59 Cavaliere OMRI Daiki Asuka
«Perché
piangi?».
«No,
davvero… Non è nulla».
Erano
in un angolino dei giardini del Quirinale, nel bel mezzo di una passeggiata
amena. Non era orario di visita, ma un valletto vestito da pinguino aveva
insistito, al termine della cerimonia di conferimento del Cavalierato, perché
il ragazzo e la sua accompagnatrice se andassero un po’ a zonzo da soli nel
giardino all’italiana dove avevano scorazzato i papi allo stato brado fino ai
tempi di Pio IX. Non si trattò di cortesia: in realtà il valletto regalò quel
momento di visita esclusiva ai due ragazzi per sottrarre Asuka dai microfoni
dei giornalisti, il cui tatto sarebbe sicuramente scemato all’esterno del
palazzo del Quirinale. Dopo la bomba sganciata dal Presidente in persona, ora
spettava al suo staff e al suo fidatissimo Ufficio Stampa “sgonfiare” quella
deflagrazione mediatica, prima che soubrette partenopee prive di tesserini di
ordini professionali se la divorassero lautamente.
«Stai
piangendo, Meimi».
Era
un ragazzo, aveva sedici anni. Sebbene detective era un ragazzo, dunque
completamente ignorante di logiche mentali femminili. Ma quella situazione era
fin troppo evidente, persino per un sociopatico borderline come lui. Meimi era
indubbiamente in lacrime. Al termine della celebrazione si era spinta verso di
lui, l’aveva abbracciato poco nipponicamente e si era congratulata moltissimo.
«Ma,
in realtà, anche Saint Tail», aveva detto sottovoce. Meimi pareva non avesse
sentito nulla. Ora era in lacrime.
Asuka
comprendeva la psicologia femminile allo stesso modo con cui padroneggiava la
filologia ebraica. Provò a decifrare le origini di quelle lacrime.
Ormoni.
Cose femminili periodiche che un po’ gli faceva schifo pensarci. Ormoni di
nuovo. O forse era perché lui si era preso tutta la gloria personalmente mentre
lei se ne restava nascosta tra le ultime file? Ma non era da Meimi. Umanamente
non poteva proprio capire che diamine fosse successo.
Il
valletto di prima li raggiunse, quasi di corsa. In mano aveva un cuscino, con
una lettera sopra. Meimi si girò dandogli le spalle, per non far vedere quegli
occhi arrossati.
«È
per lei, signor Daiki Asuka, da parte del Presidente». Non appena il ragazzo
toccò la busta il valletto si allontanò velocemente. L’anziano inserviente era
abituato a scappare subito, appena dopo aver recapitato i messaggi, una dote
che aveva affinato negli anni ’80 durante la presidenza Cossiga, quando recava
all’inquilino del Colle i dispacci di Craxi, per non rischiare in prima persona
di conoscere alla lettera la fama del picconatore sardo.
Asuka
aprì la busta. Un foglio di carta, scritto a penna. “Gentilissimo Daiki, porta
questa medaglia alla nostra comune amica”. Firmato, Giorgio Napolitano. Dentro
la busta, una medaglietta a forma di croce, con un cerchio al centro e lo
stemma della repubblica, collegato a un nastrino verde con due lunghe linee
rosse. Del tutto uguale alla medaglia che da una quindicina minuti dondolava
dalla parte sinistra della sua giacca.
«È
per te, Meimi…». Sorrideva. La ragazza lo guardò smarrita, poi, proruppe in
lacrime e lo abbracciò di scatto, quasi con violenza. La stampella cadde per
terra.
«Che
c’è, cara?». Ribattè stupito. Ed era stupito più che altro per quel “cara” che
gli era uscito di bocca. Così distante dai “cara” delle barzellette della
famigliola borghese nella quale in realtà si odiano, con una dolcezza che non
si sognava nemmeno lontanamente l’aggettivo “cara” potesse colorarsi.
La
ragazza singhiozzò sulla sua spalla, e con la mano si artigliò alla sua giacca.
