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Autore: Andrewthelord    14/02/2015    0 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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59 Cavaliere OMRI Daiki Asuka

«Perché piangi?».

«No, davvero… Non è nulla».

Erano in un angolino dei giardini del Quirinale, nel bel mezzo di una passeggiata amena. Non era orario di visita, ma un valletto vestito da pinguino aveva insistito, al termine della cerimonia di conferimento del Cavalierato, perché il ragazzo e la sua accompagnatrice se andassero un po’ a zonzo da soli nel giardino all’italiana dove avevano scorazzato i papi allo stato brado fino ai tempi di Pio IX. Non si trattò di cortesia: in realtà il valletto regalò quel momento di visita esclusiva ai due ragazzi per sottrarre Asuka dai microfoni dei giornalisti, il cui tatto sarebbe sicuramente scemato all’esterno del palazzo del Quirinale. Dopo la bomba sganciata dal Presidente in persona, ora spettava al suo staff e al suo fidatissimo Ufficio Stampa “sgonfiare” quella deflagrazione mediatica, prima che soubrette partenopee prive di tesserini di ordini professionali se la divorassero lautamente.

«Stai piangendo, Meimi».

Era un ragazzo, aveva sedici anni. Sebbene detective era un ragazzo, dunque completamente ignorante di logiche mentali femminili. Ma quella situazione era fin troppo evidente, persino per un sociopatico borderline come lui. Meimi era indubbiamente in lacrime. Al termine della celebrazione si era spinta verso di lui, l’aveva abbracciato poco nipponicamente e si era congratulata moltissimo.

«Ma, in realtà, anche Saint Tail», aveva detto sottovoce. Meimi pareva non avesse sentito nulla. Ora era in lacrime.

Asuka comprendeva la psicologia femminile allo stesso modo con cui padroneggiava la filologia ebraica. Provò a decifrare le origini di quelle lacrime.

Ormoni. Cose femminili periodiche che un po’ gli faceva schifo pensarci. Ormoni di nuovo. O forse era perché lui si era preso tutta la gloria personalmente mentre lei se ne restava nascosta tra le ultime file? Ma non era da Meimi. Umanamente non poteva proprio capire che diamine fosse successo.

Il valletto di prima li raggiunse, quasi di corsa. In mano aveva un cuscino, con una lettera sopra. Meimi si girò dandogli le spalle, per non far vedere quegli occhi arrossati.

«È per lei, signor Daiki Asuka, da parte del Presidente». Non appena il ragazzo toccò la busta il valletto si allontanò velocemente. L’anziano inserviente era abituato a scappare subito, appena dopo aver recapitato i messaggi, una dote che aveva affinato negli anni ’80 durante la presidenza Cossiga, quando recava all’inquilino del Colle i dispacci di Craxi, per non rischiare in prima persona di conoscere alla lettera la fama del picconatore sardo.

Asuka aprì la busta. Un foglio di carta, scritto a penna. “Gentilissimo Daiki, porta questa medaglia alla nostra comune amica”. Firmato, Giorgio Napolitano. Dentro la busta, una medaglietta a forma di croce, con un cerchio al centro e lo stemma della repubblica, collegato a un nastrino verde con due lunghe linee rosse. Del tutto uguale alla medaglia che da una quindicina minuti dondolava dalla parte sinistra della sua giacca.

«È per te, Meimi…». Sorrideva. La ragazza lo guardò smarrita, poi, proruppe in lacrime e lo abbracciò di scatto, quasi con violenza. La stampella cadde per terra.

«Che c’è, cara?». Ribattè stupito. Ed era stupito più che altro per quel “cara” che gli era uscito di bocca. Così distante dai “cara” delle barzellette della famigliola borghese nella quale in realtà si odiano, con una dolcezza che non si sognava nemmeno lontanamente l’aggettivo “cara” potesse colorarsi.

La ragazza singhiozzò sulla sua spalla, e con la mano si artigliò alla sua giacca.

