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Autore: Andrewthelord    14/02/2015    0 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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60 Meimi

Non aveva bevuto un tè così cattivo in tutta la sua vita. E c’è da sottolineare che aveva assaggiato quello della signora Otsune, la sua vicina di casa, dal sinistro retrogusto metallico. Pareva lo diluisse con l’acquaragia, per via di quella sua maledetta teiera di latta che l’idiota di suo marito aveva saldato con qualche lega cancerogena vietata dalle associazioni industriali. Questo però era davvero cattivo. Non c’erano retrogusti strani. Era proprio fatto male. Le foglie – di bassissima qualità - erano state miscelate da qualcuno che di tè non s’intendeva minimamente e infilate di cattiveria in bustine terribili. Un’orribile sotto-marca dell’equosolidale che solo in un ambiente come quello qualcuno poteva ostinarsi ad acquistare.

Erano le tre del pomeriggio. Nello stanzone ad “elle”, ricavato chissà come e chissà in che modo verso l’inizio degli anni ’90, aleggiava per aria un odore di brodo stantio rimasto dall’ora di pranzo. Una signora con i capelli tinti e la pettinatura impomatata, con un grembiule azzurro orrendamente macchiato, passava una spugna su un tavolo in fondo alla sala. Alzò gli occhi verso la giovane e verso chi era con lei, poi li riabbassò subito. In un angolo, da una piccola teca refrigerata, facevano capolino delle bottigliette di acqua minerale, qualche confezione di yogurt di quelli utili alla regolarità e alcuni vassoi ricolmi di frutta.

L’uomo seduto di fronte a lei la fissava sorridendo. A differenza della ragazza, lui il tè non l’aveva ancora toccato. E forse non l’avrebbe mai fatto. Non era uno sguardo particolarmente penetrante, il suo, uno di quei sguardi inquisitori capaci di “far sputare il rospo” anche ai più renitenti. Eppure lei si sentiva completamente nuda. Quegli occhi neri non avevano alcun bisogno di fare breccia nell’animo della ragazza. E questo, molto semplicemente, perché non c’era più alcuna difesa in lei.

«Non ti piace il tè?».

«È buono», mentì. Lui sorrise. L’esperienza gli faceva cogliere le bugie – soprattutto quelle pietose – al volo.

«Allora Meimi. Come sta il vescovo Hikamura?».

«Molto bene». La ragazza ritrovò subito la parola, e un filo di discorso, al quale si aggrappò come una naufraga a una cima: «Mi ha chiesto di salutarla e di chiederle…».

«Ho chiamato te – la interruppe sorridendo – perché mi interessa quello che fai. Quello che hai fatto in questi anni e quello che è successo poco tempo fa».

Ogni strategia di dialogo, pensata a tavolino con un frenetico Hikamura in una costosissima telefonata intercontinentale, andò a farsi friggere.

«Mons. Hikamura mi aveva chiesto…». Riprovò, ma si interruppe. L’altro sorrideva. «Io…», riprovò.

«Il vescovo Ibakari mi aveva parlato di te…», la incalzò. «… di come ti aveva incoraggiato, all’inizio».

«All’inizio?». Sobbalzò.

«Quattro anni fa. Quando in un istituto cattolico della sua diocesi una ragazzina molto capace si mise in testa di infrangere qualche regola di troppo – ammiccò – per fare qualche piccola buona azione».

Alla faccia della segretezza. Aveva già avuto qualche conferma qualche settimana prima, ma la realtà è che tutta l’epopea di Saint Tail era “sotto controllo”. Che qualcuno, dall’alto, vegliava e scrutava.

«Ibakari – continuò lui – si confrontò con il mio predecessore – sobbalzò di nuovo Meimi – e lui diede il suo avallo».

«Sapevate…» osò.

«Sapeva. Solo lui. Del resto con mons. Ibakari il rapporto era strettissimo. Aveva molto da farsi perdonare».

