60 Meimi
Non
aveva bevuto un tè così cattivo in tutta la sua vita. E c’è da sottolineare che
aveva assaggiato quello della signora Otsune, la sua vicina di casa, dal
sinistro retrogusto metallico. Pareva lo diluisse con l’acquaragia, per via di
quella sua maledetta teiera di latta che l’idiota di suo marito aveva saldato
con qualche lega cancerogena vietata dalle associazioni industriali. Questo
però era davvero cattivo. Non c’erano retrogusti strani. Era proprio fatto
male. Le foglie – di bassissima qualità - erano state miscelate da qualcuno che
di tè non s’intendeva minimamente e infilate di cattiveria in bustine
terribili. Un’orribile sotto-marca dell’equosolidale che solo in un ambiente
come quello qualcuno poteva ostinarsi ad acquistare.
Erano
le tre del pomeriggio. Nello stanzone ad “elle”, ricavato chissà come e chissà
in che modo verso l’inizio degli anni ’90, aleggiava per aria un odore di brodo
stantio rimasto dall’ora di pranzo. Una signora con i capelli tinti e la
pettinatura impomatata, con un grembiule azzurro orrendamente macchiato,
passava una spugna su un tavolo in fondo alla sala. Alzò gli occhi verso la
giovane e verso chi era con lei, poi li riabbassò subito. In un angolo, da una
piccola teca refrigerata, facevano capolino delle bottigliette di acqua
minerale, qualche confezione di yogurt di quelli utili alla regolarità e alcuni
vassoi ricolmi di frutta.
L’uomo
seduto di fronte a lei la fissava sorridendo. A differenza della ragazza, lui
il tè non l’aveva ancora toccato. E forse non l’avrebbe mai fatto. Non era uno
sguardo particolarmente penetrante, il suo, uno di quei sguardi inquisitori
capaci di “far sputare il rospo” anche ai più renitenti. Eppure lei si sentiva
completamente nuda. Quegli occhi neri non avevano alcun bisogno di fare breccia
nell’animo della ragazza. E questo, molto semplicemente, perché non c’era più
alcuna difesa in lei.
«Non
ti piace il tè?».
«È
buono», mentì. Lui sorrise. L’esperienza gli faceva cogliere le bugie –
soprattutto quelle pietose – al volo.
«Allora
Meimi. Come sta il vescovo Hikamura?».
«Molto
bene». La ragazza ritrovò subito la parola, e un filo di discorso, al quale si
aggrappò come una naufraga a una cima: «Mi ha chiesto di salutarla e di
chiederle…».
«Ho
chiamato te – la interruppe sorridendo – perché mi interessa quello che fai.
Quello che hai fatto in questi anni e quello che è successo poco tempo fa».
Ogni
strategia di dialogo, pensata a tavolino con un frenetico Hikamura in una
costosissima telefonata intercontinentale, andò a farsi friggere.
«Mons.
Hikamura mi aveva chiesto…». Riprovò, ma si interruppe. L’altro sorrideva.
«Io…», riprovò.
«Il
vescovo Ibakari mi aveva parlato di te…», la incalzò. «… di come ti aveva
incoraggiato, all’inizio».
«All’inizio?».
Sobbalzò.
«Quattro
anni fa. Quando in un istituto cattolico della sua diocesi una ragazzina molto
capace si mise in testa di infrangere qualche regola di troppo – ammiccò – per
fare qualche piccola buona azione».
Alla
faccia della segretezza. Aveva già avuto qualche conferma qualche settimana
prima, ma la realtà è che tutta l’epopea di Saint Tail era “sotto controllo”.
Che qualcuno, dall’alto, vegliava e scrutava.
«Ibakari
– continuò lui – si confrontò con il mio predecessore – sobbalzò di nuovo Meimi
– e lui diede il suo avallo».
«Sapevate…»
osò.
«Sapeva.
Solo lui. Del resto con mons. Ibakari il rapporto era strettissimo. Aveva molto
da farsi perdonare».
«Come
scusi?», osò di nuovo.
