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Autore: Afaneia    15/02/2015    4 recensioni
È l'anno della prima edizione della Lega Pokémon: Samuel Oak è un valido allenatore all'inizio di una brillante carriera. Tutto ciò che vuole è affermarsi e competere con avversari del suo livello.
Agatha ha diciott'anni, è testarda e impulsiva, orgogliosa e severa con se stessa e con gli altri.
Il loro è un legame inaspettato, guidato dall'ambizione e dalla fame di avventure. Ma proprio questa ricerca di avventure finirà per condurli in una spirale di eventi agghiaccianti e irresistibili, in una tragedia di cui non volevano affatto essere i protagonisti, tanto spaventosa e irreale da essere destinata a rimanere per sempre segreta...
Genere: Avventura, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agatha, Prof Oak
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Capitolo terzo – Nome di famiglia.


Cominciarono la discesa assieme, senza rendersene conto, appena mezz'ora dopo. I loro Pokémon stavano bene, l'infermiera aveva rassicurato entrambi, pur raccomandandosi di evitare loro sforzi eccessivi. Samuel si domandava quanto frustrante dovesse essere ripeterlo in continuazione a ogni allenatore, sapendo in anticipo di dover rimanere inascoltate: faceva parte della loro deontologia professionale avvertire gli allenatori di non pretendere troppo dai loro compagni, ma esse erano anche troppo consapevoli di quanto le lotte significassero per chi ne aveva fatto il proprio mestiere.

Se qualcuno avesse chiesto loro per quale motivo stavano lasciando assieme l'Altopiano Blu, molto probabilmente nessuno di loro avrebbe saputo trovare una risposta univoca: nella sua mente, Samuel dava per scontato che fosse semplicemente normale per due persone che andassero nello stesso posto andarci insieme, e che arrivati a Smeraldopoli, altrettanto naturalmente, si sarebbero divisi. Nel frattempo, tuttavia, avere compagnia non gli dispiaceva, per quanto silenziosa quella compagnia fosse: certo, non era molto facile portare avanti una conversazione discendendo attraverso gli intricati sentieri rocciosi della Via Vittoria – paradossalmente, quella strada era quasi più semplice da percorrere in salita, quando erano più ridotti i rischi di sbilanciarsi in avanti e scivolare sui crinali di roccia. A ogni modo, Agatha lo affiancava senza lamentarsi, né sembrava affaticata o in difficoltà più del normale.

«Non ci sono molti Pokémon selvatici, oggi» constatò semplicemente a un tratto, mentre scivolavano lentamente lungo un'angusta strettoia tra due pareti di roccia. Era una semplice affermazione, tuttavia ella levò lo sguardo su di lui come se si attendesse una risposta.

Era vero, in effetti: in lontananza Samuel aveva visto un paio di Graveler e dietro un masso aveva colto lo scattare guizzante della coda di un Onix, ma nessun Pokémon si era avvicinato troppo a loro o li aveva attaccati.

«Molto probabilmente l'afflusso di allenatori che è passato di qui in questi giorni li ha sconvolti.»

Agatha assentì appena col capo, poi s'inginocchiò al suolo per valutare l'altezza di un dislivello. «Prima che Jake c'interrompesse, hai detto che ti piacerebbe fare dello studio dei Pokémon il tuo

lavoro. Era questo che intendevi?»

«Beh... più o meno.» Samuel le fece cenno di aspettare e scese il dislivello con un piccolo balzo. «Non so ancora cosa m'interesserebbe di più: forse le evoluzioni, o le relazioni tra umani e Pokémon... il campo è talmente vasto. Mi affascinano vari argomenti.» Le porse la mano per aiutarla a scendere a sua volta e Agatha l'accettò senza esitazione: sembrava che al di fuori delle lotte gli atti di cavalleria non le dispiacessero.

«Vuoi dire che non continuerai ad allenare i Pokémon per sempre?» chiese con interesse.

«Beh... tu intendi farlo?»

«Certo. Perché no?» replicò Agatha quasi sorpresa, alzando le spalle.

«Io no» disse sinceramente Samuel. «Voglio dire, non è quello che intendo fare per tutta la vita.» Si prese un momento per gettare uno sguardo alla strada che si stendeva davanti a loro: la lunga grotta della Via Vittoria era parzialmente illuminata dal sole che filtrava attraverso profonde spaccature nella roccia. «Non fraintendermi, adoro viaggiare e allenarmi con i miei Pokémon: siamo in viaggio già da sei anni... ma non penso che sia quello che continuerò a fare tra qualche anno. Trovo che un uomo adulto abbia bisogno di un lavoro sicuro.»

