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Autore: LarcheeX    17/02/2015    3 recensioni
Un impercettibile sorriso comparve sulla sua faccia, e per quanto fosse sadico, non potè sembrarmi più dannatamente sincero.
“Il nome è Sherlock Holmes. Sono il primo consulente investigativo al mondo."
~~~
“Ti sei ripreso da ieri?”
Era Watson.
Da vicino era ancora più stanco e acciaccato di quanto avessi constatato in precedenza, e sembrava profondamente annoiato, o semplicemente era il suo viso. Eppure sembrava che si aspettasse qualcosa da me.
{ Teen!lock || Storia a quattro mani }
Sherlock's POV: Larcheex
John's POV: DoubleDisasterDi
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Lar: er. dunque, sì, questo è il capitolo scritto dalla sottoscritta.
Di: Ouhh, what's up people! Tocca a Sherlock, oggi. Vedrete, vi piacerà!
Lar: sseh

 

2. Why does everything happen to me?
 
I don't care what you think
As long as it's about me
The best of us can find happiness
In misery
{ Fall out boy – I don’t care }
 
Non tornai in classe, dopo la pausa pranzo, non mi recai al mio armadietto – anche perché non avevo ancora ritirato la chiave in segreteria né mi interessava farlo – né tentai di presentarmi davanti al decerebrato che mi aveva sequestrato il cellulare: semplicemente, rubai un panino dalla mensa e mi diressi verso la biblioteca. Avrei potuto controllare le informazioni di cui avevo bisogno anche sul giornale che veniva appeso sulla bacheca, quindi il cellulare diventava un problema secondario. L’unica cosa che mi preoccupava era che l’idiota potesse cancellare qualche messaggio importante con materiale sensibile allegato, capitava che i bulletti agissero per dispetto alle loro vittime, e io, per quanto brillante e decine di volte più intelligente e sveglio di lui, non facevo di certo eccezione.
Comunque, al massimo avrei detto a Lestrade di inviarmi tutto di nuovo.
“Giovanotto, cosa stai facendo?”
La voce gracchiante e probabilmente deformata da un eccessivo uso di sigari e nicotina apparteneva al custode e gestore di quell’infimo locale pieno di libri rimasti senza lettori e di scaffali infestati da acari della polvere e nuvole di fuliggine, ma non mi degnai di notarla, cercando il luogo dove il giornale veniva solitamente appeso. Non ero un frequentatore assiduo della biblioteca – per fortuna, oserei aggiungere, data la quantità di polvere sarei diventato asmatico – e non avevo alcuna idea di dove fosse la bacheca, ma non mi arresi, e cominciai a cercare tra gli scaffali, indaffarato.
Non riuscii a scampare al custode, purtroppo, che si avvicinò con fare aggressivo, probabilmente finalmente atto a sfogarsi contro uno dei tanti giovani che gli rovinavano le giornate impiegate in un lavoro che non lo soddisfaceva: “Giovanotto, dovresti essere in classe, adesso, la biblioteca è chiusa!”
“E tu dovresti essere a insegnare in università, data la cura con cui tieni appesi tutti i tuoi titoli vicino alla scrivania, invece sei qui a far da guardia a libri che nessuno ha intenzione di sfiorare né rubare, quindi, dato che sono probabilmente il primo che si prende la briga di vivacizzare le tue giornate, dovresti lasciarmi fare quello che dico io e porgermi il giornale di oggi.”
Finii fuori dalla biblioteca e dentro l’ufficio della preside.
“Sherlock Holmes.” Asserì la donna, vestita in maniera impeccabile, tradita più volte dal marito dati la caratura eccessiva e il numero dei suoi anelli, né bella né brutta, con un paio di occhiali chiaramente tenuti per il loro affettivo, dato lo scotch sulle stanghette, con due occhiaie pesanti dovute al lavoro notturno.
“Analisi inappuntabile.” grugnii io, ben conscio del fatto di star perdendo tempo prezioso per la risoluzione dell’indagine che stavo svolgendo prima che il custode della biblioteca interrompesse il tutto con il suo frustrato desiderio di essere rispettato dalla generazione successiva alla sua.
“È incredibile di come neanche sia passata una settimana dall’inizio della scuola e già riceva una tua visita.”
