Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: WhiteWitch    16/02/2015    5 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nda: Breve nota, davvero breve: ringrazio tutti coloro che hanno iniziato a seguire, a preferire e a recensire questa long. Apprezzo veramete moltissimo il supporto che mi state dando e sappiate che mi sono divertita un sacco a leggere le vostre congetture riguardo la trama xD Inoltre ricordo come sempre che trovate il capitolo anche su Wattpad e di nuovo vi linko il mio blog personale, Gaiman in the T.A.R.D.I.S., Se deciderete di passare sarò solo felice di vedervi! Fine.


Capitolo 3.

Image and video hosting by TinyPic
 

Avevo smesso di pensare a George nel momento stesso in cui mi ero addormentata, la notte di capodanno, dopo aver addotto un orribile mal di stomaco ed essermi dileguata dalla festa dopo appena mezz'ora dal conto alla rovescia. Non avevo nemmeno dovuto salutarlo, era scomparso chissà dove.
Il cuscino aveva accolto la mia testa – e la bava che era colata dalla bocca – come un vecchio confidente e mi ero addormentata di sasso, un sonno profondo e poco riposante.
Mi ero risvegliata il giorno dopo con un mal di testa che avrebbe fatto invidia ad un pirata beone ed avevo ciondolato stancamente per la casa. Io e i miei coinquilini sembravamo un gruppo di zombie, quel primo di gennaio, ciascuno reduce da una festa diversa. Però devo dirlo, io li battevo tutti, nonostante fossi rientrata ore prima di loro. Ero così pallida da suscitare domande scomode, come ad esempio: “Ti sei fatta, Léo?”.
A guardarmi, sembravo un veterano tornato dalla guerra.
Eppure George era stato completamente dimenticato. Non ci pensai per l'intera mattinata, né quando consumai un pranzo a base di cereali asciutti e the verde – il mio coinquilino Jacques mi garantì che era un toccasana, per i postumi: immensa cazzata, non fatelo mai – e nemmeno nel pomeriggio, quando crollai pesantemente sul divano, pronta a guardarmi un classico del periodo natalizio: La casa nella prateria.
Fu solo quando Marie mi telefonò per chiedermi se mi fossi divertita che mi ricordai dell'esistenza di George “Sono troppo carino” Addison.
«Merda», commentai con spontaneo sgomento quando mi venne in mente il suo bel visino.
«Che hai?», fece Marie all'altro capo del telefono.
«Niente», mentii.
Lo sguardo fiducioso e carico di aspettativa di George mi si librò davanti come una specie di visione estatica. Mi accorsi di avere l'espressione di un pesce lesso. Immaginatevelo come un kuokka, uno di quegli animaletti australiani che sorridono anche mentre dormono. Giuro che me lo sarei mangiato, tanto era carino.
Quando fu impossibile evitare l'argomento e fui costretta ad ascoltarla mentre parlava della gente che avevamo conosciuto, Marie disse con noncuranza: «Sembra simpatico».
«Chi?», chiesi ostentando tranquillità.
«Come “chi”?», domandò dopo un attimo di pausa. «George. Quello con cui hai parlato per tipo tutta la sera. Sei sveglia, Léo?».