«E che cosa farai? Ti fermerai e metterai su famiglia?» domandò Agatha con un sorriso ironico, come se l'idea la divertisse. Continuava a camminare lentamente, appoggiandosi al muro con la mano e saggiando cautamente col piede i punti incerti per non rischiare di scivolare. Sembrava cavarsela bene persino su quei passi di montagna. «È a questo che ti serve il lavoro sicuro?»

«Beh, sì» ammise Samuel, fermandosi un attimo. Non si era mai soffermato a riflettere molto su questo aspetto, a dire il vero: aveva sempre assunto con grande naturalezza dentro di sé l'idea di fermarsi, un giorno, e di costruire qualcosa di stabile – una casa e una famiglia, magari. Fare l'allenatore errrante per tutta la vita non rientrava nei suoi schemi, forse proprio perché aveva sempre guardato con un po' di pietà quegli eterni ragazzini di quaranta o cinquant'anni che vagavano senza neppure un vero scopo, fingendosi molto più giovani di quanto realmente fossero; forse perché suo padre...

Scacciò il pensiero di suo padre quasi con un gesto fisico di ripulsa e tornò a concentrarsi sul discorso. «Sì, mi piacerebbe avere una famiglia mia, un giorno. Inoltre... insomma, quando s'invecchia, viaggiare è più difficile, e anche i Pokémon si stancano e s'indeboliscono. Suppongo che faccia piacere anche a loro un po' di riposo, dopo tanti anni di lotte.»

«Davvero? Glielo hai mai chiesto?» lo rimbeccò Agatha alquanto severamente. Samuel sorrise tra sé in silenzio: quella ragazza era un demonio.

«Hai ragione, non l'ho mai fatto. Glielo chiederò appena ci fermiamo per il pranzo» promise, senza sapere neppure lui fino a che punto scherzasse e quanto invece fosse serio.

Per qualche tempo dovettero camminare in silenzio, concentrandosi su dove mettevano i piedi: stavano attraversando il tratto più difficile della Via Vittoria e nessuno dei due aveva intenzione di cadere e rotolare per metri sul duro terreno accidentato. Samuel si soffermò spesso ad aiutarla, nei punti più stretti o pericolosi, e di nuovo Agatha accettò con buona grazia la mano o il braccio che le venivano porti, ringraziandolo con semplici cenni del capo. Quando finalmente raggiunsero una zona vagamente più pianeggiante, o almeno meno ripida e pericolosa, Samuel le propose di fermarsi per mangiare: il suo fisico giovanile e robusto gli chiedeva a gran voce già da un po' un rifornimento di energie fresche ed egli si era trattenuto soprattutto per evitare di sconvolgerla col proprio appetito. Sedettero su una sporgenza di roccia per aprire un paio di latte di fagioli, ma proprio allora, come se non avesse fatto altro che riflettere su quella conversazione e l'avesse proseguita nella propria testa, Agatha la riprese: «Sai, non è che si debba per forza viaggiare per tutta la vita per continuare a fare l'allenatore.»

Samuel faticò un attimo a recuperare il filo del discorso. «A che cosa ti riferisci?»

Agatha si strinse nelle spalle. «Questo Torneo non rimarrà un unicum, se avrà anche solo la metà del successo che sembra destinato a riscuotere. Questa è solo la prima edizione, ma se diventerà a cadenza regolare, l'organizzazione si complicherà, si creeranno posti di lavoro... ce n'è bisogno dopo la guerra.»

Il suo ragionamento pragmatico e semplice lo colpì: Samuel rimescolò per qualche istante col cucchiaio all'interno della scatola di latta, producendo un tintinnio sonoro che parve rincorrersi echeggiando negli anditi oscuri. «Non l'avevo mai vista a questo modo. È questo che intendi fare tu, tra qualche anno?»

«Perché no? Non ho alcuna intenzione di trovarmi a fare la stenografa o la maestra o cose simili.» La sua voce suonava determinata e inflessibile, ma quando pronunciò quei mestieri suonò piuttosto altezzosa e sprezzante, come se li ritenesse troppo umili e inadatti a qualcuna come lei. «Questa è l'unica cosa che mi piace davvero fare. I miei Pokémon possono proteggermi e finché avrò loro, non avrò bisogno di nessun altro.»