“La cosa incredibile è la piccolezza dei tuoi sottoposti di fronte ad un bene maggiore, signora preside.” Sbottai, alzandomi di scatto e dirigendomi a grandi passi verso la porta di quell’ufficio troppo ammobiliato e troppo irritante. Non avevo assolutamente nessun riguardo per quella donna, né per il custode, né per quella scuola che ero stato forzato a frequentare, non se lo meritavano, con quell’atmosfera chiusa e stupida.
“Non mi costringa a prendere provvedimenti nei suoi confronti, Sherlock Holmes.” Tuonò la preside, mentre afferravo la maniglia della porta con tutte le intenzioni di sbattermela dietro una volta uscito verso propositi più adatti al mio cervello. Mi voltai: “Non li prenda, dunque.”
“Questa volta passa solo per il buon nome di suo fratello, che era studente qui qualche anno fa.”
“Andrò a ringraziare lui, allora.”
E, detta quella frase nel modo più sprezzante possibile, me ne andai.
Quella visita non era stata inutile, alla fine: ero riuscito ad arraffare il giornale appoggiato su di un mobiletto di pero nei pressi della porta, notando che fosse del giorno. Lo aprii con foga, come se la fretta potesse compensare in un qualche modo la perdita di tempo, sfogliandolo direttamente verso le previsioni del tempo.
“Pioggia.” Borbottai, con un sorrisetto sodisfatto che mi si allargava in viso: quell’assassino era un vero esperto in chimica, mi venne da pensare, se era riuscito organizzare quei due omicidi con qualcosa di apparentemente casuale come la pioggia che avrebbe innescato una reazione mortale con una sostanza posta sui fiori del davanzale della vittima. Ingegnoso.
Misi mano alla tasca per mandare un messaggio a Lestrade, ma tastai il vuoto. Dannazione, non avevo il cellulare.
Lanciato di lato il giornale, corsi fuori attraversando il cortile e uscendo scavalcando la siepe. Non avevo tempo, se volevo prendere quell’assassino chimico e risolvere il caso.
La casa di Lestrade non era lontana dalla mia scuola, fortunatamente, ma dovetti comunque correre a gambe levate per tutta la strada e i tre incroci che separavano i due edifici, urtando i passanti senza nemmeno prendermi la briga di scusarmi.
Entrai nella camera del mio socio arrampicandomi sull’albero vicino e lanciandomi nella finestra aperta, atterrando sullo scendiletto con una precisione impeccabile, anche se non avevo calcolato la sedia della scrivania in mezzo alla stanza, finendo per inciampare nel tappeto e mezzo disteso sul letto. Non mi ricordavo che la stanza di quell’individuo fosse così stretta.
Pur preso dalla fretta, non potei non notare la carta di qualcosa fin troppo chiaro, per me, sotto il cuscino, ma non ritenni l’oggetto incartato importante per i miei propositi. Se avessi avuto una conoscenza più ampia della fauna adolescenziale mi sarei probabilmente aspettato ciò che trovai di lì a qualche metro, ma le dinamiche amorose né mi interessavano né io sembravo interessare a loro, per cui feci finta di nulla e mi alzai.
Scattai verso la porta, ma non appena la aprii dovetti richiuderla, perché avevo avuto la netta impressione di aver colpito qualcuno sulla nuca. E quel qualcuno era una femmina.
“Che cazz-?” sbottò la voce di Lestrade, dal corridoio, e la porta si riaprì, dandomi la vista sulle figure di una ragazza accasciata per terra a massaggiarsi la testa dolorante e di un esterrefatto Lestrade, adorno della più sbalordita delle espressioni che ben presto si corrugò in un disappunto più totale: “Sherlock! Che diamine ci fai nella mia stanza?!” esclamò, allargando le braccia in un atteggiamento esasperato che non capii: “Sono qui per chiederti delle informazioni, ovviamente.”
Non sembrava molto intenzionato ad ascoltarmi, continuava a guardare la ragazza con l’aria di chi ha davanti un pezzo di torta che moriva dalla voglia di addentare: “Chi è lei? Non sembra Olivia.” Dissi, lasciando dipanare sul viso della ragazza, anonima come un’altra, un’espressione sorpresa e poi disgustata e lei, alzatasi, indirizzò uno schiaffo in direzione di Lestrade e si dileguò.
Ora mi sarebbero state dedicate le attenzioni dovute alla risoluzione del caso: “Ottimo, ora che abbiamo eliminato i fattori di disturbo, andiamo a prendere il portatile di tuo padre, ho bisogno di scrivermi alcune cose.”