Certo, Marie, come no. «Sveglissima», affermai in tutta sicurezza. «Sì, è simpatico. Niente di eccezionale, per la verità».
Era un'elefantiaca bugia, ma era necessaria: per la mia sopravvivenza, oltre che per le innocenti e bendisposte orecchie di Marie. Fu anche sufficiente: lei si distrasse abbastanza da iniziare a raccontarmi – di nuovo – di quanto fosse stato fico vedere Louise cadere a terra in una pozza di umida e appiccicosa aranciata.
C'era una sola semplice soluzione: sparire per sempre.
Mi chiusi in casa, principalmente per evitare di incrociare anche solo per errore il bel culetto di George e per iniziare a organizzare la mia tesi di laurea.
Laurearsi alla Sorbona non equivaleva di certo a trovare un lavoro nel giro di poco tempo, anzi, sarei stata solo una dei tanti ed io avevo un bisogno disperato di un impiego remunerativo. Se c'era una cosa che mi piaceva più della nicotina erano i soldi. “I soldi fanno la felicità”: me lo ripetevo costantemente, ogni giorno. Era come un mantra: non avevo idea di come sarebbe stato il mio futuro, ma ero sicura che sarebbe stato ricco e pieno di bei soldoni.
O almeno, questo era ciò che mi auguravo. Amavo troppo certi beni di lusso per volervi rinunciare con facilità. Il primo passo per partire alla grande era la tesi, chissà che il mio relatore non potesse decidere di propormi per un master di alto livello o chissà quale altra cosa fantastica.
Stendere una tesi di circa un centinaio di pagine sul ruolo che l'arte ha avuto nel corso delle guerre in epoca moderna mi sembrava un buon biglietto da visita.
Smisi di vedere gente: Marie era reclusa tanto quanto me, presa com'era dal suo lavoro sulle avanguardie russe, vidi Paul molto poco ed evitai categoricamente Max, che probabilmente faceva da accompagnatore a George. In un clima di concentrazione come quello non mi fu troppo difficile accantonare l'argomento “youtuber sexy”.
Passavo da una biblioteca all'altra, da un museo all'altro, sfogliando libri e consultando vecchie riviste divulgative. Ci andavo a nozze, avrei trascorso ogni minuto della mia vita a fare quel tipo di lavoro, mi divertivo da morire.
E avrei potuto continuare a divertirmi se Paul non avesse voluto intromettersi.
Venne da me una sera, con la scusa di voler mangiare una pizza insieme approfittando dell'assenza di altre forme di vita in casa. Io non ero molto d'accordo, stavo studiando una monografia interessante sui dipinti di Delacroix, ma lui mi piombò in camera ugualmente.
«Coraggio, professoressa», mi apostrofò con ironia. «Non hai fame?».
Aveva tentato di essere spiritoso, ma mi infastidì. «Paul, non mi va. Tu fai come fossi a casa tua, ma credo che continuerò a studiare».
«Dai, amore, prenditi una pausa», disse avvicinandosi. Mi passò le mani sulle spalle; io le agitai, cercando di scacciarlo, ma lui lo interpretò come un invito a continuare. «Posso farti un massaggio, se vuoi».
«No, grazie».