«Rifiutare
la berretta da cardinale non è una colpa che qui ci si scorda molto
velocemente», disse con severità il signore vestito di bianco. Ma era una
severità bonacciona, che otteneva in chi lo guardava l’effetto contrario. Il
sorrisone che fece immediatamente dopo – uno dei suoi sorrisoni più tipici –
contribuì a sciogliere le ultime resistenze nella ragazza.
«Comunque,
tornando a noi… Il mio predecessore, e lo stesso Ibakari, mi hanno parlato di
te. Io mi sono rimesso alle decisioni già prese. Anch’io ho lasciato fare allo
Spirito».
«Lo
Spirito?». Domandò lei.
L’uomo
rimase in silenzio. La guardò gravemente e, dopo qualche interminabile istante,
le domandò: «Raccontami tutto». E quanto diceva tutto, probabilmente non intendeva
tutto. Ma qualcosa che vi si avvicinava parecchio.
Meimi
non osò frapporre scudi e – semplicemente, con serenità – lasciò che il ricordo
defluisse. Rivide quella ragazzina di 13 anni goffa e pasticciona,
completamente incapace di trattenere la rabbia data la sua impulsività. Rivide
il primo taglio di capelli della sua amica Seira, il viso rosso incandescente
quando le confidò di essersi innamorata di un tipo un po’ più vecchio di lei,
uno che c’era quando il tempo e lo spazio non erano ancora stati inventati, e
che con Lui voleva passare la vita insieme. Rivide la genesi di una sua
proiezione: una versione di sé stessa completamente priva di difetti, capace di
esibire tutte le sue doti nascoste senza timore di brutte figure o di
contravvenire l’immagine che gli altri ormai avevano di lei. Ma soprattutto, riprovò,
come se fosse la prima volta, quella rabbia tremenda che provava di fronte alle
piccole ingiustizie che avvenivano anche nella pacifica e ideale cittadina pulita
e ordinata di Seika. Ripensò alla prima volta che capì, lucidamente, con
estrema chiarezza, di avere il potere e la volontà di porvi rimedio. Rivide il
sorriso complice di Seira nel candore del suo abito di novizia, che dissolse in
lei ogni dubbio e la convinse a continuare quel suo progetto. Raccontò l’ansia
prima dell’impresa, l’adrenalina dei salti e della corsa, l’onda della
soddisfazione e il consecutivo senso di colpa.
L’uomo
vestito di bianco l’ascoltava rapito. Potevano essere passati cinque o
cinquanta minuti. Era lo stesso. «Stai sorridendo», le disse.
Meimi
si interruppe.
Era
vero.
Non
era stata una bellissima giornata. La cerimonia al Quirinale l’aveva
tramortita. Sentiva come se quelle mura, secoli e secoli di arte papalina,
savoiarda e democristiana pesassero sulla sua testa. Ma ora sorrideva.
«Saint
Tail ha fatto del bene», continuò, cercando di smorzare quel sorriso.
«Tu
hai fatto del bene».
Era
vero anche questo. Ma il problema era un altro.
«Ho
mentito a…».
«A?».
Sorrise il vecchio, che continuò: «Tutto si può risolvere». E sapeva benissimo
che quello scrupolo era già risolto o per lo meno era in avanzata fase di
risoluzione.
La
ragazza arrossì di nuovo.
«Rubare
è sbagliato», continuò ad accusarsi.
L’uomo
ammiccò: «Anche in questi casi?».
EMeimi
levò un forte sospiro. Il problema era davvero un altro. Legalità e giustizia
non erano necessariamente sinonimi. Anzi. Sebbene non l’avrebbe mai ammesso di
fronte ad anima viva, ogni volta che vedeva un prepotente corrotto e malfattore
soffrire per la perdita di un artefatto rubato a qualche poveretto privo di
mezzi, godeva come un riccio. Era di fronte al tipo di “questa economia uccide”.