“Cosa? E chi diamine è Olivia?”
Senza nemmeno preoccuparmi del fatto che mi seguisse, scesi al piano di sotto e misi mano al portatile di Lestrade senior, accendendolo e accomodandomi sul divano. Non ci volle molto per entrare nell’archivio protetto da password, quell’uomo aveva scelto una parola talmente scontata che quasi mi veniva da ridere, mentre sbloccavo ogni singolo dato della cartella protetta. Non era stato aggiunto nulla dall’ultima volta che avevo guardato, ma avrei dovuto annotarmi tutto il necessario su carta, dato che mancavo del cellulare.
“Stai comodo?” chiese Lestrade, nell’ovvio tentativo di irritarmi, mentre mi si parava davanti. Se pensava di intimorirmi solo perché era più alto di due pollici e trenta si sbagliava. Tra l’altro, aveva un taglio da rasoio vicino al mento, era sporco di grafite sui polpastrelli e i capelli spettinati come sconvolti da un uragano, i vestiti stropicciati e stava pensando di darmi una lezione, una volta per tutte, in modo che io non entrassi più a ufo a casa sua, e la presenza di quel pensiero disturbava i miei ragionamenti sul caso, quindi non era esattamente una figura temibile: “Molto, ma se mi portassi un foglio e un penna sarebbe perfetto.” E, detto questo, giunte le mani davanti al naso, mi eclissai nel mio palazzo mentale.
Il veleno era stato trovato nelle vene delle due vittime precedenti, portato dal sistema polmonare, il che voleva dire che era stato inalato, attraverso una reazione chimica di scambio doppio produttrice di gas che si era azionata con l’acqua piovana, minerale, al contatto di una sostanza posta sulle piante da davanzale.
Com’era stato possibile? E perché?
Nel giro della stessa settimana, tre bersagli vengono a possedere una pianta o dei fiori da esterno – elemento necessario per il funzionamento del piano – non necessariamente dello stesso tipo, e questo l’ho notato osservando il registro dell’agenzia floreale, casualmente, o almeno per un occhio differente dal mio, in comune per tutti e tre. Quindi le piante erano state avvelenate prima per fare in modo che venissero consegnate e poi la reazione si attivasse.
Questo, però, sarebbe stato molto rischioso: una pioggia od un rovesciamento d’acqua casuale sulla pianta avrebbe ucciso anche la persona incaricata della consegna…
“Ho l’assassino!” esclamai, saltando in piedi e facendo scivolare pericolosamente in avanti il portatile, che si sarebbe schiantato per terra se Lestrade non si fosse buttato ad acchiapparlo.
“Chi è?” borbottò dopo averlo assicurato lontano da me e vicino alla presa del carica-batterie. “Colui o colei che ha consegnato la pianta alle vittime. È la stessa persona, di sicuro, dato che doveva fare in modo che il veleno fosse ben assestato perché svolgesse la reazione chimica anche con un innaffiamento sporadico, dato che tutte e tre erano da esterno…”
“Se lo dici tu…” borbottò Lestrade, sempre più perplesso, e la cosa mi irritò più di quanto gli feci intuire: possibile che non arrivasse alle sue pigre sinapsi una cosa così evidente? Comunque fosse, non mi presi la briga di spiegare il mio ragionamento, lasciando che lui ci arrivasse, un giorno, forse quando sarebbe entrato in polizia: “Adesso tu vai di corsa da tuo padre, gli spieghi che deve andare dalla terza vittima, sperando che non sia già morta, e che deve farsi descrivere per filo e per segno l’aspetto del postino che le ha consegnato il regalo, e per poi portare l’identikit alla polizia e arrestare l’assassino.”
Feci per prendere la porta, frettoloso: “Dove stai andando?” mi chiese Lestrade.
“A scoprire perché quelle persone sono state uccise, dato che il come è più che ovvio.”
“Se lo dici tu…”
 
Dovetti interrompere le ricerche sul pretesto degli omicidi perché, letteralmente, mia madre mi trovò a girare per il quartiere senza nemmeno essere rientrato per cena e, irritata come solo io riuscivo a farla diventare, col mio genio indiscutibile, mi aveva tirato per un orecchio fino alla soglia di casa. Probabilmente Mycroft era coinvolto in quella penosa scena, mi venne da pensare, perché non sembrava che mia madre mia avesse incrociato per caso, come se sapesse esattamente dove e come trovarmi.