«Non ce la posso fare… Asuka…». Piangeva.

«Tu che non ce la fai? Non dire sciocchezze». Sorrise. L’abbraccio si staccò. Asuka riuscì, con una manovra da Circo Togni, a recuperare la stampella senza slogarsi il gomito e senza spaccarsi il ginocchio restante.

«Saint Tail. Quello lì», disse, riferendosi al presidente della Repubblica, «quello lì… crede che Saint Tail sia una specie di superdonna onnipotente, senza punti deboli». Gesticolava. «Non ha vissuto la notte che abbiamo vissuto noi a Seika». Si fece seria. «Asuka», gli afferrò la mano libera dalla stampella, «pensavo che saremmo morti». Ancora lacrime. «Ero debole. Ce l’abbiamo fatta per caso. Rischiavo di ucciderti». Pianse ancora, schiacciata dai sensi di colpa, come se fosse stata lei a rapire la contessa, a uccidere il Vescovo, a ferire Asuka.

«Ma ce l’abbiamo fatta». Ora era lui a rincuorarla. «Ce l’hai fatta, Saint Tail!». Meimi considerò normale che la stesse chiamando così.

«NO CHE NON CE L’HO FATTA!». Ringhiò. «LORO SONO MORTI», urlava. «CREDI CHE SIA SCEMA? CREDI NON LO SAPPIA? SO BENISSIMO CHE RESTERAI ZOPPO A VITA!». Asuka abbassò gli occhi. «SÌ, ZOPPO! LI HO SENTITI I DOTTORI. HO SENTITO CHE PARLAVANO».

«Mi opereranno tra poche settimane al ginocchio. Sai, la clinica è famosa: lì si operano gli sportivi…». Provò a calmarla, sorridendo.

Ma lei non volle sentire ragioni: «L’OPERAZIONE TI AIUTERA’ UN PO’, MA NON SARAI PIU’ COME PRIMA, MAI PIU’…. E LA COLPA E’ MIA, SOLO MIA…». Non piangeva così dal quel venerdì notte di Seika. Si chinò e cadde a terra.

Asuka avrebbe potuto dire tante cose. Avrebbe potuto contraddirla, spiegarle che – pur tenendoci comprensibilmente alla stabilità delle sue rotule – avrebbe dato entrambe le ginocchia e anche altre parti più triviali del suo corpo per averla vicino. Soprattutto, avrebbe potuto dire soprattutto che era stata lei a salvarlo. Preferì dirle altro, raccontare – a lei per prima – quello che gli frullava in testa.

«Farò il profiler».

Meimi alzò la testa. Non aveva capito bene.

«Farò il profiler», ripetè. Per la verità, tentennando un po’ di più rispetto a prima.

«Cosa?». Una lacrima le scendeva ancora dalla guancia.

«L’ho deciso in queste settimane. Lo pensavo da parecchio, ma quest’esperienza me l’ha fatto capire davvero». Ora era più sicuro. Sorrideva. «Tu me l’hai fatto capire».

«Non ho capito cosa intendi».

«Un profiler è un poliziotto, un detective, un privato il cui scopo è trovare i criminali capendone la mente. Non cerca gli indizi, non va in giro per le strade a interrogare criminali dei bassifondi. Si immerge nella mente dei peggiori e cerca di capirne le motivazioni che li spingono. Solo in questo modo ha speranze di catturarli».

Meimi era come incantata. Aveva capito subito, benissimo, come se la cosa più naturale del mondo, il motivo di quella scelta. Così complicata, ma così dannatamente naturale. Asuka voleva capire il perché di quella notte. Perché di quel sangue. Forse le cose, se vengono spiegate, fanno meno male.

«Dovrai studiare?». Lo guardava con occhi gonfi di lacrime, ma anche di ammirazione.