Stavo facendo uno sforzo sovrumano per non insultarlo. Non lo volevo tra i piedi, non volevo le sue dannate mani addosso e volevo studiare: era chiedere troppo? Evidentemente sì, perché Paul continuò a massaggiarmi le spalle ignorando qualsiasi protesta il mio corpo gli presentasse.
Mi resi conto che stavo rileggendo la stessa riga per la quinta volta. Chiusi il libro di scatto, nervosa. «Bene!», esclamai. «Mangiamo, allora».
Paul sembrava non notare il mio stato d'animo: era stupido, forse? Tutto il mio fisico stava dimostrando il mio scarso apprezzamento per i suoi sforzi. Mentre telefonava ad una pizzeria per ordinare rimasi seduta al tavolo della cucina, in silenzio, con una sigaretta in bocca per non parlare. Perfino l'idea della merdosa pizza francese mi faceva rivoltare lo stomaco.
Mi sentivo in colpa: lui era così carino, faceva di tutto per distrarmi dallo studio e si sforzava di essere allegro. Perché non ridevo alle sue battute? Beh, prima di tutto perché erano battute del cazzo: non avrebbero fatto ridere nessuno, nemmeno un idiota. Paul non era capace di far ridere la gente e non riuscivo a capire come mai si ostinasse a provarci.
«...e allora gli ho detto che poteva farsi fottere», annunciò.
Sbattei le palpebre, accorgendomi solo in quel momento che aveva posato la cornetta e che stava parlando con me. Non avevo idea di cosa avesse detto, non una parola mi era penetrata nel cervello. Annuii vigorosamente. «E poi?», domandai, restando sul vago.
«E poi mi hanno dato ragione».
«Come sempre», ironizzai. Lui aveva sempre ragione e gli altri sempre torto.
Paul aggrottò le sue sopracciglia scure. «Che intendi?».
Abbassai lo sguardo. Ero maledettamente ingiusta con lui e lo sapevo. Mi passai la lingua sulle labbra, soffiando fumo dalla bocca. «Scusami, Paul», mormorai. «Sono molto stanca, non è mia intenzione essere cattiva».
Mi sorrise con fare comprensivo: la cosa peggiore che potesse fare. «Vedi? Devi riposarti».
Odiavo quel suo atteggiamento di merda. Considerava il mio corso di laurea inutile come un fiammifero usato e non si dava pena per nasconderlo. Paul era tranquillo a riguardo, come se fosse ovvio che quella per la storia dell'arte fosse una specie di passione temporanea. Non lo era, non lo era affatto e lui trattava il mio studio con leggerezza, in un tono tanto sincero quanto fastidioso.
Non replicai. Quando il fattorino arrivò ingurgitai la cena fino all'ultimo pezzo, immaginandomi un'idilliaca pizzeria romana a Trastevere, dove avrei mangiato una pizza vera, con formaggio filante, pasta sottile e una crosta morbida. Quando Paul scelse un film da vedere insieme approvai con un sorriso e mi sorbii due lunghe ore di Rambo che spara alla gente.
Poi andammo a letto: cercai di annegare nella pelle, nei capelli, nei baci e nei gemiti di Paul. Cercai di apprezzare come facevo sempre il suo bel corpo, di notare come le sue braccia fossero scolpite e la sua lingua capace. Eppure nulla riusciva a distogliere la mia attenzione dalla mia rabbia, nemmeno ciò che di solito mi piaceva di più.
Non sapevo perché fossi così incazzata. Sembrava che ultimamente passassi le mie giornate ad incazzarmi. Paul era bello, disponibile, mi voleva e, diciamolo, mi faceva godere alla grande. Ma non mi piaceva fare sesso, non quella sera, semplicemente non mi andava. Lui non se ne accorse: ero una brava attrice. Mentre lo baciavo finsi trasporto, mentre si muoveva in me finsi entusiasmo. La mia testa era da un'altra parte e anche il piacere fisico non arrivò mai.
Mi sentivo uno schifo. Mi sentivo cattiva e sbagliata. C'era gente che avrebbe ucciso per farsi toccare da Paul come lui stava toccando me. Io non mi accorgevo nemmeno che fosse lì.
Dormì da me e per tutta la notte il peso del suo braccio intorno al mio bacino mi parve insopportabile. Alla fine finsi di rotolare lontana nel sonno, anche se in realtà ero sveglia e vigile. Lui non si destò e continuò a russare sommessamente.
Mi scoprii infastidita da quelle piccole cose che prima mi piacevano da morire. Il modo in cui respirava mentre dormiva, ad esempio: adoravo ascoltarlo, ma quella sera non mi piaceva. I suoi grossi piedi numero quarantasei che si incastravano con i miei erano così intriganti, mi facevano sentire sempre sicura. Invece quella notte preferii tenere i miei piedini freddi fuori dalle coperte, nonostante il riscaldamento si spegnesse nelle ore notturne.
“Che problema ho?”, mi chiedevo.
Capii che ci voleva una reazione decisa da parte mia: mi imposi non solo di ravvicinarmi a Paul, ma anche di svegliarlo e fare altro sesso. Era l'unica cosa che mi venne in mente per tentare di distrarmi da qualsiasi cosa mi stesse mandando in pappa il cervello.

