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Autore: BehindInfinity    04/12/2008    0 recensioni
Terzo racconto basato sul "ritrovo" dei membri di Alba creduti morti, secondo per la scala cronologica della raccolta. Deidara, dopo essere rimasto molto scosso dall'incontro con Sasori, fugge di nuovo. La sua nuova vita all'inizio sembra fatta apposta per lui, ma non ci vorrà molto prima che si accorga dello squallore in cui ha scelto di vivere. In una situazione molto critica, troverà una soluzione in un altro incontro, che all'inizio gli sembrerà insignificante, ma...
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Deidara, Kakuzu
Note: Alternate Universe (AU), What if? (E se ...), Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti^^

Faccio subito una premessa: questo capitolo non doveva esserci, questa situazione di “stallo” non era prevista. Ma avevo troppa voglia di scrivere qualcosa di biografico xD

Dalla prossima volta si ritorna alla trama originale^^

Grugnì e mi fece scansare da parte per scrutare il giardino della casa; dopo aver scoperto che l’unica anima ancora viva nel raggio di dieci metri ero io, mi guardò: “E tu cosa mi rappresenti?”.

Non risposi. Non risposi non perché ero ancora scosso dall’aver scoperto di essere ancora salvo, ma ero scosso da lui, dalla sua persona; non l’avevo mai visto senza la maschera, le uniche informazioni che avevo sul suo aspetto fisico erano che aveva gli occhi chiari e che era alto più di me.

Lo ammetto, feci molta fatica a riconoscerlo nell’uomo dal volto scoperto che mi si parava davanti con espressione scocciata per il mio silenzio, che durò fino a quando non mi schioccò le dita davanti al naso urlando qualcosa come “Ciuchè!”, uno di quei trucchetti che si usano per distrarre i bambini.

Mi scossi dal mio torpore e blaterai qualcosa come “Non mi aspettavo di vederti” o “Potrei farti la stessa domanda”; non ricordo, mi limitai a seguirlo nella casa al suo cenno. Ad ogni sua mossa continuavano ad apparirmi spicchi di personalità che non avrei mai creduto che lui potesse avere; il suo cenno era autoritario e allo stesso tempo carismatico, non potei evitare di obbedirgli. Non so se questo mio atteggiamento era dettato dal sentimento di sorpresa che ancora mi pervadeva o chissà cos’altro, ma lo seguii.

Arrivammo in soggiorno, dove un ragazzotto steso accanto alla finestra stava assaporando gli ultimi agonizzanti attimi della sua vita, attraverso sospiri delicati e a malapena percettibili, che, però, il mio nuovo compagno sentii distintamente. Si avvicinò a quello che riconobbi come uno dei figli del padrone di casa e gli sferrò un violento calcio sul collo che lo fece rantolare per l’ultima volta; sussultai schifato e, come per consolarmi, mi disse: “Si chiama mala provvidenza” mi disse, chinandosi sul cadavere come se volesse baciarlo per ridargli un alito di vita.

Costatato il decesso, si spostò dall’altro lato della stanza, verso una grossa libreria, aprì la vetrata e cominciò a scorrere i titoli dei libri, prendendone, di tanto in tanto, qualcuno: “Come mai sei finito qui?” mi chiese, mentre afferrava un piccolo libricino rosso. Mi strinsi nelle spalle e mi avvicinai: “Lo stesso tuo motivo, immagino. Fuga.” Sbuffò e lanciò il libro dietro di sé, lungo la stanza; con un nuovo moto di disgusto, constatai che cadde sul braccio inerme del ragazzo appena morto: “Dal passato?” “…anche” la mia risposta poco convinta lo costrinse ad alzare gli occhi da un secondo libro, per puntarli contro di me. Rimasi stupito dalla facilità con cui riuscì a leggere una nota di rammarico nella mia voce, un senso di incompletezza. Non credevo che una persona come lui fosse così attento alle parole degli altri: “Quell’anche” mi disse: “Sottolinea che c’è qualcosa di più del passato che ti da fastidio. Sbaglio?” scossi la testa: “Cos’è?” tornò a passare le dita sulle pagine ruvide del libro.

Non risposi. NON volevo rispondere. Perché dovevo condividere con lui delle informazioni che consideravo mie, solo mie e assolutamente intime, intoccabili. Tranne che per Edmund.

Feci finta di nulla e mi misi a leggere alcuni titoli conservati nella libreria: “Toh, guarda” dissi stupito: “Leggevano Kant” ridacchiai al pensiero di contadinotti che all’ora di cena, appena dopo aver riposto le zappe e i restrelli, leggevano di filosofia “Che cosa di preciso?” “La critica della ragion pratica” scrollò le spalle e tornò alla sua lettura: “Già letto”.