Doveva inventarsi qualcosa di meglio. Capiva che ogni senso di colpa residuo era
legato a quel gioco di guardie e ladri con Asuka, che da solo poche settimane
si era più o meno risolto. Nonostante tutto, sapeva di avere ancora molto da
farsi perdonare.
«Saint
Tail è troppo grande per me. Io non sono così buona. Io non sono così capace»,
si sfogò, «cos’ho fatto fino ad oggi? Piccole cose. Poco rischio. Ci sono
colleghi di mio padre che sono morti provando trucchi più semplici in teatri
protetti». Non spiegò che suo padre era un mago, non spiegò di che trucchi
stesse parlando, diede tutto per scontato. E fece bene, perché l’uomo stava
ascoltando e dava l’aria di non essersi perso nessun passaggio logico. Anzi,
aveva sul suo comodino, ancora aperti e sparsi dovunque, i faldoni dei dossier
che la riguardavano.
«Sarei
potuta morire. Saremmo – si fermò un istante – potuti morire. Lo ripeto: Saint
Tail è troppo grande per me».
«Cara
Meimi», non ci fu neppure un attimo di silenzio, «pensaci davvero. Perché
esiste questa “Saint Tail”?». La giovane giapponese sospirò ma l’uomo continuò:
«Non stare troppo lì ferma… parla di getto…».
«Perché
così potevo fare quello che ho fatto». Rispose. L’uomo fece un gesto con la
mano quasi a dirle: “Riprova”.
«Per
farmi notare da lui…». Si incendiò in viso. «Anche», concesse il vecchio con
uno sguardo fugace, «ma non solo quello».
«Perché
volevo fare la maga come mio padre da sem…». «No», la interruppe sorridendo il
tipo vestito di bianco.
Un
momento di silenzio. E poi, non mascherò nulla. «Perché è giusto così».
Giusto.
Un termine diverso da giustizia. Radicalmente diverso. Giustizia è quell’ideale
altissimo, raffigurato nei tribunali come la tipa col naso greco bendata che
regge una bilancia. E che, oggettivamente, soppesa coi suoi due piatti ciò che è
giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male.
Giusto
è diverso. Giusto è ciò a cui tu devi obbedire, le regole a cui devi
sottostare, ciò che devi per forza fare perché la tua coscienza – se ce l’hai
ancora – non ti tenga sveglio la notte a roderti il fegato e a trivellare
ulcere nel tuo stomaco. Giusto è cento, mille volte peggio della giustizia.
Perché il “giusto” è di tua stretta e personale competenza. Di giustizia si può
parlare e ci si può vantare. Il “giusto”, avverbio, aggettivo o nome che sia,
può rovinarti i guanti nuovi e farti venire i calli alle mani. Talvolta,
persino, sporcarti di fango le scarpette nuove scamosciate e di sangue i tuoi
vestiti. Del tuo sangue.
«È
giusto». Ripetè il vecchio. «È giusto?». Ripetè di nuovo, con un’intonazione
leggermente interrogativa.
«È
giusto», continuò Meimi, «è giusto perché io devo farlo. Perché se c’è qualcosa
che so di poter fare, e quel qualcosa riguarda delle persone dal cui mio
intervento potrebbero ricevere un giovamento, grande e piccolo che sia, devo
farlo». Sorrise di nuovo. «Ho paura», le mani tremarono, «ho paura. Ancora di
più oggi, che l’asticella si è alzata. Voglio dire, prima rubavo quadri, ora ho
visto dei morti». Sulla parola “morti” la voce le mancò.
«Ma
ce l’hai fatta».
«No».
«Quella
medaglia direbbe il contrario». Tacque.
«Ho
paura di fare peggio. Io non so che debba fare Saint Tail». E quando disse quel
“non so” si accorse che tutto era così chiaro. Una luce enorme l’avrebbe
guidata. Ce l’aveva davanti. Lui l’avrebbe consigliata. Lui, di fronte a cui il
mondo si era fermato. Del resto, l’aveva chiamata lì per quello, no?