«Come scusi?», osò di nuovo.

«Rifiutare la berretta da cardinale non è una colpa che qui ci si scorda molto velocemente», disse con severità il signore vestito di bianco. Ma era una severità bonacciona, che otteneva in chi lo guardava l’effetto contrario. Il sorrisone che fece immediatamente dopo – uno dei suoi sorrisoni più tipici – contribuì a sciogliere le ultime resistenze nella ragazza.

«Comunque, tornando a noi… Il mio predecessore, e lo stesso Ibakari, mi hanno parlato di te. Io mi sono rimesso alle decisioni già prese. Anch’io ho lasciato fare allo Spirito».

«Lo Spirito?». Domandò lei.

L’uomo rimase in silenzio. La guardò gravemente e, dopo qualche interminabile istante, le domandò: «Raccontami tutto». E quanto diceva tutto, probabilmente non intendeva tutto. Ma qualcosa che vi si avvicinava parecchio.

Meimi non osò frapporre scudi e – semplicemente, con serenità – lasciò che il ricordo defluisse. Rivide quella ragazzina di 13 anni goffa e pasticciona, completamente incapace di trattenere la rabbia data la sua impulsività. Rivide il primo taglio di capelli della sua amica Seira, il viso rosso incandescente quando le confidò di essersi innamorata di un tipo un po’ più vecchio di lei, uno che c’era quando il tempo e lo spazio non erano ancora stati inventati, e che con Lui voleva passare la vita insieme. Rivide la genesi di una sua proiezione: una versione di sé stessa completamente priva di difetti, capace di esibire tutte le sue doti nascoste senza timore di brutte figure o di contravvenire l’immagine che gli altri ormai avevano di lei. Ma soprattutto, riprovò, come se fosse la prima volta, quella rabbia tremenda che provava di fronte alle piccole ingiustizie che avvenivano anche nella pacifica e ideale cittadina pulita e ordinata di Seika. Ripensò alla prima volta che capì, lucidamente, con estrema chiarezza, di avere il potere e la volontà di porvi rimedio. Rivide il sorriso complice di Seira nel candore del suo abito di novizia, che dissolse in lei ogni dubbio e la convinse a continuare quel suo progetto. Raccontò l’ansia prima dell’impresa, l’adrenalina dei salti e della corsa, l’onda della soddisfazione e il consecutivo senso di colpa.

L’uomo vestito di bianco l’ascoltava rapito. Potevano essere passati cinque o cinquanta minuti. Era lo stesso. «Stai sorridendo», le disse.

Meimi si interruppe.

Era vero.

Non era stata una bellissima giornata. La cerimonia al Quirinale l’aveva tramortita. Sentiva come se quelle mura, secoli e secoli di arte papalina, savoiarda e democristiana pesassero sulla sua testa. Ma ora sorrideva.

«Saint Tail ha fatto del bene», continuò, cercando di smorzare quel sorriso.

«Tu hai fatto del bene».

Era vero anche questo. Ma il problema era un altro.

«Ho mentito a…».

«A?». Sorrise il vecchio, che continuò: «Tutto si può risolvere». E sapeva benissimo che quello scrupolo era già risolto o per lo meno era in avanzata fase di risoluzione.

La ragazza arrossì di nuovo.

«Rubare è sbagliato», continuò ad accusarsi.

L’uomo ammiccò: «Anche in questi casi?».

EMeimi levò un forte sospiro. Il problema era davvero un altro. Legalità e giustizia non erano necessariamente sinonimi. Anzi. Sebbene non l’avrebbe mai ammesso di fronte ad anima viva, ogni volta che vedeva un prepotente corrotto e malfattore soffrire per la perdita di un artefatto rubato a qualche poveretto privo di mezzi, godeva come un riccio. Era di fronte al tipo di “questa economia uccide”. Doveva inventarsi qualcosa di meglio. Capiva che ogni senso di colpa residuo era legato a quel gioco di guardie e ladri con Asuka, che da solo poche settimane si era più o meno risolto. Nonostante tutto, sapeva di avere ancora molto da farsi perdonare.

