Sabo potrà farci sapere qualcosa.» Sempre che non fosse prigioniero in qualche campo. Sempre che non fosse morto. Ma quelle non erano cose che poteva dire a Rufy.
«Hai ragione!» Rufy sorrise. Era rilassante vederlo cercare di conservare il buonumore nonostante la situazione. «La radio ha detto qualcosa di nuovo?»
Ace scoccò uno sguardo al macchinario che giaceva ancora abbandonato sul pavimento. «Credo di averla rotta» affermò, con una leggera smorfia.
«Ma fai sempre danni!»
«Sei l'ultima persona che può dirmi una cosa del genere!»
L'unica alternativa ormai era provare a fare un salto al tecnico dall'altra parte del quartiere. Ace recuperò la lettera di Sabo e la ripose nella scatola che teneva in camera, mentre Rufy si cambiava dalla tuta da palestra e sistemava la borsa. Dal tecnico scoprirono che la radio era riparabile, ma era necessario ordinare un pezzo e non era certo quando sarebbe arrivato.
Così, quando tornarono a casa, nonostante l'odore del cibo che la loro governante Makino stava preparando e nonostante ciò facesse brontolare i loro stomaci all'unisono, nessuno dei due aveva appetito.
Makino si affacciò alla finestra, sorpresa che non andassero a cercare di rubare degli assaggi prima del tempo, ma al momento la cosa più importante per loro era la luce che filtrava sotto la porta dello studio di Garp, che indicava il suo ritorno.
Come rispettabile membro della marina degli Stati Uniti, c'era da aspettarsi che avesse notizie di prima mano sulla situazione in Europa, perciò si precipitarono all'interno ignorando la regola che imponeva loro di bussare e si scaraventarono contro la sua scrivania gridando e parlando contemporaneamente. Si calmarono e si sedettero sulle poltrone, per quanto a malavoglia, solo quando Garp li colpì con il suo famoso pugno d'acciaio che conoscevano fin troppo bene. Vedendo la loro espressione, tuttavia, decise di accontentarli.
«L'armistizio è stato firmato oggi, ne ho avuto notizia proprio poco fa» raccontò, accomodandosi meglio sulla poltrona. «La parte nord della Francia, compresa Parigi, è sotto il controllo della Germania, la parte a sud è formalmente territorio libero del nuovo governo francese di Vichy.»
«Formalmente?» domandò Rufy.
«Vuol dire che in realtà non prenderanno decisioni contro quelle della Germania, anche se sono indipendenti» commentò Ace.  «Mi sbaglio?»
Garp scosse la testa.
«Quindi, che succede ora?»
«La Germania è ancora in guerra con l'Inghilterra, e l'Inghilterra è ancora alleata della Francia, quindi i prossimi scontri saranno tra queste due potenze probabilmente» disse Garp. «Difficile che decidano di attaccare la Russia prima di aver sistemato il fronte occidentale.»
«E noi? Cosa farà l'America?» Ace non stava facendo le domande di cui voleva davvero una risposta, ma prima sentiva di dover capire esattamente cosa stava succedendo.
«Non abbiamo alcun motivo di intervenire. Certo, una vittoria della Germania non è auspicabile, ma non è un nostro problema. Possiamo guadagnare molto di più  mandando rinforzi a tutti piuttosto che entrando in un conflitto che non ci interessa.»
Ace strinse i denti: Sabo era chissà dove, con la sua bella divisa indosso, a combattere, e lui viveva in un paese che guardava il resto del mondo bruciare sperando che il fuoco gli cuocesse meglio la carne. Rufy non era altrettanto interessato alle questioni politiche, per cui andrò dritto al punto.
«Adesso che c'è l'armistizio, sarà possibile avere notizie dirette dalla Francia, no? Dobbiamo sapere dov'è Sabo.»
«Non è a New York?» rispose Garp, alzando un sopracciglio.