I
giornali, le televisioni, i preti, la gente su Facebook l’avevano dipinto come
l’uomo più santo del mondo. Ogni cosa che diceva era giusta, condivisibile,
quotata e trasformata in santini, in meme da condividere sui social media e in
frasi da mettere dentro i discorsi per ammantarli di un valore che magari non
avevano. Non doveva far altro che fare una domanda e come da un jukebox
perfetto sarebbe uscita la strada da seguire.
«Cosa
devo fare di Saint Tail?».
«A
me lo chiedi?». Disse lui, ridendo, e spalacando le braccia. Fu come se
qualcuno gli avesse rubato la sedia su cui si stava per poggiare, rovinando a
terra e spaccandosi la schiena.
«Scusi?».
Interiormente divampava, esteriormente intervenne per esprimere lo sconcerto
nella misura meno maleducata possibile.
«Io
non sono Saint Tail. Tu lo sei». Meimi continuava a non capire, e fece di tutto
perché il suo volto esprimesse lo smarrimento che attraversava.
«Pensaci
bene, ripeto. Pensaci bene. Una ragazzina… Brava... Ma una ragazzina, che si
inventa una cosa così bella».
«Bella?»
spalancò la bocca.
«Bellissima
– continuò – e che fa tutto questo… Cosa devo dire io a una persona così?».
Tacque due secondi. «Vedi, carissima Meimi, tu pensi che io sia qui a darti
delle risposte – fisse, leggendole nel pensiero – e invece sei tu che stai
dando delle risposte a me. Lo Spirito ha milioni di modi di agire, milioni di
modi di parlare, e nel mondo lo fa proprio animando capacità, inventive e
creatività come la tua». Spalancò le braccia, gesticolando, ma reclinò la
schiena sulla sedia quasi a distendersi. La voce scorreva più grave ma più
rilassata. «Africa, America, Asia… Ogni giorno sento di persone che aprono
scuole in posti in cui prima insegnare non si poteva, soprattutto alle ragazze.
Ragazze come te, Meimi. O di uomini coraggiosi che lottano contro le
ingiustizie, contro le fabbriche di povertà e di schiavitù che mettono in
discussione o travolgono persino i diritti più basiliari delle persone. C’è chi
combatte per togliere delle bambine dalle strade dove qualcuno le ha messe per
il mercato della prostituzione… Ho detto io a loro cosa dovevano fare?».
Meimi
spalancò gli occhi. Era ovvio che la risposta fosse no. «No».
«No.
E chi lo ha fatto?». Era una domanda. E non era una domanda retorica.
Meimi
non volle rispondere subito. Perché stava capendo, finalmente. Piano, con i
giusti tempi. Ma stava capendo. E alzò gli occhi di poco, quel tanto che
bastava per vedere da una finestra il riflesso di luce più alto del Cupolone.
«Già.
È Lui che anima le cose più belle di noi. Anche quando non ce ne accorgiamo.
Lui ci dà i mezzi per farlo».
«Dunque…
Io… Cosa…». Non voleva fare una domanda, ma riaggiustare i pensieri. Il vecchio
volle rispondere lo stesso. «Lo saprai tu. Ti sarà più chiaro».
Che
fare? Vestire di nuovo i panni di Saint Tail, ancora? Anche adesso, che la
posta in palio sarebbe stata ancora più grande? Chissà dove la sua coscienza
l’avrebbe condotta. I trucchi di cui disponeva erano mese dopo mese sempre più
potenti.
Un
giorno rubi gioielli per restituirli alla pensionata vicina di casa e il giorno
dopo chissà dove sei… A fermare rapinatori a Tokyo o liberare ostaggi di Boko
Haram in Nigeria.
Discrezione,
inventiva, silenziosità, adattabilità, intelligenza, astuzia, dotazioni
tecniche. Quanto aveva! Quanto avrebbe potuto imparare ancora! Le luci del
tramonto che filtravano dalle finestre sembravano avvolgerla di un alone caldo,
rosso come il fuoco. Si vide allo specchio. Nuda. No, non era smarrita. Non era
mai stata neppure sola, ma ora lo capiva con chiarezza. Era piena di risorse. Qualcuno
gliele aveva date. E sapeva che le avrebbe messe a disposizione di chi la sua
coscienza, di volta in volta, avrebbe deciso.