«Saint Tail è troppo grande per me. Io non sono così buona. Io non sono così capace», si sfogò, «cos’ho fatto fino ad oggi? Piccole cose. Poco rischio. Ci sono colleghi di mio padre che sono morti provando trucchi più semplici in teatri protetti». Non spiegò che suo padre era un mago, non spiegò di che trucchi stesse parlando, diede tutto per scontato. E fece bene, perché l’uomo stava ascoltando e dava l’aria di non essersi perso nessun passaggio logico. Anzi, aveva sul suo comodino, ancora aperti e sparsi dovunque, i faldoni dei dossier che la riguardavano.

«Sarei potuta morire. Saremmo – si fermò un istante – potuti morire. Lo ripeto: Saint Tail è troppo grande per me».

«Cara Meimi», non ci fu neppure un attimo di silenzio, «pensaci davvero. Perché esiste questa “Saint Tail”?». La giovane giapponese sospirò ma l’uomo continuò: «Non stare troppo lì ferma… parla di getto…».

«Perché così potevo fare quello che ho fatto». Rispose. L’uomo fece un gesto con la mano quasi a dirle: “Riprova”.

«Per farmi notare da lui…». Si incendiò in viso. «Anche», concesse il vecchio con uno sguardo fugace, «ma non solo quello».

«Perché volevo fare la maga come mio padre da sem…». «No», la interruppe sorridendo il tipo vestito di bianco.

Un momento di silenzio. E poi, non mascherò nulla. «Perché è giusto così».

Giusto. Un termine diverso da giustizia. Radicalmente diverso. Giustizia è quell’ideale altissimo, raffigurato nei tribunali come la tipa col naso greco bendata che regge una bilancia. E che, oggettivamente, soppesa coi suoi due piatti ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male.

Giusto è diverso. Giusto è ciò a cui tu devi obbedire, le regole a cui devi sottostare, ciò che devi per forza fare perché la tua coscienza – se ce l’hai ancora – non ti tenga sveglio la notte a roderti il fegato e a trivellare ulcere nel tuo stomaco. Giusto è cento, mille volte peggio della giustizia. Perché il “giusto” è di tua stretta e personale competenza. Di giustizia si può parlare e ci si può vantare. Il “giusto”, avverbio, aggettivo o nome che sia, può rovinarti i guanti nuovi e farti venire i calli alle mani. Talvolta, persino, sporcarti di fango le scarpette nuove scamosciate e di sangue i tuoi vestiti. Del tuo sangue.

«È giusto». Ripetè il vecchio. «È giusto?». Ripetè di nuovo, con un’intonazione leggermente interrogativa.

«È giusto», continuò Meimi, «è giusto perché io devo farlo. Perché se c’è qualcosa che so di poter fare, e quel qualcosa riguarda delle persone dal cui mio intervento potrebbero ricevere un giovamento, grande e piccolo che sia, devo farlo». Sorrise di nuovo. «Ho paura», le mani tremarono, «ho paura. Ancora di più oggi, che l’asticella si è alzata. Voglio dire, prima rubavo quadri, ora ho visto dei morti». Sulla parola “morti” la voce le mancò.

«Ma ce l’hai fatta».

«No».

«Quella medaglia direbbe il contrario». Tacque.

«Ho paura di fare peggio. Io non so che debba fare Saint Tail». E quando disse quel “non so” si accorse che tutto era così chiaro. Una luce enorme l’avrebbe guidata. Ce l’aveva davanti. Lui l’avrebbe consigliata. Lui, di fronte a cui il mondo si era fermato. Del resto, l’aveva chiamata lì per quello, no?