***

Il giorno dopo mi alzai con la sveglia di Paul, alle sei, ancora più depressa ed incazzata di prima. Guardandomi allo specchio mi parve di avere il sex appeal di Mr. Bean – il che, diciamocelo chiaramente, non è per niente un complimento da fare a se stessi.
«Sembro la Morte», commentai.
«Sei bellissima».
Dilatai le narici, facendo smorfie per distendere i muscoli del viso. «Pensa se fossi brutta».
«Sei stata in casa troppo tempo», mi disse Paul, raggiungendomi davanti allo specchio e abbracciandomi da dietro, le labbra a sfiorare il mio collo. «Vedrai che con qualche giorno all'aria aperta tornerai come nuova. Sono fiero di te, professoressa».
Di nuovo. Mi stava prendendo in giro di nuovo. Avrei potuto accettare una cosa del genere se lo avesse fatto consapevolmente. Invece quel furbastro era genuinamente convinto di aver usato un nomignolo affettuoso.
“Imbecille”.
Prima di dire qualcosa di cui poi mi sarei pentita svicolai verso il bagno, nel modo più delicato possibile, e mi chiusi dentro.
Dopo un istante bussò alla porta. Nemmeno in momenti come quelli riusciva a starsene zitto? No, figurarsi. «Amore? Posso entrare?».
«Sono sul cesso».
«Volevo dirti che sto uscendo, vado al lavoro», disse a voce alta. «Ci vediamo più tardi?».
Forse ero davvero stata troppo in casa. Magari Paul aveva ragione, l'isolamento non mi faceva bene. Chissà, forse era per quello che stavo detestando cordialmente l'intero pianeta. Magari dopo una passeggiata anche lui sarebbe tornato a piacermi, pur nel modo strano in cui io e lui ci piacevamo. O magari avevo avuto ragione, quando avevo detto dei miei timori a Marie, quasi un mese prima. Le cose con Paul stavano andando malissimo, forse ero davvero sull'orlo della rottura, eravamo troppo diversi. Ma lui era così bello e si stava sforzando di essere gentile.
Da un lato avrei voluto uscire dal bagno, gettarmi tra le sue braccia e costringerlo a convincermi che andava tutto bene. Dall'altro odiavo il suo comportamento e volevo solo sbatterlo fuori dall'appartamento.
Accettai, controvoglia. «Magari. Facciamo un giro in quel negozio asiatico a Montmartre? Voglio un anello che hanno in vetrina».
«Va bene», rispose Paul oltre l'uscio di legno. «Sai, è stato bello stanotte. Il modo in cui mi hai svegliato e quello che hai fatto».
“Ci credo che ti è piaciuto, stronzo, ti ho svegliato con un pompino”. «Figurati, amore, quando vuoi!».
Aspettai di sentire la porta di casa chiudersi per uscire dal bagno. Spalancai le tende del salotto, facendo entrare un po' di luce, e vagai per la casa per qualche minuto, senza uno scopo preciso.
Jacques era fuori con alcuni amici per la settimana, Madeleine era in vacanza dai suoi genitori a Lione. Anche l'incomprensibile coinquilino polacco, del quale perfino il nome sembrava pronunciato in klingon, sarebbe stato fuori per tutto il giorno, avevo la bellezza di dodici ora prima che tornasse. Era una sensazione alla “il mondo è mio”, potevo fare quello che volevo.
E quello che volevo era dormire per sempre.
Crollai sul letto, decisa a riposare ancora, quando il mio cellulare vibrò ed emise un ding che a quell'ora aveva un che di sinistro e invadente. Chi era il demente che mandava messaggi a quell'ora? Che ore erano, poi? Presto, decisamente troppo presto perché chiunque potesse parlarmi.
Cercai il cellulare: nella borsa, sul pavimento. Troppo lontano per raggiungerlo con una mano, troppo faticoso alzarsi. Strisciai giù dal materasso e quasi gattonai fino al mio obbiettivo. Ricevevo pessime vibrazioni dal messaggio appena arrivato: ero certa che si trattasse di qualcosa di terribile, magari una catastrofe su scala mondiale o la morte di un congiunto.
Presi il telefono e aprii la casella dei messaggi in entrata stravaccandomi sulle piastrelle di marmo. Non era morto nessuno, ma la violenza del testo era ugualmente insostenibile.

 

Nuovo messaggio: 0 sconosciuto

-Max-

“Ciao puttanella, ti va un cappuccino?
Vieni da Starbucks daiiiii muovi
quelle chiappe d'oro :)))
C'è anche George, quello con cui hai
parlato alla festa, ti ricordi?”


Sollevai le sopracciglia. Fissai il telefono a lungo, la luce accecante del monitor in piena faccia, senza nemmeno un pensiero per la testa. Non sapevo nemmeno se ridere istericamente o piangere disperata. Rimasi in muta contemplazione del messaggio per un tempo che mi parve quasi infinito, senza sbattere le palpebre, a malapena respiravo.
Poi, semplicemente, rimisi il cellulare nella borsa, mi alzai, andai in cucina e mi mangiai quasi tutto il frigo per colazione, nel tentativo di calmare i miei nervi.

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: WhiteWitch