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Autore: Thiliol    15/02/2015    2 recensioni
Galmoth non ha più nulla, nè onore, nè titolo, nè ricchezze, nulla se non la sua piccola nave da contrabbandiere e Laer, la figlia del suo migliore amico morto anni prima. Laer è giovane e ha la testardaggine di una ragazzina, ma non ha mai smesso di sognare i sogni di quando era bambina.
E poi c'è Silevril, il figlio di un amore morboso che vorrebbe solo andare per mare e che invece sconvolgerà le vite di entrambi.
Galmoth osservò con sguardo inquisitore l'elfo che gli stava di fronte:era nato e cresciuto a Dol Amroth e lì non era raro imbattersi nei Priminati e conoscerne anche qualcuno, ma quel Silevril aveva qualcosa di diverso, come un fuoco latente in lui. Non era come i Silvani che sempre più spesso salpavano da lì, diretti alle loro terre al di là del mare, riusciva a percepirlo chiaramente: riconosceva un elfo di alto lignaggio, quando lo vedeva.
< Dici che vuoi metterti al mio servizio? >
< Desidero solo il mare e la compagnia degli uomini, inoltre, la tua nave è meravigliosa. >
Galmoth rise, strofinandosi il mento sporco di barba non rasata.
< Sei un elfo ben strano, Silevril. >
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Narn o Alatariel ar Aeglos'
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We need water and maybe somebody's daughter





Laer rimase per un momento spiazzata, quando aprì gli occhi. Si era aspettata di trovare il soffitto di legno della sua minuscola cabina a bordo della Stella, il mormorio sommesso delle onde contro lo scafo, il suono del vento sulla vela, la risata roca di Galmoth, il canticchiare allegro di Conn in cucina.

Si trovava in una stanza dall'alto soffitto bianco, perfettamente stuccato. Un sottile raggio di sole penetrava attraverso le imposte semichiuse e si posava sul copriletto di stoffa pregiata in cui era avvolta. Accanto al letto, un vaso con una pianta che Laer non aveva mai visto prima.

Si sentiva spossata, accaldata e sudata come se un braciere le avesse dato calore per ore e ore in primavera. Respirava male e le doleva la gola, inoltre il senso di stordimento che provava le faceva sospettare che l'aria le fosse mancata più di una volta mentre dormiva.

Tossì e l'intero suo corpo fu scosso da quel gesto. Scattò a sedere, tentando freneticamente di riprendere fiato, ansimando e lacrimando, finché non riuscì a smettere di tossire, inspirando di forza con un sibilo acuto.

Chiuse gli occhi per un istante, ritrovando se stessa dopo quell'eccesso di tosse che l'aveva scombussolata.

Quando spostò le coperte per mettersi seduta, si rese conto di indossare una camicia da notte dalle maniche corte che le copriva a stento le ginocchia.

Improvvisamente la porta si aprì, facendola sobbalzare, e un uomo entrò con un sorriso sul volto giovane.

No, si corresse, non era un uomo, era l'elfo, l'elfo che l'aveva salvata e portata a casa sua, l'elfo che le aveva fatto delle domande che ricordava confusamente e il cui nome aveva dimenticato del tutto.

Eppure c'era qualcosa di incredibilmente mortale in quel volto, qualcosa che Silevril non aveva nella sua bellezza eterea.

Quell'elfo poteva sembrare un uomo, non un ragazzo, ma un adulto poco più giovane di Galmoth.

Solo gli occhi erano diversi, occhi profondi e brillanti, antichi come Laer non ne aveva mai visti, occhi che avrebbero potuto leggerle fin dentro l'anima.

Ma l'elfo stava sorridendo e i suoi potenti occhi erano dolci mentre si posavano su di lei.

< Laer, > disse a mo' di saluto, < sono felice di vedervi in piedi, mia signora. Questa mattina la febbre vi ha abbandonato del tutto e non volevo disturbare il vostro sonno. Avete però una brutta tosse e non sarà facile mandarla via. >

Le si fece incontro e la guardò dall'alto.

< Su quella sedia vi è un abito per voi. Non ho moglie, né figlie, ma una vicina me lo ha gentilmente prestato e si occuperà di lavare i vostri. >

Una smorfia sofferente deturpò i suoi lineamenti per un attimo. Sembrava gentile e solo, nonostante tutto. Aveva pensato che gli elfi fossero tutti maliziosi e indifferenti come Silevril, trovarne uno che le parlava con gentilezza e si prendeva cura di lei la commosse e la sorprese.

< Grazie, signore > disse, sforzando la voce ancora molto roca. < Perdonatemi, > aggiunse, distogliendo lo sguardo, < non ricordo il vostro nome. >

< Sono Finrod > disse lui, esitando un attimo, come se il suo nome gli provocasse grande vergogna, < Capitano delle Guardie della Cittadella. >

Sospirò pesantemente.

< Vi prego, Laer, vestitevi e raggiungetemi nella stanza accanto, vi è del cibo per voi e mentre mangeremo, parleremo. Sono molte le domande che il mio dovere mi impone di farvi e domani vi condurrò dal Re. >

Laer strabuzzò gli occhi, sorpresa.