«Perché mai dovrebbe essere a New York!» sbottò Ace, che stava ancora cercando di immaginare come si potesse essere vivere in un paese sotto assedio e per questo l'atteggiamento conciliante e tranquillo di suo nonno gli dava ai nervi.
«Be', Outlook ora abita là. Mi ha mandato un telegramma due settimane fa.» Si chinò, aprì uno dei tre cassetti della scrivania e, dopo una rapida ricerca, estrasse un pezzo di carta e lo appoggiò sul bordo della scrivania, verso i due nipoti. «Ha spostato tutte le sue attività dopo la dichiarazione di guerra alla Germania e appena possibile ha fatto i bagagli e si è messo al sicuro qui in America. Ma non ve l'avevo detto?»
Ace e Rufy fissarono il telegramma con occhi spalancati. Ora che ci pensavano, però, Sabo aveva parlato di un'occasione per venire a Boston e probabilmente doveva riferirsi al trasferimento di suo padre. Ace non riusciva a credere che Outlook se ne fosse andato lasciando il figlio alle prese con una guerra, ma tutto sommato era una cosa perfettamente normale da parte sua.
«Dannazione, vecchio, avresti dovuto dircelo subito!» sbottò. «E comunque è tardi, Sabo è rimasto in Francia e si è arruolato.»
«Scelta onorevole.»
Né Ace né Rufy condividevano la carriera di Garp nella marina, e manifestarono in maniera decisamente plateale il loro disappunto sulla questione. «Be', perché non provate a mandare un telegramma ad Outlook? Lui di sicuro saprà come contattare Sabo.»
Si tenne per sé il pensiero che potevano anche non essere buone notizie, o non essercene affatto visto il caos che ancora regnava in quella nazione, ma era anche possibile che nelle prossime settimane si sarebbero avute notizie circa i caduti e i sopravvissuti, sperando che la situazione si stabilizzasse a sufficienza.
Sul telegramma c'era il nuovo indirizzo della famiglia Outlook: Sabo era l'unico con cui andavano veramente d'accordo, però non c'erano altre alternative. «Sì, proviamo a mandargli un telegramma.»
 
 
Boston, 9 Luglio
 
La risposta arrivò oltre due settimane dopo, sotto forma di una lettera. Il mittente non era segnalato, se non un generico “famiglia Outlook”. Il fatto che fosse passato così tanto tempo poteva indicare sia una notizia positiva sia una notizia negativa. Forse avevano impiegato tempo anche loro a ricevere comunicazioni dalla Francia.
Ace era comunque grato che gli avessero risposto, anche se magari solo per Garp e non per loro. Il suo senso di gratitudine crollò immediatamente quando capì che quella lettera l'aveva scritta Stelly in persona e non certo per bontà di cuore. Come la lettera di Sabo, l'aveva trovata Rufy che ora aspettava impaziente che gli venisse letta, ma Ace non lo fece. Non poteva.
 
È bello vedere che voi due vi ricordate della mia esistenza solo quando avete bisogno di qualcosa o solo quando volete tormentarmi. Ma sarò buono e vi darò le informazioni che bramate tanto: mio fratello è morto. Morto, avete capito bene, defunto, deceduto, addio. Ha cercato di fare l'eroe, l'ingrato. Non ha dato ascolto a papà e s'è fatto ammazzare come un cane sotto un bombardamento. Degna fine, se volete la mia opinione. A quanto pare non è rimasto nemmeno un cadavere, l'incendio di Rouen ha cancellato tutto.
Non abbiamo nemmeno fatto il funerale, a cosa sarebbe servito? Non abbiamo tempo di guardarci indietro, con questo nuovo paese tutto da conquistare. La Francia non è più viva di mio fratello.
Passatemi a trovare, quando volete; purtroppo la camera di Sabo è già stata adibita a mio studio personale, ma vi troveremo sicuramente un'altra sistemazione.
 
«Che cosa dice, allora?» Rufy lo scrollò un attimo, liberandolo dal suo stato di trance.