Samuel scrutò il suo profilo nella semioscurità della caverna senza trovare nulla da rispondere alla sua veemenza: qualcosa nel suo volto altero, nel suo atteggiamento di superiorità gli diceva che c'era qualche motivo profondo alla sua solitudine e alla sua determinazione, qualche motivo che ovviamente mai egli avrebbe potuto scoprire, conoscendola tanto poco. Agatha non voleva aver bisogno di nessuno, Agatha voleva stare sola, ma perché? Sentiva che in quella ragazza c'era qualche mistero che a nessuno era dato conoscere, eppure non aveva idea di cosa potesse trattarsi.

Avrebbe voluto chiederle qualcosa, ottenere una qualche risposta che lo aiutasse a comprenderla almeno un poco, ma non voleva essere invadente. Le diede un pugno scherzoso sulla spalla.

«E tu come le sai queste cose?»

Agatha gli rivolse all'improvviso uno sguardo teso, come se si sentisse colta in fallo, e tornò rapidamente ad abbassare gli occhi sul suo pranzo. Scrollò le spalle con indifferenza. «Non so, le ho intuite. No?»

A un tratto ripose nervosamente la latta nello zaino, chiudendola con un coperchio, e avvolse il cucchiaio che aveva usato in un foglio di giornale. Si alzò in piedi sotto il suo sguardo perplesso. «Quando hai finito, andiamo. Ti va?»


Continuarono per tutto il pomeriggio la lunga discesa attraverso i cunicoli claustrofobici della grotta, e anche se non parlarono molto, il viaggio parve a Samuel meno noioso che all'andata con quella ragazza accanto. Se Agatha gli era parsa turbata all'inizio, per qualche motivo, quest'impressione svanì nelle ore seguenti: sembrava ora contenta e tranquilla, e quando parlavano la sua voce suonava squillante e serena. Decisamente le ragazze costituivano un mondo misterioso, concluse Samuel con profonda rassegnazione.

Uscirono finalmente dall'interminabile Via Vittoria quando già il tramonto tinteggiava il cielo di colori aranciati che si perdevano nel blu, ma fu solo al limitare di una notte limpida e tiepida che raggiunsero Smeraldopoli, in un vorticare di vento che s'insinuava tra le case. Anche stavolta, per un tacito accordo condiviso, si diressero assieme al Centro Pokémon senza realmente averlo deciso: probabilmente, pensò Samuel mentre le apriva cortesemente la porta, si sarebbero separati il mattino seguente. Non aveva ancora deciso dove sarebbe andato ad allenarsi nelle settimane che lo separavano dal Torneo, ma dubitava comunque che Agatha sarebbe andata proprio nel suo stesso luogo, ovunque questo fosse.

Richiesero due stanze alla reception, ma quando l'addetta prese il documento di Agatha, dopo un attimo di riflessione la informò che in mattinata era arrivato un telegramma per lei. «Vuole leggerlo subito o preferisce che terminiamo prima la registrazione?»

Agatha s'incupì prima ancora di avere il telegramma in mano. Samuel si allontanò discretamente di qualche passo mentre ella leggeva, fingendo indifferenza, ma non la perse di vista, continuando a scutarla con la coda dell'occhio: via via che leggeva, lo sguardo dela ragazza si faceva più scuro e alterato, finché con sua grande sorpresa ella appallottolò rabbiosamente il foglio nella mano e lo gettò nel cestino posto sotto al bancone. Il suo profilo era ora teso e quasi vibrante di rabbia. Sentendosi un poco preoccupato, Samuel l'avvicinò cautamente, quasi accostandosi a un fuoco troppo caldo che rischiasse di scoppiare da un momento all'altro.

«Ehi... tutto bene?» chiese piano. Collo sguardo nervosamente infisso sul legno del bancone, i pugni stretti, la ragazza non rispose. Schiarendosi appena la voce, Samuel ritentò: «Brutte notizie?»

Agatha si riscosse con uno scatto secco, scuotendo bruscamente il capo come per riaversi da un sogno. Volse gli occhi su di lui quasi con rabbia, erano occhi scuri e tempestosi profondamente turbati, e Samuel dovette resistere alla sciocca, infantile tentazione di ritrarsene di un passo. Rimase faticosamente immobile a poca distanza da lei, cercando di conservare un'espressione rassicurante.

«Sì... sì, tutto bene» disse Agatha. Vagò con gli occhi per la sala, come in cerca di una via di fuga, e sorrise di un sorriso nervoso. «Solo un telegramma da un vecchio amico.»