«Non
ce la posso fare… Asuka…». Piangeva.
«Tu
che non ce la fai? Non dire sciocchezze». Sorrise. L’abbraccio si staccò. Asuka
riuscì, con una manovra da Circo Togni, a recuperare la stampella senza
slogarsi il gomito e senza spaccarsi il ginocchio restante.
«Saint
Tail. Quello lì», disse, riferendosi al presidente della Repubblica, «quello
lì… crede che Saint Tail sia una specie di superdonna onnipotente, senza punti
deboli». Gesticolava. «Non ha vissuto la notte che abbiamo vissuto noi a
Seika». Si fece seria. «Asuka», gli afferrò la mano libera dalla stampella,
«pensavo che saremmo morti». Ancora lacrime. «Ero debole. Ce l’abbiamo fatta
per caso. Rischiavo di ucciderti». Pianse ancora, schiacciata dai sensi di
colpa, come se fosse stata lei a rapire la contessa, a uccidere il Vescovo, a
ferire Asuka.
«Ma
ce l’abbiamo fatta». Ora era lui a rincuorarla. «Ce l’hai fatta, Saint Tail!».
Meimi considerò normale che la stesse chiamando così.
«NO
CHE NON CE L’HO FATTA!». Ringhiò. «LORO SONO MORTI», urlava. «CREDI CHE SIA
SCEMA? CREDI NON LO SAPPIA? SO BENISSIMO CHE RESTERAI ZOPPO A VITA!». Asuka
abbassò gli occhi. «SÌ, ZOPPO! LI HO SENTITI I DOTTORI. HO SENTITO CHE
PARLAVANO».
«Mi
opereranno tra poche settimane al ginocchio. Sai, la clinica è famosa: lì si
operano gli sportivi…». Provò a calmarla, sorridendo.
Ma
lei non volle sentire ragioni: «L’OPERAZIONE TI AIUTERA’ UN PO’, MA NON SARAI
PIU’ COME PRIMA, MAI PIU’…. E LA COLPA E’ MIA, SOLO MIA…». Non piangeva così dal
quel venerdì notte di Seika. Si chinò e cadde a terra.
Asuka
avrebbe potuto dire tante cose. Avrebbe potuto contraddirla, spiegarle che –
pur tenendoci comprensibilmente alla stabilità delle sue rotule – avrebbe dato
entrambe le ginocchia e anche altre parti più triviali del suo corpo per averla
vicino. Soprattutto, avrebbe potuto dire soprattutto che era stata lei a
salvarlo. Preferì dirle altro, raccontare – a lei per prima – quello che gli
frullava in testa.
«Farò
il profiler».
Meimi
alzò la testa. Non aveva capito bene.
«Farò
il profiler», ripetè. Per la verità, tentennando un po’ di più rispetto a
prima.
«Cosa?».
Una lacrima le scendeva ancora dalla guancia.
«L’ho
deciso in queste settimane. Lo pensavo da parecchio, ma quest’esperienza me
l’ha fatto capire davvero». Ora era più sicuro. Sorrideva. «Tu me l’hai fatto
capire».
«Non
ho capito cosa intendi».
«Un
profiler è un poliziotto, un detective, un privato il cui scopo è trovare i
criminali capendone la mente. Non cerca gli indizi, non va in giro per le
strade a interrogare criminali dei bassifondi. Si immerge nella mente dei
peggiori e cerca di capirne le motivazioni che li spingono. Solo in questo modo
ha speranze di catturarli».
Meimi
era come incantata. Aveva capito subito, benissimo, come se la cosa più
naturale del mondo, il motivo di quella scelta. Così complicata, ma così
dannatamente naturale. Asuka voleva capire il perché di quella notte. Perché di
quel sangue. Forse le cose, se vengono spiegate, fanno meno male.
«Dovrai
studiare?». Lo guardava con occhi gonfi di lacrime, ma anche di ammirazione.
«Sì.