Gli occhi di Ace bruciavano, ma non voleva piangere. Sapeva perché Stelly aveva scritto la lettera, e perché l'aveva fatto a quel modo e non voleva dargli soddisfazione, nemmeno a distanza. Comunque sia, ciò che c'era scritto sarebbe bastato a distruggerlo in ogni caso.
«Allora?» insistette Rufy. Stava diventando ansioso.
Ace scosse la testa. «Mi dispiace.» Non riusciva a dirlo. Non aveva il coraggio di dare quella notizia a suo fratello. «È la guerra...» mormorò. L'aveva sentito dire tante volte, come giustificazione per tutto, ma al momento aveva solo voglia di mettersi a gridare.
Rufy capì. Non era sempre così intuitivo, ma era bravo a leggere le espressioni degli altri e probabilmente lesse la sua disperazione. Al contrario di lui, non si trattenne: le lacrime uscirono immediatamente copiose e lui cadde sulle sue ginocchia, gridando. «Non è vero! Non è vero!»
«Mi dispiace...» Ace non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto abbracciarlo, consolarlo, ma provava una così grande rabbia dentro che non si sentiva in grado di fare nemmeno una cosa così semplice. Rimase semplicemente fermo, con la mano che serrava la lettera come gli artigli di un'aquila.
Makino uscì dalla cucina e fissò i due ragazzi: ormai li conosceva così bene, li aveva visti crescere, che sapeva esattamente che cosa poteva provocare una simile crisi. Non disse nulla, semplicemente si chinò di fronte a Rufy e lo abbracciò, lasciando che nascondesse la testa contro il suo petto.
«Io esco.» Di sicuro quello non bastava ad indicare quando grato Ace fosse di poter contare su di lei in quel frangente: lui aveva bisogno di sfogarsi, ma non avrebbe potuto farlo sapendo che suo fratello aveva bisogno di lui. Adesso poteva andarsene senza sentirsi in colpa.
In realtà, si sentiva comunque in colpa. Le ultime parole di Sabo erano riferite al suo compito di proteggere Rufy e stava venendo meno ai suoi doveri. Avrebbe rimediato. Prima, però, si prese la soddisfazione di bruciare la lettera di Stelly fino a vederla ridurre in cenere. Poi tornò all'ufficio postale e inviò un telegramma in cui accusava il suddetto di aver mentito e che non credeva ad una parola di quello che gli aveva detto. Il tono fu decisamente più colorito, quasi da sconvolgere l'addetto dell'ufficio postale che dovette domandargli più volte se fosse sicuro di voler spedire una comunicazione del genere.
Quando tornò a casa, si sentì decisamente sollevato. Vide Makino uscire dalla camera di Rufy e fargli segno di silenzio con il dito sulla bocca. «Sono riuscita a convincerlo a riposarsi.»
«Grazie.» Annuì e entrò in camera sua. In realtà sperava di poter raccontare al fratello della sua bravata all'ufficio postale, ma ripensandoci era meglio che dormisse, così non avrebbe pensato per un po' alla situazione. Forse avrebbe dovuto provarci anche lui, ma quando si sdraiò vide bene che non era possibile, aveva gli occhi spalancati e attivi.
Allora si alzò, aprì l'armadio ed estrasse una scatola. All'interno c'erano tutte le lettere che lui e Sabo si erano scambiati in quegli anni, ordinate accuratamente per anno e mese. Per il 1940 ce n'erano solamente tre, più quella spiegazzata che avevano ricevuto come una sorta di ultime volontà.
E poi c'erano le fotografie, tutte quelle che Sabo aveva scattato quando non erano assieme e che trovava meritevole di mostrargli. Raffiguravano una Parigi ed una Francia pacifiche e piene di vita, come se le ricordava e come probabilmente non erano più.
In fondo alla scatola, c'era una fotografia scattata da Ace in persona. Una delle prime con la Leica che Sabo gli aveva regalato, una seria, non le stupidaggini di quando facevano gli scherzi a Stelly.