L’unica cosa che riuscii a trovare furono tracce dello stesso composto sulle piante delle vittime dopo averle afferrate dal davanzale delle loro camere da letto, ma non riuscii a ricavarne nulla nemmeno dopo averlo osservato al microscopio. L’unica cosa che dedussi fu la formula, ma nonostante la mia conoscenza chimica coprisse praticamente qualsiasi tipo di ambito e fosse infallibile anche in un campo ben più professionale del tugurio in cui ero costretto a recarmi cinque giorni su sette, non riuscii a riconoscerla, per cui intuii che si trattasse di un nuovo composto e mi riproposi di controllare i registri delle sostanze a scuola e alla scientifica dove lavorava il padre di Lestrade, il giorno successivo.
“Sei di nuovo rimasto fuori fino a oltre le sette. Non ti vergogni?” sopraggiunse la voce di Mycroft, dopo che, buttatomi sul letto della mia camera con l’aria di chi ha sprecato una giornata a vaneggiare, avevo cominciato a mangiare la cena, oramai fredda, che mia madre aveva lasciato sulla scrivania. “E tu a ventidue anni sei ancora a casa dei tuoi genitori, non ti vergogni?” sbottai io, la cui giornata era già stata abbastanza irritante senza che quella faccia allungata di un debosciato come mio fratello mi si parasse davanti agli occhi. Non aveva nemmeno la metà degli anni dei nostri genitori, e già si comportava come avrebbero fatto loro vent’anni più avanti, avviati verso la demenza senile.
Aveva studiato tutto il giorno, comunque: le spalle lievemente piegate verso dentro, le dita contratte dagli spasmi di fatica di chi ha scritto più di quanto i suoi muscoli potessero permettere, la giacca poco sgualcita, segno di poco e raro movimento, i capelli spettinati, gli occhi affaticati e l’espressione di chi ha ricevuto un pugno sul viso erano tutti chiarissimi segnali. Persino mio padre avrebbe capito.
Come lo avevo analizzato io, così lui aveva fatto con me, e stava assumendo quella tipica espressione di chi ha tutto sotto controllo, di chi ha il potere di carpire i ragionamenti altrui e portarli a termine prima ancora del loro attuale svolgimento, quel sorriso abbozzato appena ma che era sufficiente per far montare la mia irritazione fino a volergli spaccare la faccia di pugni. Non si sarebbe nemmeno difeso, probabilmente, data la sua natura di mollusco, per cui mi dissi che non sarebbe stato male provarci, almeno una volta.
“Chiaramente, il postino.” Disse lui, interrompendo i miei bollori di adolescente e riferendosi al caso che stavo sviscerando: “Ed è ovvio anche il movente…” ma, prima che potesse finire la frase, impedendomi di gustare oltremodo quella questione e la curiosità che mi aveva eccitato fino a quel momento, buttai in fretta il piatto sul letto e, afferrato il cuscino, glielo lanciai con tutta la forza di cui ero capace, mirando e centrando il suo viso: “Non ti azzardare a dire un’altra parola, se non vuoi che bruci tutti i tuoi completi eleganti prima del tuo colloquio di lunedì prossimo!”
Mycroft non si mosse, accusò il colpo senza muoversi, lasciando che il cuscino cadesse a terra: “Non è gestendo la tua rabbia in maniera così scarsa, che riuscirai a farti strada nel mondo.” Mi disse, ma gli impedii di finire la frase, dato che mi lanciai contro di lui per spingerlo fuori dalla stanza e chiudergli dietro la porta.
Come lo odiavo. Era superiore, e sapeva di esserlo, e non mancava mai di farmelo notare: ero cresciuto con l’idea di essere l’essere più intellettualmente inferiore del pianeta, con scarse capacità deduttive, succube di un genio più eclettico e arguto di me, almeno fino a quando il confronto con gli altri esseri umani non fu inevitabile, frequentando la scuola pubblica. Allora capii che l’ambiente creato da mio fratello non fosse esattamente ciò che rispecchiava la realtà e lo odiai ancora di più.