I giornali, le televisioni, i preti, la gente su Facebook l’avevano dipinto come l’uomo più santo del mondo. Ogni cosa che diceva era giusta, condivisibile, quotata e trasformata in santini, in meme da condividere sui social media e in frasi da mettere dentro i discorsi per ammantarli di un valore che magari non avevano. Non doveva far altro che fare una domanda e come da un jukebox perfetto sarebbe uscita la strada da seguire.

«Cosa devo fare di Saint Tail?».

«A me lo chiedi?». Disse lui, ridendo, e spalacando le braccia. Fu come se qualcuno gli avesse rubato la sedia su cui si stava per poggiare, rovinando a terra e spaccandosi la schiena.

«Scusi?». Interiormente divampava, esteriormente intervenne per esprimere lo sconcerto nella misura meno maleducata possibile.

«Io non sono Saint Tail. Tu lo sei». Meimi continuava a non capire, e fece di tutto perché il suo volto esprimesse lo smarrimento che attraversava.

«Pensaci bene, ripeto. Pensaci bene. Una ragazzina… Brava... Ma una ragazzina, che si inventa una cosa così bella».

«Bella?» spalancò la bocca.

«Bellissima – continuò – e che fa tutto questo… Cosa devo dire io a una persona così?». Tacque due secondi. «Vedi, carissima Meimi, tu pensi che io sia qui a darti delle risposte – fisse, leggendole nel pensiero – e invece sei tu che stai dando delle risposte a me. Lo Spirito ha milioni di modi di agire, milioni di modi di parlare, e nel mondo lo fa proprio animando capacità, inventive e creatività come la tua». Spalancò le braccia, gesticolando, ma reclinò la schiena sulla sedia quasi a distendersi. La voce scorreva più grave ma più rilassata. «Africa, America, Asia… Ogni giorno sento di persone che aprono scuole in posti in cui prima insegnare non si poteva, soprattutto alle ragazze. Ragazze come te, Meimi. O di uomini coraggiosi che lottano contro le ingiustizie, contro le fabbriche di povertà e di schiavitù che mettono in discussione o travolgono persino i diritti più basiliari delle persone. C’è chi combatte per togliere delle bambine dalle strade dove qualcuno le ha messe per il mercato della prostituzione… Ho detto io a loro cosa dovevano fare?».

Meimi spalancò gli occhi. Era ovvio che la risposta fosse no. «No».

«No. E chi lo ha fatto?». Era una domanda. E non era una domanda retorica.

Meimi non volle rispondere subito. Perché stava capendo, finalmente. Piano, con i giusti tempi. Ma stava capendo. E alzò gli occhi di poco, quel tanto che bastava per vedere da una finestra il riflesso di luce più alto del Cupolone.

«Già. È Lui che anima le cose più belle di noi. Anche quando non ce ne accorgiamo. Lui ci dà i mezzi per farlo».

«Dunque… Io… Cosa…». Non voleva fare una domanda, ma riaggiustare i pensieri. Il vecchio volle rispondere lo stesso. «Lo saprai tu. Ti sarà più chiaro».

Che fare? Vestire di nuovo i panni di Saint Tail, ancora? Anche adesso, che la posta in palio sarebbe stata ancora più grande? Chissà dove la sua coscienza l’avrebbe condotta. I trucchi di cui disponeva erano mese dopo mese sempre più potenti.

Un giorno rubi gioielli per restituirli alla pensionata vicina di casa e il giorno dopo chissà dove sei… A fermare rapinatori a Tokyo o liberare ostaggi di Boko Haram in Nigeria.

Discrezione, inventiva, silenziosità, adattabilità, intelligenza, astuzia, dotazioni tecniche. Quanto aveva! Quanto avrebbe potuto imparare ancora! Le luci del tramonto che filtravano dalle finestre sembravano avvolgerla di un alone caldo, rosso come il fuoco. Si vide allo specchio. Nuda. No, non era smarrita. Non era mai stata neppure sola, ma ora lo capiva con chiarezza. Era piena di risorse. Qualcuno gliele aveva date. E sapeva che le avrebbe messe a disposizione di chi la sua coscienza, di volta in volta, avrebbe deciso.