«Oh» disse Samuel senza capire, cercando di decidere se dovesse accontentarsi di quella risposta o se potesse invece permettersi d'insistere un poco: Agatha era decisamente troppo sconvolta per un semplice telegramma di una vecchia conoscenza. Ma prima che potesse risolversi a prendere un qualsiasi partito, Agatha si rivolse di nuovo all'infermiera e le chiese qualche moneta per il telefono: tutto il suo corpo snello sembrava vibrare d'indignazione. Strinse le monete nel pugno chiuso e gli passò accanto, diretta al telefono in fondo alla sala, mormorando: «Ti dispiace aspettarmi? Dopo possiamo salire insieme.»

«Certo» borbottò Samuel, sentendo come di parlare al niente: in quel momento, egli sapeva anche troppo bene che Agatha non lo stava ascoltando.

Il telefono era nell'angolo all'estrema destra della sala, poco oltre il Club Via Cavo. Samuel non voleva sentire qualunque cosa Agatha avesse da dire, neppure accidentalmente: sarebbe stato impensabile ascoltare la telefonata di una signorina, perciò rimase in piedi là dove si trovava, alla massima distanza consentitagli da quel telefono, e attese pazientemente, limitandosi a gettarle talora qualche occhiata perplessa. Anche da lontano, era impossibile non notare l'agitazione di Agatha: gesticolava convulsamente e si scostava i lunghi capelli ribelli dal volto quasi con stizza, come a volervisi sfogare. Pochi minuti dopo sbatteva già il telefono e tornava verso di lui a passi pesanti, con le braccia incrociate sul petto, in un gesto che Samuel aveva ormai imparato a interpretare da lei come una minaccia. La guardò inquietamente.

«Va tutto bene?» insisté con cautela.

Col volto assorto e gelido, gli occhi assenti, Agatha gli accennò di sì, ma stavolta non si premurò neppure di cercare di convincerlo. Si limitò a dirigersi lentamente verso le scale e a Samuel non rimase altra scelta che seguirla a sua volta.

Salirono le scale in un silenzio teso e angoscioso: Agatha era assorta e distratta. Le loro stanze erano entrambe allo stesso piano, aprendosi nel medesimo corridoio angusto dalla tappezzeria antiquata, con la moquette che odorava di polvere. In quel corridoio stretto, in quell'ambiente così casalingo e rassicurante, all'improvviso Samuel afferrò il polso di Agatha per fermarla. La ragazza si volse verso di lui con aria interrogativa.

«Agatha, non ti credo. È successo qualcosa di grave?»

Forse per prendere tempo, Agatha chinò lo sguardo sulla sua mano robusta che l'artigliava. Ritrasse pensierosamente il polso per scioglierlo dalla sua presa.

«Ti ringrazio, Samuel, ma non è davvero nulla di preccupante. Io e il mio amministratore abbiamo spesso da ridire su alcuni argomenti.»

Amministratore? Per quanto ne sapeva lui, un amministratore si occupava di grandi patrimoni, o cose del genere. Per la prima volta scrutò Agatha con occhi nuovi: cosa se ne faceva di un amministratore? La ragazza parve cogliere i suoi dubbi e gli spiegò pazientemente: «Il signor Firefly si occupa dei miei beni immobili e di una parte di quelli mobili bloccata in investimenti. È stato anche il mio tutore, fino a sei mesi fa» soggiunse a voce appena più bassa, con tono amaro. «Il problema è che pensa di poter continuare a darmi ordini.»

Per avere un tutore, Agatha doveva essere orfana di entrambi i genitori, comprese all'improvviso Samuel con una fitta di dispiacere. Dunque vi era già qualcosa, di quel mistero che gli era parso avvilupparla all'interno della grotta, che si stava svelando a poco a poco... Agatha non gli aveva ancora detto niente di particolare, tuttavia, per qualche motivo, egli sentì che era il momento giusto per chiederle, ma non perché volesse sapere. In quel momento, semplicemente, Samuel sentiva che quella ragazza era in difficoltà e voleva aiutarla.

«Dunque qualche cosa è successa» mormorò. «Mi sbaglio?»

Finalmente, come se le sue difese fossero crollate, Agatha diede in un sospiro profondo. Scosse la testa.