Non
aveva ottenuto uno straccio di risposta. Non aveva ancora uno straccio di
piano. Era tutto pericolosamente campato in aria, tutto provvisorio, tutto
precario. Non vide nemmeno che strada avrebbe dovuto percorrere. Sapeva però
con certezza che questa strada c’era. Lei doveva solo camminare. Stava già
camminando. L’uomo vestito di bianco si era solo limitato a riempirle la
borraccia in una delle tante pause ristoratrici lungo il percorso.
«Meimi».
Si alzò. La raggiunse. L’abbracciò e le prese le mani. «Grazie!».
Ora
era troppo. Troppo davvero. Ma comprese – con un brivido – che il vecchio non
la stava ringraziando per quello che aveva fatto (a parte il venerdì sera di
Seika, era davvero poca roba, finora), ma per quello che avrebbe fatto in
futuro. Ora accettò sorridendo anche la durissima investitura ricevuta quella
mattina.
«Restiamo
in contatto. Il tuo numero ce l’ho», sorrise.
Meimi
non disse nulla, ma sorrise. Sorrise sfoderando il suo sorriso più bello, e già
che c’era lasciò uscire dai suoi occhi qualche lacrima. Ed erano dolcissime
lacrime di gioia. Avrebbe scalato ogni montagna.
«So
che resterai qui in Italia…»
«Ancora
quindici giorni», disse lei.
«Prima
di ripartire torna a salutarmi… con lui». E sorrise. «Così lo saluto», rise.
Arrossì,
ma non fu un bell’arrossire, di quello che gli esperti delle rotture
controllate dei capillari metterebbero in vetrina all’esposizione universale. Ora
era forte. Un ultimo abbraccio e si diresse, dopo preghiere, saluti e sorrisi
all’esterno.
Diligenti
guardie svizzere si posero sull’attenti. Imboccò l’uscita, verso San Pietro,
passando in mezzo a qualche vescovo indaffarato e a qualche signore distinto
che portava borse gonfie di carte e documenti. Erano meravigliosi, tutti.
Superò l’ultimo sbarramento e fu di nuovo in piazza San Pietro. Pareva l’intera
scenografia messa in piedi dal Bernini le stesse sorridendo. Che fosse stata costruita
perché quel giorno lei l’attraversasse. A sinistra gli scalini per entrare in
Basilica. A destra le poste Vaticane, le toilette, l’entrata per una mostra.
Le
pareva di essere più leggera di milioni di tonnellate. O più giovane di diverse
decine di anni. Quella luce rosso fuoco l’avrebbe guidata. Ora non doveva far
altro che godersi questa “Luna di miele”. Poi, “qualche santo sarebbe stato”. E
lì i Santi abbondavano. A partire da Saint Tail. O Saint Meimi. Ormai non era
più una doppia identità. Era lei. Ma troncò ogni ragionamento, per quanto
risolutivo e felice sul nascere, perché adesso voleva solo vedere lui.
Si
erano dati appuntamento alla fine del colonnato a destra, quasi all’inizio di
Via della Conciliazione. Era lì, in piedi, poggiato sulla stampella, che la
stava aspettando. Sakura non c’era. Spalancò gli occhi e sorrise.
«Ciao!
Eccoti qui! Hai fatto presto, alla fine».
«Già»,
lo guardò lei, con il suo viso arrossato dopo tanti saliscendi di quella
giornata. «Sai, lui ti vuole vedere, tra quindici giorni».
«Ah
sì», disse, lui. Ma pareva non interessarsene. Ed era stranissimo, perché pure
Obama o l’imperatore si sarebbero sciolti di fronte a una notizia così come una
ragazzina scema di fronte all’idolo di turno. Asuka aveva infilato una mano
nella tasca della giacca e iniziò ad armeggiarci con nervosismo.