«Sì. Psicologia criminale. C’è gente che lo fa come consulente privato. Io voglio però restare in polizia. Certamente, se ci riesco», abbassò gli occhi, «sarà un lavoro molto diverso da mio padre. Lui se ne sta a Seika, ma io potrei girare tutto il Giappone». Stette in silenzio un po’. «Si può dire che il primo oggetto sia stata proprio tu».

Meimi arrossì. Ma poi capì di essere stata messa come prima di una lista che avrebbe compreso assassini, pedofili, stupratori, rapitori seriali e sceneggiatori di fiction Rai. Ma non fece in tempo ad arrabbiarsi.

«È entrando nella tua testa che mi sono innamorato di te». Le lacrime scomparvero. Qualche istante di pura estasi, senza un bacio, senza una carezza, senza un gesto. Solo uno sguardo. Ma dal presente di estasi Meimi tornò al ricordo del dolore passato. Vero dolore anche nel presente.

«Ma perché vuoi passare la vita inseguendo dei mostri? Dopo quello che ti ha fatto…» Meimi non era una profiler, ma Asuka lo leggeva come se fosse l’abc.

«Quella notte sono sceso all’inferno. Ma poi sono risalito in paradiso. Se tu sarai con me, per quanto potrò scendere in basso, avrò sempre qualcuno che mi tirerà su». In effetti la frase se l’era preparata, da settimane, ma pianse lo stesso. Ma erano poche lacrime miste a sorrisi. Non dissero altro. E Meimi si tuffò nel cuore di quel suo ragazzo. E capiva che tutta la vita che gli restava di fronte non sarebbe stata altro che un’ulteriore riedizione di quella lunga notte. Una continua liturgia di dolore, di bassezza, di esemplari di umanità decaduta. Sarebbe sceso come uno speleologo nelle cavità più oscure della mente e dell’animo umano. Avrebbe cercato di dare un po’ di sollievo alle ferite per curarle come poteva, e lo avrebbe fatto in virtù della sua ostinazione, e lo avrebbe fatto con le sue cicatrici, e lo avrebbe fatto perché lei era con lui. La frittata era fatta, per sempre. Ormai, nella sua testa di sedicenne, il dolore più forte e la beatitudine più pura si erano mescolati insieme, come lo Ying e Yang. Persino nell’arrestare il peggiore dei serial killer la sua mente gli avrebbe ricordato che dall’altra parte del libro dei casi umani esisteva pure il buono, il bello, il santo. E che una parte di quel buono, bello e santo lo aspettava a casa, sempre con la sua treccia pettinata in quel certo modo lì, quella insana passione per la tv spazzatura, la bravura nei trucchi magici e quella cleptomania occasionale a fin di bene.

Meimi lo abbracciò forte. Certo. Un 89enne rugoso e saggio come Yoda di Guerre Stellari aveva fatto tornare a galla quel suo problema con Saint Tail. Che fare di lei? Ma ora il mondo pareva un po’ più equilibrato. Ad interrompere l’idillio non ci pensò né il valletto di prima né un rumoroso gruppo di ragazzi italiani poco distante. Fu il cellulare della ragazza, che vibrò forte nella sua borsetta.

«Scusami». Lo aprì. Asuka notò che spalancò gli occhi vedendo il display. Poi, la ragazza parve assumere una postura più dritta e compunta.

«Sì, salve. Certo… Qui tutto bene», stava sull’attenti, «sì, la cerimonia è appena finita. Sì, ha nominato anche lei, non ci potevo credere. Davvero. Ma». Improvvisamente spalancò di nuovo gli occhi e fissò Asuka, quasi smarrita. Il rossore delle lacrime lasciò spazio a un pallore inumano. «Come? Ma davvero? Oggi. Ma… Sì. Certo, ma… Io non… Sì, sicuramete. Certamente. Subito? Va bene. Certo. A dopo».

Meimi fissò di nuovo Asuka, con una faccia che non le aveva mai visto fare.

«Che c’è?»

«Lui mi vuole vedere».

   
 
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