< Dal Re? Perché? Non ho fatto niente di male, desidero solo andare per la mia strada. >

Finrod la fissò, improvvisamente duro, e Laer si sentì investita dal suo sguardo. Ogni traccia di gentilezza svanita da lui.

Ma non durò che pochi secondi, prima che l'elfo chiudesse gli occhi con rassegnazione.

< Mi dispiace, non vi è altro modo di dirlo: non siete prigioniera, Laer, ma non siete nemmeno libera. Vi trovate in casa mia perché quando vi ho trovata eravate febbricitante e necessitavate di cure, altrimenti vi trovereste in una delle stanze della Torre di Echtelion in questo momento. >

Laer lo fissò, d'un tratto consapevole di cosa stava succedendo e della sua posizione. Strinse le labbra ma non rispose.

< Lavatevi, vestitevi e venite a mangiare con me, non desidero altro, potremo parlare ma vi giuro che non insisterò. >

Si voltò per uscire, ma appena prima di chiudersi la porta alle spalle le lanciò un'occhiata penetrante, poi la lasciò sola.

Si alzò.

Vicino la finestra c'era un catino di porcellana finissima, sottilmente decorato, quel genere di cose che Laer ricordava di aver visto nella sua infanzia, quando si era intrufolata nelle stanze del Palazzo di Dol Amroth, mentre suo padre lavorava nelle scuderie. Nemmeno Galmoth aveva mai posseduto oggetti così pregiati, lui che era stato Ammiraglio della Flotta del Principe.

Si lavò il viso, piacevolmente sorpresa di trovare l'acqua calda.

Il vestito preparato per lei era semplice, di cotone liscio, con le maniche troppo lunghe e lo scollo a “V”. La gonna la copriva completamente, ma era certa che su una donna più alta di lei avrebbe calzato alla perfezione. Il color ruggine la faceva sembrare ancora più pallida e malaticcia, sensazione acuita dai suoi capelli lunghi e scompigliati, ancora leggermente ondulati per essere sempre rimasti stretti nella sua solita treccia, ma non aveva nulla per legarli.

Era passato moltissimo tempo dall'ultima volta che aveva indossato un vestito che non fossero i suoi vecchi e consunti abiti da marinaio ed era bello poter sentire le gambe nude contro la stoffa della gonna, i capelli che le scendevano sulla schiena.

Si chiese scioccamente se Silevril l'avrebbe potuta trovare più carina vestita così, ma ne dubitava. Chissà a quali sfolgoranti bellezze era abituato quell'elfo... lo odiò un po'.

Si infilò gli stivali, i suoi vecchi stivali di pelle consumata sulle punte, e uscì dalla stanza. La casa non era molto grande e trovò facilmente la piccola sala da pranzo, con un tavolo di legno chiaro a cui stava seduto l'elfo, mangiando del pane.

Si voltò quando la sentì arrivare e le sorrise gentilmente, nonostante il suo sorriso fosse sempre venato di tristezza.

Laer si accomodò di fronte a lui, dove su un piatto vi era a sua volta pane bianco, marmellata, frutta e, lì accanto, un bicchiere di latte.

Iniziò a mangiare, sentendosi lo sguardo dell'elfo addosso.

< Sentite, > disse, precedendolo, < so cosa volete chiedermi. Non conosco quegli uomini, non so perché mi hanno rapita, io me ne stavo per i fatti miei e volevo solo trovare un passaggio per andarmene. >

< Per andare dove? > chiese lui.

< Nel Lebennin, a Rohan, non lo so, non mi importa. >

Scrollò le spalle con noncuranza, ormai sapeva soltanto che doveva allontanarsi da Minas Tirith, dove il pericolo di incontrare Galmoth era troppo grande, e naturalmente a Dol Amroth non poteva tornarci.

< Riconosco qualcuno che scappa, quando lo vedo > disse l'elfo, sorridendo appena, < da cosa scappate, così giovane? >

< Non da cosa, ma da chi. Scappo da qualcuno che è stato come un padre per me e che non mi ha raccontato nulla se non bugie. >

Non sapeva perché lo aveva detto, ma era impossibile non confidarsi con lui, con quell'elfo antico e sconosciuto. Irradiava potenza e Laer riusciva a sentirla come se una corrente di aria calda la investisse, ma era piacevole e faceva venire voglia di affidarcisi.

< Quegli uomini, > disse improvvisamente, senza pensarci, < quelli che mi hanno rapita, mi chiedevano qualcosa. Chiedevano “dov'è?” ma io non sapevo cosa rispondere. >

L'elfo si sporse un po' di più verso di lei.

< Cosa? Cosa cercavano? >

Una parte di lei voleva dirgli tutto, aprirsi, fare in modo che lui fermasse quella pazzia, ma sapeva che avrebbe significato la rovina e la prigione per Galmoth e il solo pensiero la faceva star male, nonostante tutto.

< Non lo so, > mentì, < non lo hanno detto. >




La ragazza aveva ripreso a mangiare, apparentemente tranquilla. Era brava a mentire, tanto che non riusciva a essere davvero sicuro che ci fosse altro dietro le sue negazioni.