«Non è mai stato d'accordo a che io intraprendessi questa carriera, ma non me l'ha mai impedito... probabilmente perché sono molto più facile da sopportare quando sono lontana. Ma ora ha saputo della mia iscrizione al Torneo ed è assolutamente contrario. Dice che potrei danneggiare il nome di famiglia o cose del genere.»

Dunque Agatha doveva appartenere davvero a una famiglia piuttosto importante, per avere un nome di famiglia da danneggiare. D'un tratto alcuni elementi del suo carattere che gli erano parsi semplicemente particolari assunsero ai suoi occhi un diverso significato: l'aria di superiorità, i vezzi da capricciosa, l'apprezzamento per la cavalleria... A questo punto avrebbe voluto chiederle il suo nome, ma non era il momento giusto e lo sapeva anche troppo bene: cercò di fare ordine tra le domande che gli affollavano la mente.

«Ma come può averlo saputo? Ti fa seguire?»

«Oh, no, non proprio. Ha molte conoscenze all'Altopiano Blu, è uno dei loro consulenti o amministratori... non l'ho mai capito molto bene.»

«Va bene.» Samuel annuì, più per dimostrare a se stesso di aver capito, che per altro. «Ma qual è il problema? Insomma, può lamentarsi quanto vuole, ma tu ora sei maggiorenne. Non può impedirti di partecipare.»

«All'inizio mi ha minacciato di farlo.» Agatha chinò lo sguardo sui propri piedi con aria stanca. «Tuttavia...»

«Tuttavia?» chiese Samuel ansiosamente. Quell'ingiustizia gli bruciava addosso come se l'avesse subita lui stesso. Agatha ebbe all'improvviso un guizzo, un sorriso malizioso, per quanto amaro.

«Gli ho ricordato che nel caso fossi estromessa ingiustamente dal Torneo, il mio avvocato sarebbe pronto a far causa a lui e all'intera Lega.»

Proprio come i suoi Pokémon, Agatha era dunque molto meno indifesa e sprovveduta di quanto poteva sembrare: ben nascosti, ella aveva i suoi artigli ed erano avvelenati. In modo del tutto irragionevole eppure irresistibile, Samuel se ne sentì compiaciuto. Quella ragazza gli piaceva sempre di più, ma tornò a cercare di concentrarsi sul problema. «Non puoi cambiare amministratore?»

«No. Beh, potrei, ovviamente, ma non saprei a chi rivolgermi e non voglio mettermi in mani sbagliate. Il signor Firefly era l'amministratore di mio padre ed è comunque molto bravo per le questioni amministrative: finora, sotto questo aspetto, non ho mai potuto lamentarmi.»

Alla luce di tutte queste rivelazioni, Agatha era sola al mondo e affidata a uno stuolo di burocrati e legali. Tutto sommato, il suo caratterino e la sua solitudine sembravano aver assunto ai suoi occhi già ragioni più profonde.

La ragazza levò il capo verso di lui ed ebbe un pallido sorriso stanco. «Ti ringrazio, Samuel, ma so come difendermi, e comunque non è nulla di grave. Il signor Firefly minaccia sempre più di quanto sia effettivamente disposto a fare.»

No, Agatha non aveva bisogno di essere protetta e difesa, questo era appurato, ma in quelle condizioni, dopo ciò che di lei egli aveva scoperto, Samuel non se la sentiva proprio di abbandonarla. Non sapeva bene come trattare con le ragazze, perciò si risolse ad agire come avrebbe fatto con un amico, a costo di compiere qualche errore imperdonabile, e le diede una pacca sulla spalla.

«Sembra proprio un gran bastardo, il tuo amministratore» disse. «Pensi che potremmo farlo infuriare un po' di più allenandoci insieme per qualche giorno? Chissà... magari qualche spia potrebbe riferirglielo e causargli un colpo apoplettico.»

La ragazza parve un poco risollevata alle sue parole. Rise appena. «Già... sono certa che gli verrebbe.»

«Guarda che ero serio.» Per sottolineare le proprie parole, Samuel le porse gravemente la mano. «Affare fatto, signorina?»

Levando su di lui occhi neri e profondi come abissi, Agatha afferrò la sua mano e la strinse.


Samuel non aveva pensato che a due o tre giorni di allenamento condiviso, ma quel periodo cominciò a protrarsi a dismisura senza che nessuno dei due manifestasse la benché minima intenzione di porvi fine.

Non era mai stato il tipo di allenatore da viaggiare con qualcun altro, condividere il proprio spazio, accettare di sottostare ai bisogni e ai tempi di un'altra persona, ma non aveva neppure mai avuto niente in contrario: semplicemente, non ci aveva mai provato.