Non aveva ottenuto uno straccio di risposta. Non aveva ancora uno straccio di piano. Era tutto pericolosamente campato in aria, tutto provvisorio, tutto precario. Non vide nemmeno che strada avrebbe dovuto percorrere. Sapeva però con certezza che questa strada c’era. Lei doveva solo camminare. Stava già camminando. L’uomo vestito di bianco si era solo limitato a riempirle la borraccia in una delle tante pause ristoratrici lungo il percorso.

«Meimi». Si alzò. La raggiunse. L’abbracciò e le prese le mani. «Grazie!».

Ora era troppo. Troppo davvero. Ma comprese – con un brivido – che il vecchio non la stava ringraziando per quello che aveva fatto (a parte il venerdì sera di Seika, era davvero poca roba, finora), ma per quello che avrebbe fatto in futuro. Ora accettò sorridendo anche la durissima investitura ricevuta quella mattina.

«Restiamo in contatto. Il tuo numero ce l’ho», sorrise.

Meimi non disse nulla, ma sorrise. Sorrise sfoderando il suo sorriso più bello, e già che c’era lasciò uscire dai suoi occhi qualche lacrima. Ed erano dolcissime lacrime di gioia. Avrebbe scalato ogni montagna.

«So che resterai qui in Italia…»

«Ancora quindici giorni», disse lei.

«Prima di ripartire torna a salutarmi… con lui». E sorrise. «Così lo saluto», rise.

Arrossì, ma non fu un bell’arrossire, di quello che gli esperti delle rotture controllate dei capillari metterebbero in vetrina all’esposizione universale. Ora era forte. Un ultimo abbraccio e si diresse, dopo preghiere, saluti e sorrisi all’esterno.

Diligenti guardie svizzere si posero sull’attenti. Imboccò l’uscita, verso San Pietro, passando in mezzo a qualche vescovo indaffarato e a qualche signore distinto che portava borse gonfie di carte e documenti. Erano meravigliosi, tutti. Superò l’ultimo sbarramento e fu di nuovo in piazza San Pietro. Pareva l’intera scenografia messa in piedi dal Bernini le stesse sorridendo. Che fosse stata costruita perché quel giorno lei l’attraversasse. A sinistra gli scalini per entrare in Basilica. A destra le poste Vaticane, le toilette, l’entrata per una mostra.

Le pareva di essere più leggera di milioni di tonnellate. O più giovane di diverse decine di anni. Quella luce rosso fuoco l’avrebbe guidata. Ora non doveva far altro che godersi questa “Luna di miele”. Poi, “qualche santo sarebbe stato”. E lì i Santi abbondavano. A partire da Saint Tail. O Saint Meimi. Ormai non era più una doppia identità. Era lei. Ma troncò ogni ragionamento, per quanto risolutivo e felice sul nascere, perché adesso voleva solo vedere lui.

Si erano dati appuntamento alla fine del colonnato a destra, quasi all’inizio di Via della Conciliazione. Era lì, in piedi, poggiato sulla stampella, che la stava aspettando. Sakura non c’era. Spalancò gli occhi e sorrise.

«Ciao! Eccoti qui! Hai fatto presto, alla fine».

«Già», lo guardò lei, con il suo viso arrossato dopo tanti saliscendi di quella giornata. «Sai, lui ti vuole vedere, tra quindici giorni».

«Ah sì», disse, lui. Ma pareva non interessarsene. Ed era stranissimo, perché pure Obama o l’imperatore si sarebbero sciolti di fronte a una notizia così come una ragazzina scema di fronte all’idolo di turno. Asuka aveva infilato una mano nella tasca della giacca e iniziò ad armeggiarci con nervosismo.