Si ricordava la giornata in cui l'aveva scattata. Sabo era sulla riva della Senna, a cercare di attirare i cigni vicino con della mollica del pane. Ace era dietro di lui, ma leggermente spostato per poter avere una visuale migliore del fiume durante lo scatto.
Poi un cigno si era avvicinato davvero ed aveva morso la mano di Sabo nel tentativo di sottrargli il cibo. “Spero che tu abbia fatto una foto come si deve!” aveva esclamato seccato, agitando la mano per far cessare il dolore. Poi si era voltato e gli aveva sorriso e in quel momento esatto Ace aveva premuto il pulsante.
E così gli era rimasto quel ricordo, di Sabo bambino seduto sull'erba di Parigi che gli sorrideva. E si rese conto che non l'avrebbe più visto sorridere così e che quella foto sarebbe rimasta come simbolo di un periodo che era stato strappato via.
Gli occhi gli dolevano, tanto aveva trattenuto le lacrime, ma non ce la faceva più. Da solo in camera sua, non aveva bisogno di mostrarsi forte di fronte a nessuno. Si chinò all'indietro appoggiando la schiena al letto e lasciò che il suo corpo gli dicesse quando aveva bisogno di sfogarsi.
Le lacrime scorrevano lungo le guance, gocciolando sulla camicia, ma lui non alzò mai la mano per asciugarsele. Solo quando gli fu quasi impossibile respirare per via del muco che gli ostruiva il naso e la gola fu troppo impastata, si alzò. Andò in bagno e si asciugò, poi scese in cucina a bere un bicchiere d'acqua. Makino probabilmente notò i suoi occhi rossi, ma non disse nulla.
«Esco, torno fra poco» le disse. Per la seconda volta nella giornata, si recò all'ufficio postale.
Questa volta, però, non era una lettera d'insulti per sfogarsi, ma una decisione che aveva maturato per onorare la volontà del fratello, a cui non aveva potuto dare nemmeno un ultimo saluto.
 

 
Boston, 29 Luglio
 
Rufy si era impuntato a guardare il suo piatto. Ace era semplicemente annoiato dall'intero incidente che si stava svolgendo di fronte a lui, perché se c'era una cosa che non sopportava erano le ramanzine del nonno, anche quando non erano rivolte a lui, e soprattutto durante i pasti. Gli rovinavano la digestione.
«Ho parlato col preside» esordì Garp, con tono truce. «Dato che i testimoni hanno parlato di una rissa vera e propria, probabilmente avrai solo una sanzione disciplinare. Tuttavia...» E alzò il dito, pronto ad iniziare una filippica sul fatto che non era quello il tipo di comportamento che si aspettava da un futuro marine e roba simile.
Ace decise di anticiparlo. «Quel tipo ha detto che gli americani si dovrebbero arruolare nella Wehrmacht, secondo me Rufy ha fatto solo bene a picchiarlo.»
«Non ti ci mettere anche tu!» Era fuori dalla sua portata, seduto dall'altra parte del tavolo per poterlo colpire con uno dei suoi famosi pugni. Ace avrebbe parlato comunque, ma era felice di essersela scampata.
«Perché avrebbe detto una cosa del genere?» Makino, che cenava con loro, intervenne nel tentativo di sviare la conversazione su qualcosa che accomunava la famiglia: l'odio per i tedeschi. Funzionò.
«La sconfitta della Francia ha fatto credere che la vittoria di Hitler sia ormai imminente e l'unico baluardo per sconfiggere la Russia bolscevica» spiegò Garp. «Sono in parecchi a pensarla così, anche se non la maggioranza.»
«Scommetto che parlano senza sapere le cose» sbottò Ace. «Rufy ha dovuto inculcargli un po' di buon senso a suon di pugni.»