Lo guardai stupefatto. Già letto? Già letto??!! Ma lui non era quello che pensava solo ai soldi? Quello che leggeva solo le taglie dei ricercati? E ora… legge Kant. Non è che sapessi molto chi fosse di preciso questo Kant, ma mi capita spesso di sentirlo nominare dai ragazzini, mentre sto facendo qualche lavoretto di manutenzione nella scuola. Tutto ciò che so è che rientra nell’argomento “filosofia”, ma non saprei dire altro. Così, per continuare il gioco, lessi anche i titoli dei libri vicini, i cui autori rientravano nella mia categoria di “filosofia”: contai almeno altri dieci libri sull’argomento che lui aveva letto.

Il gioco finì quando gli proposi un titolo di un tale Stephen King e venni severamente ripreso per il fatto che quest’ultimo non fosse un autore di filosofia. Però aveva letto anche quel libro.

Mi sorpresi a fissarlo mentre leggeva e scartava un libro dopo l’altro. Mi sorpresi che non lo stavo fissando con cattiveria, ma lo stavo studiando con attenzione e curiosità. Era, come dire… strano. So che mi aveva sempre stupito per il colorito della sua pelle, che tanti amavano definire “caffélatte” un po’ per schernirlo, un po’ per dare un nome a quel colore così particolare. Sapevo che c’erano popolazioni dalla carnagione più scura da qualche parte nel mondo, avevo visto alcune foto sui libri degli studenti; mentre facevo una pausa tra una porta rotta e un tavolo traballante, amavano mostrarmi con orgoglio i loro libri colorati e pieni di figure e a spiegarmi di cosa stavano parlando e cosa ne pensavano. Ormai mi consideravano uno di loro e questo mi faceva molto piacere.

Dicevo… ah, sì. Confrontai mentalmente il suo volto scoperto con quello scurito dal sole degli uomini nelle fotografie e mi stupii nel constatare dei lineamenti forti e allo stesso tempo fini, gli occhi chiari che contrastavano con i capelli che tendevano all’ebano. Sembrò non interessarsi al mio studio e portai la mia attenzione alle braccia e al petto. Beh, diciamolo, niente male, niente male davvero; forti, muscolosi, quasi scolpiti…

Sussultai quando mi accorsi di parlare come una ragazzina parla del ragazzo che le piace e un po’ mi vergognai, intimorito da ciò che aveva provocato quel moto di attrazione nei suoi confronti. Non è che… no, dai, non scherziamo.

Dovevo distrarmi e trovai sollievo ripensando a dei pettegolezzi che mi avevano raccontato, non ricordo chi, su di lui, sulle sue origini; pettegolezzi di quartiere, si intende, ma sempre interessanti. Mi avevano raccontato la sua storia, almeno, la sua parte di storia prima di quella che lui raccontava quando interpellato, cioè la sua famiglia.

Io avevo una famiglia. Avevo dei genitori e dei fratelli, avevo addirittura zii e cugini, una famiglia piuttosto normale; mi stupii quando venni a sapere che lui era figlio di una relazione che non sarebbe dovuta neanche nascere. Mi dissero che sua madre, della sua relazione con una specie di capitano di un esercito che passava da quella zona, una cosa molto veloce per intenderci; mi dissero che quando lui nacque, il marito di lei lo accettò come se fosse un figlio e fu per lui come un padre, anche quando lei, dopo aver avuto un altro figlio da chissà chi altro, era scappata con un terzo amante e un terzo figlio in arrivo.

Rimasero lui e il padre adottivo. Io non so se ce l’avrei fatta a sopportare una situazione del genere, insomma, quell’uomo ha deciso di rimanere con la prova vivente del tradimento dell’unica donna che abbia mai amato da cui, ironia della sorte, non ha mai avuto figli. Penso che lui abbia sempre vissuto nella consapevolezza di essere nel posto sbagliato, accudito da una persona che non aveva nulla da condividere con lui, se non l’odio e l’amarezza del tradimento.

Ripeto, non so chi mi ha raccontato tutto questo, ma ricordo solo in che contesto era stato detto; dopo una delle nostre “riunioni”, durante le quali non si facevano che risse su risse, una spia che lavorava per noi l’ha insultato, dandogli del figlio di buona donna, per essere delicati. Gli saltò al collo e quasi lo uccise, il poveretto se la cavò con tre mesi di alimentazione attraverso una cannuccia e una mascella fracassata; quando riprese a parlare, chiese di uscire dall’organizzazione.

Era sempre stato molto pacato e razionale, non riuscii a spiegarmi quella reazione, fino a quando non mi spiegarono quella storia e capii che quello era il peggior insulto che gli potessero rivolgere. Era per lui il più pesante e crudele perché, aihmè, conteneva un fondo di verità.

  
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