Non che poi la situazione fosse migliorata molto: gli esseri intellettualmente inferiori, dal basso dei loro cervellini inutilizzati e dei loro occhi appannati dall’abitudine e dal buonsenso sociale, si impegnavano con tutta la loro ottusità nel rendermi l’esistenza poco sopportabile.
Ma ci stavo facendo l’abitudine, lo percepivo. Avevo smesso di reagire, smesso di arrabbiarmi, la calma e la lucidità che tanto caratterizzavano Mycroft stavano delineandosi anche nel mio cervello, uniche vie d’uscita dalla follia. Nonostante avessi un livido sullo stomaco che non aveva smesso di inviarmi dolorose fitte al cervello per tutta la giornata proprio per la mia iniziata indifferenza al mondo inferiore, avevo perso le intenzioni di scagliarmi contro i miei aggressori con la forza di un puledro indomabile, di vendicarmi e di protestare.
Ero nettamente superiore, e l’avrei dimostrato in altro modo.
 
Il giorno dopo mi prefissai due obiettivi, nel varcare la porta della scuola. Il primo era, ovviamente, la restituzione del mio cellulare. Non avevo nessuna intenzione di continuare a recarmi ogni singolo giorno a casa di Lestrade per ricevere informazioni e farmele appuntare su della carta, sia perché non riuscivo a gestire troppi fogli contemporaneamente, poiché producevano un fruscio fastidioso che m’impediva di pensare adeguatamente, sia perché vedere Lestrade e la sua faccia rimbambita tutti i giorni poteva portare a pericolosi esiti per la mia eccezionale capacità di deduzione. Il secondo era intrufolarsi nel laboratorio di scienze per controllare se qualche sostanza annotata tra i registri corrispondesse alla formula che avevo dedotto dal composto trovato sui fiori.
Nonostante la seconda contravvenisse a molte più regole della prima, la trovai di più facile attuazione: non avevo idea di dove fosse Eric – o Alaric? – Nathan e la naturale differenza di stazza tendeva a dissuadermi dall’impresa senza provvedermi di adeguati fattori di vantaggio, per cui, ignorando il fatto che le lezioni che dovessi frequentare fossero in tutt’altro luogo, mi diressi al principale laboratorio di scienze.
Non c’era nessuno, segno che le lezioni in quell’aula fossero programmate dall’ora successiva, e, dopo aver cercato in lungo e in largo tra i tanti banconi da laboratorio, mi diressi verso la cattedra.
Non feci in tempo ad aprire i cassetti che la mia vista fu impedita da una sorta di fagotto azzurrognolo arrotolato sul pavimento. Solo quando urtai il suddetto fagotto mi accorsi che fosse effettivamente abitato da un essere umano, e che quell’essere umano corrispondesse a Molly Hooper. Non appena mi vide scattò in piedi, urtando la cattedra e rovesciando tutti i portamatite presenti: “Oh, accidenti!” esclamò: “Sono un disastro, scusami Sherlock.”
“Perché ti stai scusando con me, Molly Hooper? Non sono le mie cose.”
Arrossì – perché poi? Non le avevo detto nulla di offensivo, non l’avevo toccata, non le ero nemmeno troppo vicino da provocare quel rossore – e si chinò a raccogliere tutte gli oggetti caduti.
Si trovava lì perché aveva dimenticato il libro di testo, l’avevo visto ieri, ma non mi ero preso la briga di farglielo notare, ero troppo preso dal leggere i messaggi di Lestrade per far finta che mi importasse qualcosa degli esseri umani e, sapendo quello, ignorai i suoi balbettii e mi misi a cercare tra i cassetti.
C’era un catalogo dei composti presenti negli armadi a lucchetto: la serratura era abbastanza difettosa in tutti quelli presenti in classe, si vedevano graffi e storture tutto attorno ad essa, segno che bisognasse scuotere o girare la chiave in maniera che funzionasse meglio, per cui non sarebbe stato difficile forzarle. Bastava prima trovare la formula che cercavo.
Non ci fu bisogno di forzare alcunché, dato che il composto che mi assillava non si trovava da nessuna parte. Mi chiesi perché effettivamente mi era sembrato opportuno analizzare ciò che avevo trovato: comunque fosse era solo un precipitato di un doppio scambio, fin troppe erano le reazioni che producevano qualcosa del genere. Mi aveva insospettito.