Psicologia criminale. C’è gente che lo fa come consulente privato. Io voglio
però restare in polizia. Certamente, se ci riesco», abbassò gli occhi, «sarà un
lavoro molto diverso da mio padre. Lui se ne sta a Seika, ma io potrei girare
tutto il Giappone». Stette in silenzio un po’. «Si può dire che il primo oggetto
sia stata proprio tu».
Meimi
arrossì. Ma poi capì di essere stata messa come prima di una lista che avrebbe
compreso assassini, pedofili, stupratori, rapitori seriali e sceneggiatori di
fiction Rai. Ma non fece in tempo ad arrabbiarsi.
«È
entrando nella tua testa che mi sono innamorato di te». Le lacrime scomparvero.
Qualche istante di pura estasi, senza un bacio, senza una carezza, senza un
gesto. Solo uno sguardo. Ma dal presente di estasi Meimi tornò al ricordo del
dolore passato. Vero dolore anche nel presente.
«Ma
perché vuoi passare la vita inseguendo dei mostri? Dopo quello che ti ha
fatto…» Meimi non era una profiler, ma Asuka lo leggeva come se fosse l’abc.
«Quella
notte sono sceso all’inferno. Ma poi sono risalito in paradiso. Se tu sarai con
me, per quanto potrò scendere in basso, avrò sempre qualcuno che mi tirerà su».
In effetti la frase se l’era preparata, da settimane, ma pianse lo stesso. Ma
erano poche lacrime miste a sorrisi. Non dissero altro. E Meimi si tuffò nel
cuore di quel suo ragazzo. E capiva che tutta la vita che gli restava di fronte
non sarebbe stata altro che un’ulteriore riedizione di quella lunga notte. Una
continua liturgia di dolore, di bassezza, di esemplari di umanità decaduta.
Sarebbe sceso come uno speleologo nelle cavità più oscure della mente e
dell’animo umano. Avrebbe cercato di dare un po’ di sollievo alle ferite per
curarle come poteva, e lo avrebbe fatto in virtù della sua ostinazione, e lo
avrebbe fatto con le sue cicatrici, e lo avrebbe fatto perché lei era con lui.
La frittata era fatta, per sempre. Ormai, nella sua testa di sedicenne, il
dolore più forte e la beatitudine più pura si erano mescolati insieme, come lo
Ying e Yang. Persino nell’arrestare il peggiore dei serial killer la sua mente
gli avrebbe ricordato che dall’altra parte del libro dei casi umani esisteva
pure il buono, il bello, il santo. E che una parte di quel buono, bello e santo
lo aspettava a casa, sempre con la sua treccia pettinata in quel certo modo lì,
quella insana passione per la tv spazzatura, la bravura nei trucchi magici e
quella cleptomania occasionale a fin di bene.
Meimi
lo abbracciò forte. Certo. Un 89enne rugoso e saggio come Yoda di Guerre
Stellari aveva fatto tornare a galla quel suo problema con Saint Tail. Che fare
di lei? Ma ora il mondo pareva un po’ più equilibrato. Ad interrompere
l’idillio non ci pensò né il valletto di prima né un rumoroso gruppo di ragazzi
italiani poco distante. Fu il cellulare della ragazza, che vibrò forte nella
sua borsetta.
«Scusami».
Lo aprì. Asuka notò che spalancò gli occhi vedendo il display. Poi, la ragazza
parve assumere una postura più dritta e compunta.
«Sì,
salve. Certo… Qui tutto bene», stava sull’attenti, «sì, la cerimonia è appena
finita. Sì, ha nominato anche lei, non ci potevo credere. Davvero. Ma».
Improvvisamente spalancò di nuovo gli occhi e fissò Asuka, quasi smarrita. Il
rossore delle lacrime lasciò spazio a un pallore inumano. «Come? Ma davvero?
Oggi. Ma… Sì. Certo, ma… Io non… Sì, sicuramete. Certamente. Subito? Va bene.
Certo. A dopo».
Meimi
fissò di nuovo Asuka, con una faccia che non le aveva mai visto fare.
«Che
c’è?»
«Lui
mi vuole vedere».