Non sapeva come prenderla, quella fanciulla. Quando l'aveva vista per la prima volta le era sembrata giovanissima, fragile, ma in qualche modo fredda, invece guardandola ora la si sarebbe detta semplicemente una ragazzina affamata e un po' pallida, dopo essere stata malata, piena di gioviale calore tipicamente umano. Era impertinente, in un certo senso, nel suo modo di porsi, ma era certo che avrebbe raggiunto una nuova pacatezza con gli anni. I lunghi capelli sciolti le davano un'aria un po' selvaggia.

Si sentiva protettivo nei suoi confronti e per la prima volta nella sua vita si chiese come sarebbe stato avere una figlia, una creatura che gli apparteneva completamente, con cui poter essere pienamente se stesso. Una parte della sua mente, quella in cui era annidata la sua follia più profonda, si chiedeva come sarebbe potuta essere una figlia sua e di Alatariel.

Respinse immediatamente quel pensiero, prima che si affacciasse sulla coscienza, prima che il suo viso potesse rifletterlo. Non poteva permettere a se stesso di sprofondare ancora una volta nella follia, non ora, non quando il Male stava prendendo il sopravvento su ogni cosa. Doveva rimanere saldo, doveva rimanere se stesso.

Prese un respiro profondo.

< Sta succedendo qualcosa in questa città, qualcosa di oscuro, qualcosa che se non viene fermato porterà alla fine della Stirpe del Re. > Fece una pausa e vide Laer che ricambiava il suo sguardo. < Laer, voi dovete dirmi la verità: cosa sapete del Tesoro di Ulmo? >




< Galmoth! > l'urlo dell'elfo lo fece voltare appena in tempo per evitare la lama che stava per entrargli nella schiena. Con la destra deviò il pugnale, mentre con la sinistra sferrava un pugno sulla mascella dell'uomo che gli si era avventato contro.

Sferrò un calcio e sentì le costole sotto il suo stivale scricchiolare e incrinarsi. Era veramente molto che non faceva a botte con qualcuno, ma fu lieto di constatare di non essersi totalmente rammollito.

Alzò la testa e vide Silevril scansare con agilità una lama, sorridente e sardonico come sempre, uno scintillio di crudele derisione negli occhi chiari.

Fece cadere il suo avversario con uno sgambetto e gli fece perdere i sensi sferrandogli un calcio sul viso. Spietato e violento.

Galmoth guardò il suo avversario che si contorceva sul pavimento e pensò a come sarebbe stato sentire le ossa del cranio dell'uomo sotto il suo stivale, ma lui non era il tipo.

Ci pensò Silevril al posto suo.

< Dovresti essere più cinico, Capitano, i lamenti di quell'uomo stavano per farci scoprire. >

Si guardò intorno, nella penombra di quella stanza. Tutto intorno a loro c'era solo lusso, tanto che Galmoth si sentì a disagio, una sensazione che gli capitava solo quando, nella sua giovinezza, era stato convocato dal Principe nelle sue stanze per ricevere ordini.

< Qui non c'è niente, Capitano, > disse Silevril.

< Deve esserci, non ci sono dubbi. Tutte le nostre ricerche portano qui e nessuno è più bravo di me quando si tratta di trovare qualcosa da rubare. >

L'elfo scrollò le spalle.

< Certo, il comitato di benvenuto era scarno, ma il fatto che ci fosse indica che hai ragione. >

Ma Galmoth non lo ascoltava più. Aveva visto quello che stava cercando e si sorprese di non essersene accorto prima.

C'era una fanciulla rannicchiata in un angolo, tremante, e al suo collo, inconfondibile, il Tesoro di Ulmo.

La pietra sembrava oceano incastonato nel vetro e conferiva a quella ragazza una bellezza eterea e senza pari.

< Non ti faremo del male, > le disse, avvicinandosi, < dacci la pietra. >

< Non sapete quale errore state commettendo, > disse lei, e pure nella sua paura manteneva una imponente dignità.

< Se è un errore ne pagheremo le conseguenze, > disse Silevril con noncuranza. Quando Galmoth aveva parlato si era accorto a sua volta della fanciulla nell'angolo e si era avvicinato.

Mentre diceva così, si chinò e con un gesto secco strappò il monile dal collo della fanciulla, un gesto che Galmoth trovò sconvolgente.

Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non ci riuscì.

La fanciulla si era trasformata in acqua sotto i suoi occhi e di lei non rimaneva che il pavimento bagnato.








Il fatto che io sia riuscita ad arrivare al giro di boa della storia è un piccolo miracolo, dato il blocco che mi affligge da due anni a questa parte, ogni capitolo che scrivo è praticamente un parto e arrivata a questo punto posso tirare un sospiro di sollievo e sperare che il resto sarà non dico in discesa ma quantomeno più facile.

Detto questo vi lascio con il solito disclaimer e questa volta il titolo del capitolo è un vero di “Water” dei The Who,sul significato recondito vi lascio fare le vostre ipotesi.

Lunga vita e prosperità,

Thiliol

   
 
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