Esatto, mi aveva insospettito: quest’assassino, probabilmente un esperto in chimica, dato che era riuscito a far reagire un veleno con qualcosa di poco prevedibile a livello di composizione come la pioggia, era stato talmente distratto da lasciare che la reazione producesse un precipitato, tranquillamente riconducibile al veleno iniziale, e quindi che avrebbe permesso di rintracciarlo. Non poteva essere stata distrazione, era un errore voluto. Perché?
Voleva lasciare una traccia riconoscibile, comune a tutte e tre le vittime.
Un codice, un simbolo? Una traccia di qualcosa di più grande?
“Sherlock!” esclamò la voce di Molly, traendomi fuori dai miei pensieri e catapultandomi di nuovo tra i terrestri: “Cosa?”
“Ti eri imbambolato.”
“Non mi ero imbambolato,” ribattei, piccato, dato che la possibilità che il mio cervello smettesse di lavorare come accadeva a quello degli altri quando si imbambolavano – che parola irritante, poi – fossero infinitesimali e segno di demenza imminente: “stavo pensando.”
“E… a cosa pensavi?” chiese lei, distogliendo lo sguardo una volta incontrato il mio, decisamente più penetrante e fermo: “A un caso.”
Lei sembrò intristirsi, perché abbassò le spalle in atteggiamento deluso e cominciò a fissarsi le punte delle scarpe con particolare intensità: “Qui-quindi immagino che tu sia occupato tutta la settimana…”
“Finché non risolvo il caso, sì.”
Mi ficcai il foglio con la formula in tasca, e, senza nemmeno gettare di nuovo uno sguardo sulla ragazza, mi diressi in classe.
Ignorai i compagni stupiti dal mio ritardo, i rimproveri aspri del professore che minacciava di riportare il mio mancato rispetto del regolamento alla preside, presenza ancor meno temibile del succitato insegnante, ignorai le ragazze che ridacchiavano alle mie spalle, ignorai tutto.
Tutto, tranne un paio di occhi fermi su di me.
Il ragazzo che mi aveva salvato dai bulli era nella mia stessa classe. Non l’avevo notato. Pensavo fosse più grande, dato che aveva affrontato da solo, e basso e zoppo, un gruppetto ben più provvisto di muscoli.
Distolse lo sguardo, quando si accorse che anch’io lo fissavo. Mi resi conto di non ricordare il suo nome. Uno degli idioti lo aveva apostrofato ‘Watson’, per cui dedussi che fosse il suo cognome. Il suo aspetto non era migliorato, dal giorno prima, era sempre sciatto, con vestiti più grandi di lui, il bastone accanto alla sedia, e il viso tirato e stanco, anche se non c’era più esitazione nei suoi occhi, quando si erano incontrati con i miei per la seconda volta.
Mi sedetti all’ultimo banco rimasto, quello in prima fila, e feci finta di seguire la lezione.
Chi mai potrebbe pensare di lasciare un simbolo, o un codice, col rischio di essere rintracciato? Qualcuno che non ha più nulla da perdere, che si può permettere un ergastolo senza che la sua vita sembri compromessa, sintomi che si riscontrano in persone che hanno subito un grave lutto e che non riescono ad elaborarlo. Evidentemente riconosceva le proprie vittime come colpevoli dell’accaduto.
Misi mano alla tasca per cercare il cellulare, ma, di nuovo, la mia abitudine fu smentita dall’assenza dell’oggetto che cercavo: volevo dire a Lestrade di controllare l’impiego delle vittime, per vedere se fossero tutti e tre medici, perché era proprio quello l’impiego che ha più spesso a che fare con la morte, ma ne risultai impossibilitato, cosicché rimasi lì in classe, a rodermi l’anima e il fegato perché il non sapere mi irritava. Santo cielo, quanto diamine durava un’ora di quella lezione?!
Non riuscii a sopportare l’idea di dover frequentare un’altra ora, quindi me ne andai dritto alla sala comune per poter pensare in pace un metodo per farmi restituire il cellulare senza dover incorrere in altri spiacevoli inconvenienti quali lividi – quello che avevo sullo stomaco ancora si faceva sentire – e contusioni di vario genere perché, per quanto il mio cervello fosse eccezionalmente superiore, il mio fisico era necessariamente più gracile di quello dei miei coetanei.
Era logicamente impossibile che me lo restituisse se avessi usato la cortesia, comunque, si trattava sempre di bulli, atti a rendere la vita continuamente più impossibile alle persone che non riscontravano la loro simpatia. Con la forza non sarei durato un secondo.