«Che c’è?». Domandò lei, incuriosita.

«Penso di avere fatto una cavolata». Guardava verso l’alto, come se tutto d’un tratto la scena non lo riguardasse più. «Ma sai, ti ho vista così preoccupata e triste oggi e io…», balbetto, «prometti di non arrabbiarti, io ti prometto che non farò più pazzie come questa, nella vita. Mai più. Non preoccuparti».

Dire “non preoccuparti” a una ragazza è come indossare del filetto di maiale, entrare nella gabbia di un leone a digiuno da tre giorni e dirgli “non mangiarmi”. Meimi inarcò appena appena le sopracciglia. Dopo la chiacchierata con il tipo vestito di bianco i suoi standard di tolleranza si erano alzati di chilometri. Almeno per quel giorno. Solo per quel giorno.

Asuka continuò a ravanare dentro la tasca della giacca e finalmente se uscì con una scatoletta nera piccola piccola. «È… è… è per te!», balbettò.

Meimi si avvicinò di qualche centimetro, prese la scatoletta e l’apri.

Credette di svenire. All’interno c’era un anello d’oro lucente dal quale faceva capolino, bello ma composto, il risultato di un lungo e potente fenomeno naturale che trasforma del carbonio, grazie alla compressione, in ciò che i comuni mortali chiamano diamante, materia che le persone decenti usano nel campo dell’industria per tagliare marmi nelle cave o smergliare alla perfezione anche i composti più duri e che gli smielati di ogni dove incastonano nei ninnoli per impressionare qualche esemplare di Homo Sapiens di sesso femminile.

Meimi sobbalzò. Asuka non si era inginocchiato, non aveva detto frasi pompose, non aveva fatto nulla, se non guardare verso il cielo provando disperatamente ad occultare le tonnellate di imbarazzo che provava.

Ma il messaggio era chiarissimo. In gergo si chiama “proposta di fidanzamento ufficiale”, che equivale nell’essere umano allo scrollìo violento della canna da pesca quando il pesce è spacciato.

Meimi sobbalzò di nuovo, per un’altra ragione. Chissà quanto era costato… Era solo uno studente, non aveva uno stipendio… “Sicuramente questo stupido avrà dato fondo ai soldi che gli avevano dato per sistemarsi il ginocchio in una struttura privata”.

Asuka però riabbassò lo sguardo, e sorrise.

«Spero che comunque ti piaccia».

«È davvero magnifico». Sorrise anche lei. «Però forse…».

«Ci tenevo che tu lo avessi».

La luce rossa del tramonto ora li avvolgeva ancora di più. Era un alone, una carezza, una Presenza. Fosse caduto in quel momento su di loro, e su quella città avvolta da mafie, pellegrini, squadre di calcio, politici, bambini, code alla vaccinara e Claudio Lotito, un asteroide gigantesco, distruggendo tutto e tutti e non lasciando atomo su atomo, quella luce sarebbe rimasta. Quei sorrisi sarebbero rimasti. E pure quella promessa di eternità… quell’eternità stessa rappresentata da quel diamante costato un ginocchio sarebbe rimasta. Per sempre.

Segnali. La chiacchierata prima, quel gesto poi. Segnali evidenti di un disegno sulle cui sfumature Meimi si volle cullare.

«Sarà qui», osò dire Meimi. «Voglio che sia qui, quando accadrà». E guardò verso l’obelisco, il colonnato, San Pietro, quella chiesa dove da qualche millennio la cristianità e l’eternità stessa avevano sede legale sulla Terra, in via Sistema Solare numero 3, comune della Via Lattea.

Asuka, con volto estatico, convenne sulla location, e provò pure ad azzardare una data. Nelle precarie condizioni in cui si trovava fu pure piuttosto preciso: «Prima o poi lo sarà».

Il bello è che, per davvero, prima o poi lo fu.

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

O no?

 

   
 
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