Certo, Agatha aveva talora atteggiamenti imperiosi e arroganti, ma Samuel non li trovava particolarmente difficili da tollerare: nel suo profondo li trovava interessanti, forse perché ella differiva di molto dall'idea di donna che aveva sempre avuto e disprezzato nella propria testa, quella di una creatura sottomessa e bisognosa, immatura e incapace di difendersi. Pur nei suoi piccoli atti da capricciosa, ella non aveva alcunché d'infantile. Era testarda, certo, e assolutamente irremovibile dalle proprie decisioni, ma proprio questa sua grande capacità di decidere per se stessa, di aggrapparsi alle proprie idee e opporsi strenuamente a chiunque le fosse contrario, gli sembravano piuttosto qualità che non difetti. Per contro, anche Samuel reputava di esserle simpatico: non poteva esserne certo, ma era convinto che se così non fosse stato, Agatha non avrebbe esitato a mandarlo al diavolo.

Tutto sommato, allenarsi con lei non gli dispiaceva dunque, per quanto più di uno gettasse loro sguardi strani o mezze parole di sospetto: era ancora troppo insolito che un ragazzo e una ragazza viaggiassero insieme, ma Agatha era decisamente troppo superba per darvi peso e a Samuel, semplicemente, non importava. Si spostarono gradualmente più a nord a partire da Smeraldopoli: per quanto Samuel conoscesse quei percorsi ormai come le proprie tasche, si rese conto in fretta che percorrerli al fianco di Agatha dava loro un aspetto nuovo. Viaggiare con lei era piacevole: era incappare in un temporale estivo, inaspettato e travolgente, e correre spontaneamente, senza averlo stabilto, a ripararsi dalla grandine nelle voragini profonde della Grotta Diglett e trascorrere il pomeriggio seduti nell'ombra, senza vedersi se non quando un lampo improvviso squarcava l'aria illuminando i loro volti, e parlare a bassa voce senza bisogno di guardarsi. Era attraversare il Bosco Smeraldo, camminando adagio sul sottobosco fangoso e sotto i giochi luminescenti che il sole, filtrando attraverso le foglie, disegnava sui loro volti, alterando i loro tratti in strane tonalità gioiose e virenti. Era dormire sotto le stelle, in un prato ancora umido e profumato di vita e di terra, distanti ma consapevoli l'uno della presenza dell'altra persino tra il sonno; era inseguirsi sui pendii montani e dentro le grotte del Monteluna, raggiungendosi e distanziandosi in un gioco di risate echeggianti attraverso le pareti gocciolanti; era parlare a lungo nella notte che calava, attorno a un fuoco fin oltre l'ora di dormire, e vedere la luna riflettersi in grandi occhi neri e insospettabilmente melanconici che erano come specchi di cielo notturno privi di altre luci.

Come sospettava, Agatha apparteneva davvero a una famiglia molto importante, proveniente da Lavandonia: quando Samuel riuscì a scoprire il suo cognome, rimase tanto sopreso da farla ridere. «Non l'avresti mai detto, vero?»

«Non so.» Samuel disegnò distrattamente con un bastone incerti disegni nella cenere del loro fuoco. Si erano accampati per la notte poco a est di Celestopoli, in una zona molto amata per i campeggi. «Solo, non me l'aspettavo, ecco. Non pensavo che una ragazza di buona famiglia come te facesse l'allenatrice.»

Agatha si rigirò tra le mani la tazza del loro tè insipido. «Beh, non c'era molto altro che potessi fare... a parte vivere di rendita. Ma visto che è il signor Firefly a occuparsi di tutto il mio patrimonio, neppure quello era molto interessante.»

«Suppongo di no» riconobbe Samuel. «Torni spesso a casa? A Lavandonia, insomma.»

«Ogni due o tre mesi, per discutere col signor Firefly e mettere qualche firma. Non ho mai voluto concedergli la mia delega plenaria, perciò ha ancora bisogno di tutti i miei consensi per intraprendere un investimento o cose del genere.» Agatha scosse un poco la tazza, osservando il volgersi degli archi di liquido sulle pareti. «E tu? Torni mai a casa? Ah, che sciocca» soggiunse ridendo appena. «Non ti ho neppure chiesto da dove vieni.»