Perso com’ero nei miei pensieri, non mi accorsi della presenza che aveva preso posto sulla poltrona accanto al divanetto su cui ero seduto io, ma fui bruscamente tratto dalle mie considerazioni quando mi rivolse la parola: “Ti sei ripreso da ieri?”
Era Watson.
Da vicino era ancora più stanco e acciaccato di quanto avessi constatato in precedenza, e sembrava profondamente annoiato, o semplicemente era il suo viso. Eppure sembrava che si aspettasse qualcosa da me. Probabilmente era la risposta ad una domanda che mi ero dimenticato o che non avevo recepito come importante: “Scusa?”
Sembrava scocciato, ma non espresse questo suo stato d’animo e ripeté la domanda senza aggiungere altro.
“Ieri, ieri cosa?” come faceva a sapere quello che era successo ieri con mia madre?
“Ieri Nathan ti ha preso a pugni, ricordi?”
Oh, non credevo si riferisse a qualcosa così indietro nel tempo, non avevo realizzato: “Sì, ovviamente,” risposi: “A parte un lieve dolore allo stomaco, totalmente ignorabile.”
Alzò un sopracciglio, come se non mi credesse, ma non parlò ancora, per cui lo ignorai e tirai fuori il foglio con la formula sconosciuta, posandolo sul tavolo davanti a me. Mi ci dovevo concentrare bene, ero sicuro che da qualche parte nel mio palazzo mentale ci fosse qualche ricordo o informazione che potesse essermi utile.
Il caso era risolto, dal punto di vista amministrativo, a quell’ora il padre di Lestrade avrebbe di sicuro trovato l’omicida, ma non potevo lasciare una cosa importante come il movente senza capirlo e sviscerarlo a dovere, dato che la polizia non si sarebbe interessata a ciò, poiché l’unico suo obiettivo era fare in modo che l’ordine regnasse.
“Non è quella la medicina fallimentare che ha fatto tanto lagnare i giornali, ultimamente?”
Mi girai di scatto verso Watson, che non aveva abbandonato il suo posto: “Come?” quasi gridai, percependo con tutti i sensi quanto quell’informazione fosse importante. Al mio alzare la voce, Watson abbassò la sua, tendendosi in avanti poggiando i gomiti sulle ginocchia: “Quella formula, era su tutti i telegiornali… una casa farmaceutica aveva ideato un nuovo medicinale per i bambini affetti dalla sindrome di Pompe, ma invece ne ha sterminati molti di più di quanti ne abbia curati. C’è stato un enorme scandalo, quella formula veniva appiccicata ovunque, come fai a non saperlo?”
Non l’avevo reputato importante, evidentemente.
Watson aveva chiuso il cerchio: quell’uomo voleva vendicarsi degli uomini e donne che avevano somministrato a sua figlia o suo figlio una medicina che li ha poi portati alla morte, ora la professione dei tre era ovvia.
Scattai in piedi, euforico: finalmente avevo capito, finalmente tutto era chiaro e limpido, sotto il sole della ragione e della conoscenza.
L’ultimo problema era recuperare il cellulare, ma, colto dall’entusiasmo del momento, non mi sembrava un problema, dato che mi era bastata quella carica per pensare che, comunque, ero talmente più intelligente di quell’idiota che avrei trovato una soluzione, o una deduzione, che avrebbe risolto la faccenda.
Feci per muovermi verso il mio obiettivo, quando il mio sguardo cadde su un più che perplesso Watson, che mi osservava con le sopracciglia talmente alzate che avrebbero ben presto preso posto tra i capelli. Lui… non mi conosceva, non aveva sentito o forse ignorato le voci che già giravano sul mio conto, dopo pochissimi giorni di scuola, e mi aveva aiutato, involontariamente.
Avevo la percezione che fosse stato lui a veicolare il mio ingegno, come un catalizzatore di una reazione chimica, con la sua intelligenza inferiore, ma utile. Ed era sempre lui ad avermi soccorso il giorno prima. Sembrava quasi… necessario, che venisse con me a sconfiggere Nathan.
“Watson, vuoi aiutarmi a recuperare il mio cellulare?”
Non si stupì, non espresse emozione.
Semplicemente si alzò, afferrò il bastone e disse: “Oh, sì.”
  
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