«Che
c’è?». Domandò lei, incuriosita.
«Penso
di avere fatto una cavolata». Guardava verso l’alto, come se tutto d’un tratto
la scena non lo riguardasse più. «Ma sai, ti ho vista così preoccupata e triste
oggi e io…», balbetto, «prometti di non arrabbiarti, io ti prometto che non
farò più pazzie come questa, nella vita. Mai più. Non preoccuparti».
Dire
“non preoccuparti” a una ragazza è come indossare del filetto di maiale,
entrare nella gabbia di un leone a digiuno da tre giorni e dirgli “non
mangiarmi”. Meimi inarcò appena appena le sopracciglia. Dopo la chiacchierata
con il tipo vestito di bianco i suoi standard di tolleranza si erano alzati di
chilometri. Almeno per quel giorno. Solo per quel giorno.
Asuka
continuò a ravanare dentro la tasca della giacca e finalmente se uscì con una
scatoletta nera piccola piccola. «È… è… è per te!», balbettò.
Meimi
si avvicinò di qualche centimetro, prese la scatoletta e l’apri.
Credette
di svenire. All’interno c’era un anello d’oro lucente dal quale faceva
capolino, bello ma composto, il risultato di un lungo e potente fenomeno
naturale che trasforma del carbonio, grazie alla compressione, in ciò che i
comuni mortali chiamano diamante, materia che le persone decenti usano nel
campo dell’industria per tagliare marmi nelle cave o smergliare alla perfezione
anche i composti più duri e che gli smielati di ogni dove incastonano nei
ninnoli per impressionare qualche esemplare di Homo Sapiens di sesso femminile.
Meimi
sobbalzò. Asuka non si era inginocchiato, non aveva detto frasi pompose, non
aveva fatto nulla, se non guardare verso il cielo provando disperatamente ad
occultare le tonnellate di imbarazzo che provava.
Ma
il messaggio era chiarissimo. In gergo si chiama “proposta di fidanzamento
ufficiale”, che equivale nell’essere umano allo scrollìo violento della canna
da pesca quando il pesce è spacciato.
Meimi
sobbalzò di nuovo, per un’altra ragione. Chissà quanto era costato… Era solo
uno studente, non aveva uno stipendio… “Sicuramente questo stupido avrà dato
fondo ai soldi che gli avevano dato per sistemarsi il ginocchio in una
struttura privata”.
Asuka
però riabbassò lo sguardo, e sorrise.
«Spero
che comunque ti piaccia».
«È
davvero magnifico». Sorrise anche lei. «Però forse…».
«Ci
tenevo che tu lo avessi».
La
luce rossa del tramonto ora li avvolgeva ancora di più. Era un alone, una
carezza, una Presenza. Fosse caduto in quel momento su di loro, e su quella
città avvolta da mafie, pellegrini, squadre di calcio, politici, bambini, code
alla vaccinara e Claudio Lotito, un asteroide gigantesco, distruggendo tutto e tutti e non lasciando
atomo su atomo, quella luce sarebbe rimasta. Quei sorrisi sarebbero rimasti. E
pure quella promessa di eternità… quell’eternità stessa rappresentata da quel
diamante costato un ginocchio sarebbe rimasta. Per sempre.
Segnali.
La chiacchierata prima, quel gesto poi. Segnali evidenti di un disegno sulle
cui sfumature Meimi si volle cullare.
«Sarà
qui», osò dire Meimi. «Voglio che sia qui, quando accadrà». E guardò verso
l’obelisco, il colonnato, San Pietro, quella chiesa dove da qualche millennio
la cristianità e l’eternità stessa avevano sede legale sulla Terra, in via Sistema
Solare numero 3, comune della Via Lattea.
Asuka,
con volto estatico, convenne sulla location, e provò pure ad azzardare una
data. Nelle precarie condizioni in cui si trovava fu pure piuttosto preciso:
«Prima o poi lo sarà».
Il
bello è che, per davvero, prima o poi lo fu.
FINE
O
no?