Samuel si appoggiò alla parete di roccia che pendeva a picco dietro il loro piccolo accampamento, allungando le gambe verso il fuoco, e levò pensierosamente gli occhi verso le stelle. Qualche nuvola dall'aspetto poco rassicurante si stava affacciando attorno alla sua visuale, mascherando a tratti uno spicchio di luna calante. «Non è nulla di che.»

«Su, dimmelo» insisté Agatha, protendendosi verso di lui. «Non hai l'accento di Johto, dunque devi essere di Kanto, ma di dove precisamente?»

Al suo confronto, quello di una ragazza di una delle famiglie più importanti e antiche di Lavandonia, Samuel sapeva anche troppo bene di non avere alcunché d'interessante da dirle. Si prese qualche istante di silenzio, continuando a osservare le stelle, ma all'improvviso un oggetto duro e angolato lo colpì inaspettatamente alla fronte, strappandogli un'esclamazione dispresa. Afferrò l'oggetto prima che cadesse, accostandosi in fretta al fuoco per vederlo alla luce: era una pigna.

«Agatha, sei impazzita? Mi hai tirato una pigna addosso!»

«Ovviamente» sbottò Agatha stizzita. «Da dove vieni, insomma?» Gli mostrò il pugno chiuso, le dita appena allargate a trattenere qualcosa. «Se non mi rispondi, stavolta ti tiro addosso un sasso.»

«Sei proprio un demonio» sbuffò Samuel scuotendo la testa, ma del tutto incapace di arrabbiarsi con lei. «Ti avverto che rimarrai delusa. Vengo da Biancavilla, contenta?»

«Biancavilla?» ripeté Agatha, con lo stesso tono che avrebbe usato se lui le avesse detto: Vengo dall'asteroide B612.* «E dov'è?»

Samuel dovette trattenersi dal tirarle a sua volta la pigna addosso. Non si picchiano le ragazze... anche se a volte quella ragazza in particolare sembrava non chiedere altro che una buona scrollata. «A sud di Smeraldopoli, sulla costa, più o meno alla stessa longitudine dell'Isola Cannella. Valeva la pena di tirarmi una pigna addosso per un villaggio di quattro o cinque case?»

«Quante storie per una pigna!» sbuffò Agatha. «Beh, non c'è nulla di male. Anche Lavandonia è un paese molto piccolo. Abbiamo solo la Torre, e ti garantisco che non ha nulla d'interessante.»

Rimasero in silenzio per qualche istante, era un silenzio quieto e rilassato di crepitare del fuoco e di membra stanche e contratte per il troppo camminare. Samuel tirò pensierosamente la pigna tra le fiamme, dove essa crepitò e diede un piccolo scoppio per l'eccessivo calore.

«Non sono più tornato a casa da quando sono partito» disse. Parlava rivolto alle fiamme, eppure lo stava dicendo solo per lei. Sentì che Agatha si sistemava meglio accanto al fuoco, si tendeva verso di lui con tutta la propria attenzione. «Mia madre si è risposata quando avevo quattordici anni e suo marito... non so, non mi è mai piaciuto. Eppure è un brav'uomo, sai.»

«Per questo non sei più tornato?» chiese Agatha a bassa voce. Samuel assentì semplicemente. Non c'era davvero nulla da dire al riguardo. «Il tuo papà è morto?»

Un ciocco di legno scivolò verso il basso tra le fiamme, levando una nuvola di scintille. «No. Se n'è andato.»

Agatha colse al volo il senso profondo delle sue parole. Gli si accostò maggiormente, scivolando verso di lui. «Era un allenatore?»

«Sì.» Dopo lunghi secondi, Samuel si decise finalmente a guardarla direttamente. Il suo volto era arrossato per il calore, la sua pelle brillava di toni aranciati. «Suppongo che per lui fare l'allenatore fosse molto più importante che avere una famiglia. È per questo che io non intendo continuare a fare l'allenatore per tutta la vita, come lui... voglio fermarmi da qualche parte, costruire una casa, sposarmi e veder crescere i miei figli. Una cosa del genere, insomma. So che la riterrai un'idea stupida» soggiunse con una mezza risata imbarazzata. «Forse lo è, ma per me la famiglia è importante e io ne voglio una mia. Ora ridi pure.»

Ma il volto di Agatha, molle di fuoco e di luna, era serio e immobile. Solo i suoi occhi liquidi guizzavano nella notte, scrutandolo fissamente.

