Cara
Annie …
Stava
piovendo di nuovo.
Era
dall'inizio del mese che non faceva altro che
piovere, quasi a voler drammatizzare il mio stato d'animo, tutt'altro
che gioioso.
Quelli che mi lasciavo alle spalle erano stati senza dubbio i mesi
più
difficili della mia vita, talmente tante rinunce ero stato costretto a
fare.
Insomma, non è da tutti scoprire di avere una figlia ormai
ventenne di cui fino
al giorno prima non sospettavi neanche lontanamente l'esistenza.
Figuriamoci,
poi, sapere che è incinta, e che da lì a pochi
mesi diventerai nonno.
Non
è da tutti, appunto.
Tenere
nascosta al mondo intero la mia
paternità, poi,
era stata decisamente la
scelta più ardua che avessi mai fatto: persino il mio
migliore amico era
all'oscuro di tutto. Ma tanto meglio così; Annie aveva
bisogno di un padre che
fosse all'altezza delle sue aspettative. Annie
... Nessuno saprà mai l'incommensurabile gioia che
ho provato quando ho sentito
il suo nome, prima ancora di conoscerla. Ne parlavano Cameron e Chase
in
corridoio, ringraziando il cielo di essere riusciti ad arrestare la sua
copiosa
epistassi. In pochi sapevano che quello era il nome della mia
amatissima nonna
materna: Anna Bernheim,
si chiamava, Anna
Rose Bernheim. Per gli amici, Annie.
Israeliana, ma questo poco importa. Ricordavo ancora con affetto e
tenerezza i
suoi drammatici racconti sulla Prima Guerra Mondiale, così
colmi di pathos da
fare invidia al miglior scrittore di best seller. E ricordavo bene
anche la
sera in cui, tra un bicchiere di vino bianco e l'altro, avevo parlato
di lei a
Kate, triste per la morte della madre, descrivendola letteralmente come
"una forza della natura",
piena di gioia di vivere nonostante tutte le tragedie che aveva dovuto
affrontare. "Esattamente come mia
mamma", era stata la sua risposta. Ed era la
verità. Samantha, la
madre di Kate, era una
delle persone migliori che avessi mai conosciuto in vita mia:
così energica e
caparbia, capace di ridere (e far ridere) persino durante le
interminabili
sedute di chemio. Se per caso qualcuno le faceva notare questa sua
invidiabile
dote, ammirandola per il modo in cui affrontava la terapia, lei
rispondeva: "Dopo Auschwitz, ogni singola
giornata
di sole per me é una vittoria". Era per questo, mi
dissi, che Kate
aveva deciso di dare a sua figlia due nomi: Annie,
come mia nonna, e Samantha, come
sua
madre. Annie Samantha Cohen.
L'avevo
letto sulla sua cartella clinica.
Guardai
nuovamente fuori dalla finestra: aveva
smesso di piovere. All'ingresso dell'ospedale, centinaia di palloncini
rosa
catturavano l'attenzione dei passanti, trascinati da un ragazzo sui
trent'anni.
Andrew aveva davvero esagerato, pensai. Non gli avrebbero mai
consentito di
entrare in reparto con tutta quella roba. Mentre lo osservavo, intento
a
districarsi fra le auto parcheggiate, non potei fare a meno di provare
invidia
per lui: a breve avrebbe tenuto in braccio, per la prima volta, sua
figlia.
Mentre io me ne stavo lì, solo,
nel
mio studio, intento a rimuginare sul passato, senza che Annie neppure
sospettasse quale fosse il mio più grande desiderio.
Né tanto meno che fossi
suo padre. Il suo vero padre.
Sapere
che era nata una bambina e che lei aveva deciso di darle il nome di sua
madre
mi aveva però reso fiero; era evidente che Kate avesse fatto
un buon lavoro con
nostra figlia.
Kate
... Il solo pronunciare
mentalmente il suo nome mi faceva rabbrividire. Ripensai alla prima
volta che
l'avevo vista, insieme a Gary: era semplicemente bellissima. La sua era
la
classica bellezza di chi non sa di possederla, un misto tra bellezza e
timidezza. Parlarle, poi, se possibile, mi aveva fatto letteralmente
innamorare
di lei, sin dalle presentazioni. Ma il nostro era un amore proibito,
che per
questo rimase a lungo platonico: ancora custodisco gelosamente le
lettere che
ci scambiammo, centinaia e centinaia,
prima di trovare il coraggio di confessarci ciò
che provavamo l'uno per
l'altra. Fino a quella notte. La notte.
La notte delle notti: quella in cui ci lasciammo andare, finalmente,
concependo
Annie.
Mi
venne un'idea: ero certo che non avrei mai
svelato a mia figlia la verità, ma avrei potuto scriverle
una lettera. Presi
carta e penna ed iniziai a comporre.
"Cara
Annie,
ciao.
Forse non sai nemmeno chi io sia né perché ti
stia scrivendo questa lettera. Poco male: dalla brutta ed indecifrabile
scrittura avrai
capito che sono un
medico. Io e te non ci siamo mai realmente conosciuti, ma so comunque
di averti
salvato la vita, in almeno un'occasione, e questo mi é
sufficiente. Beh, se non
l'hai capito fin qui ...
Sono
tuo padre.
Già,
il tuo vero padre, o
padre biologico, se preferisci.
Mi
ricordi incredibilmente tua madre, me l'hai
ricordata sin dal primo momento che ti ho vista, al pronto soccorso.
Caparbia,
decisa, ma allo stesso tempo fragile come nessun altra ... E, ti
farà piacere
saperlo, anche tua nonna era così. Tu porti il suo nome, e
questo, più di
qualsiasi altra prova del DNA, mi ha fatto capire, anzi, mi ha dato la
certezza, di essere tuo padre. Ti auguro tutto il bene di questo mondo,
figlia
mia. Non potrai mai sapere quanto ti voglio bene, pur senza averti mai
potuta
conoscere veramente.
E,
sono sicuro, non leggerai mai questa lettera,
che custodirò gelosamente, insieme alla corrispondenza tra
me e tua madre Kate.
Tuo,
J.E.W.".
Arrotolai
la lettera e la misi nel cassetto,
consapevole che da lì non sarebbe mai uscita.
Bussarono
alla porta.
<<
Wilson,
pranziamo? >>.
Era
House.
Guardai
nuovamente fuori dalla finestra: un timido
sole faceva capolino dietro le nuvole.
Presi
la giacca e lo raggiunsi: come diceva Samantha,
"ogni singola giornata di sole
é una
vittoria".