«Per te è solo perché Sabo è morto.» Garp era tornato sul filone iniziale della ramanzina per la rissa che Rufy aveva scatenato a scuola, ma l'aveva fatto nel peggiore dei modi. Nominare Sabo non era mai una buona idea per mettere i due fratelli in una buona disposizione d'animo. «Se non fosse successo, a nessuno di voi sarebbe importato dei tedeschi. Invece, quando sarete in marina...»
«Sabo non è morto.» Rufy aveva aspettato di terminare il piatto prima di interromperlo con la sua convinzione. Dato che gli altri tre lo fissarono stupiti, aggiunse: «Insomma, laggiù c'è un gran casino, no? Come fanno ad esserne sicuri? Secondo me potrebbero benissimo essersi sbagliati, Sabo non si farebbe ammazzare così».
Ace lo guardò. Adesso capiva perché negli ultimi tempi era tornato ad essere allegro come sempre e in un certo senso invidiava quella fiducia e quell'ottimismo che lo contraddistinguevano. Rimase incerto sul da farsi: forse era meglio lasciargli quell'illusione, se serviva a farlo vivere più tranquillo. Poi però pensò che doveva conoscere la verità e andare avanti con quella.
«Sono sicuri» affermò. «Stelly mi ha mandato il telegramma che gli è arrivato direttamente dal Governo di Vichy. Una cosa seria.»
«No, non l'ha fatto» replicò Rufy. «Non c'era con il telegramma che hai letto con me.»
«Ne ha mandato un altro.» Ace sospirò. «Suppongo che non gli abbia fatto piacere che gli abbia dato del bugiardo. O forse non gli è piaciuto come gli ho dato del bugiardo.» Garp alzò un sopracciglio: Ace poteva essere decisamente colorito, a volte, e si chiese se convenisse chiedergli di più per poi andare a parlare con Outlook, oppure ignorare l'intero incidente.
«Voglio vederlo» affermò Rufy. Era offeso che Ace gli avesse nascosto un'informazione così essenziale.
«Fa' pure. È in camera mia, nel primo cassetto della scrivania.» Ace non fece alcun segno di alzarsi, non ci teneva a riprendere in mano quel telegramma. Non aveva avuto il coraggio di buttarlo, ma meno lo vedeva meglio era. Rufy balzò in piedi quasi rovesciando la sedia dietro di lui, salì le scale in fretta e si sentirono i passi sul soffitto, poi quelli che scendevano, più affrettati di quelli precedenti tanto da farli assomigliare ad una mandria di elefanti.
«Cos'è questo?» esalò, fermo sulla porta della cucina.
«Impara il francese come si deve, una buona volta» sospirò seccato Ace, quindi si voltò con l'intenzione di tradurglielo. Ma Rufy non aveva in mano il telegramma di Sabo. «Oh.» Non aveva previsto che lo scoprisse in quella maniera. «È la risposta alla mia domanda di leva.»
Gli altri tre rimasero senza fiato per la notizia inaspettata.
«Dove hai fatto domanda?» abbaiò Garp, che ovviamente era sempre stato certo che i suoi nipoti si sarebbero arruolati in marina sotto il suo comando.
«Nell'esercito. Parto per Fort Jackson tra una settimana.»
«Traditore! E poi Fort Jackson è chiuso da anni.»
«L'hanno riaperto di recente. Sai che hanno rimesso in atto la leva obbligatoria di un anno, no? Per via della guerra di Europa.»
«Quando hai fatto domanda?» Rufy si era seduto al tavolo: pareva più calmo, adesso, e fra i tre era l'unico che sembrava cercare di comprenderlo.
«Quando è arrivato il telegramma di Stelly» rispose Ace. Guardò il fratello ed ebbe la certezza non solo che capiva la sua decisione, ma l'approvava. Makino, dopo quell'affermazione, sembrava essere solidale, anche se l'espressione tradiva un po' d'apprensione. Garp era l'unico ancora irritato dalla questione.
«Bah! E che cosa pensi di fare?»
«Prendere i tedeschi a calci in culo.»
   
 
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