«Non c'è nulla da ridere» mormorò invece con voce strana. «La famiglia è... beh, non importa. Su, prepariamoci per la notte» concluse poi all'improvviso, in modo decisamente troppo brusco, alzandosi in piedi; ma a Samuel non dispiaceva cambiare argomento e non si oppose. Non pensava mai a suo padre, se poteva evitarlo, anche se non lo aveva infastidito parlarne ad Agatha. Si alzò a sua volta e si stiracchiò.

«Sai che non ti perdonerò mai per quella pigna, vero?» chiese sforzandosi di essere serio, ma sentendosi suo malgrado più divertito che irritato. Continuava a stupirsi di quanto si sentisse profondamente incapace di arrabbiarsi con lei.

Volgendosi appena verso di lui, Agatha gli gettò un'occhiata di superiorità. Persino quei suoi sguardi altezzosi da aristocratica erano diversi, quando li riservava a lui, o almeno Samuel di questo era convinto.

«Smettila di lamentarti. Piuttosto, dove andiamo domani?»

«Beh, ora siamo piuttosto a nord.» Con un sospiro, Samuel mise da parte la storia della pigna: sapeva già che con Agatha era impossibile spuntarla, dopotutto. «Possiamo andare a sud, non so... Azzurropoli?»

«Un po' snob, ma perché no?» Agatha prese il proprio sacco a pelo e lo distese ordinatamente al suolo a poca distanza dal fuoco. Sollevò gli occhi su di lui. «Ti dispiace, Samuel?»

Ti dispiace?, nella lingua di Agatha, voleva dire semplicemente: posso avere qualche minuto di privacy? Samuel si era ormai rassegnato al suo lungo rituale di preparazione per la notte, che le richiedeva una decina di minuti ogni sera, e aveva imparato fin dal primo giorno che era suo preciso compito allontanarsi per quel lasso di tempo per permetterle di sistemarsi in pace.

Trascorse perciò il quarto d'ora seguente aggirandosi a un centinaio di metri dal loro accampamento: il percorso era vuoto e silenzioso, la notte era nera e limpida. Quando tornò, trovò Agatha avvolta in una nube di coperte, coi capelli intrecciati e gli occhi già chiusi. Probabilmente stava già dormendo. Samuel gettò sul fuoco un po' di cenere e s'infilò a sua volta nel proprio sacco a pelo, voltandosi dall'altra parte sul terreno duro.

Oltre che di un appetito formidabile, il suo corpo era naturalmente dotato anche di una straordinaria capacità di addormentarsi quasi immediatamente ovunque si trovasse. Qualche minuto dopo, perciò, quando era già ormai sprofondato nello stato di pesante dormiveglia che precedeva immediatamente il sonno, non riuscì a determinare subito se la nitida voce di donna che gli giunse all'orecchio, lontana e assieme vicinissima, fosse un sogno o invece reale.

«Samuel...»

«Mmh?» riuscì appena a borbottare, cercando di compiere lo sforzo sovrumano di sollevare le palpebre ormai divenute grevi come macigni. Dopotutto non valeva veramente la pena di farlo, probabilmente: era sicuro che Agatha stesse già dormendo, perciò doveva trattarsi di un sogno.

«Scusa per la pigna.»

Sì, decisamente era un sogno: evidentemente stava già dormendo anch'egli. Samuel si concesse di sorridere tra sé tra il sonno, o di sognare di sorridere, e fece sogni strani e confusi in cui si chiedeva se una persona potesse vederne un'altra sorridere al buio.



*Piccolo omaggio a Il piccolo principe, che ho riletto pochi giorni prima di scrivere questa scena. Ah, e prima che me ne dimentichi, il nome dell'amministratore di Agatha è invece ispirato al meraviglioso protagonista de La guerra lampo dei Fratelli Marx, uno dei miei film preferiti, anche se non ha nulla da condividere con quel personaggio.




Buonasera a tutti!

Un capitolo di passaggio, ma fondamentale per i prossimi sviluppi: spero che non risulti noioso o pesante. Il prossimo sta venendo smisuratamente lungo, almeno per ora, quindi temo che si farà un poco aspettare, ma vi prego di voler avere pazienza.

Che dire di questa parte? Decisamente, l'Agatha dei giochi mi dà l'impressione di una vecchietta aristocratica, di quelle vecchie famiglie decadute... ho voluto rendere anche questo aspetto in questa storia e suppongo che se ne capirà più avanti il significato.

Un bacio e un abbraccio di cuore a crystal_93 e a Mad_Dragon per le loro recensioni: grazie infinite, come al solito, e alla prossima!

Afaneia

   
 
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