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Autore: AlexEinfall    20/02/2015    3 recensioni
[Casey/Severide] Prima mia long-fic su questa coppia, che credo abbia un grosso potenziale.
Severide affronta Casey circa il suo comportamento sconsiderato, ma le cose non vanno mai come ci si aspetta. Questo è l'inizio di qualcosa oppure le resistenze e l'antico astio ostacoleranno la loro strada?
Un giorno qualunque alla Caserma 51 è destinato a cambiare ogni cosa.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le luci di Chicago







   Kelly non era una persona mattiniera. Quando la sua sveglia suonava, lui sapeva immediatamente che doveva prepararsi per il turno e usciva adagio dal letto, cominciando con calma il rituale mattutino. Calcolava i tempi al solo scopo di non essere costretto a sprecare ore di prezioso sonno.
  Quella mattina, tuttavia, si alzò con un anticipo di due ore. Il sole non era ancora sorto quando si srotolò dalle coperte e barcollò fino al bagno, sbattendo nel percorso contro lo spigolo di un mobile, che meritò una colorita imprecazione. Massaggiandosi il bacino contuso, cominciò a prepararsi e riemergere dal sonno.
  Quando si guardò allo specchio dopo una lunga doccia, capì di non essere molto presentabile. Sebbene il giorno prima non fosse di turno, si era stancato più del previsto. Era andato alla stazione per avere notizie sulle indagini, era tornato nella casa di Casey per un controllo, poi aveva portato una tardiva colazione al biondo, e ancora stazione, casa di Casey, ospedale. Aveva concluso il tutto con un losco giro per i sobborghi con Antonio e Voight, mostrando alle facce più brutte della città quella dell'identikit.
  Tutto inutile, come sempre.
  Salì in auto mezzora e due caffé dopo, diretto all'ospedale.
  Le infermiere si erano arrese alle sue visite non programmate, stanche di ripetere che c'era un orario da rispettare; un po' perché comprendevano fosse difficile per un vigile del fuoco adattarsi a orari ristretti, un po' perché Kelly non aveva dato adito a proteste.
  Così quando passò accanto alla postazione delle infermiere, fu accolto solo da un paio di teste che si sollevarono e riabbassarono con un sbuffo. Camminò tranquillamente fino al corridoio che ormai conosceva bene, dirigendosi alla stanza 131.
  Lì venne bloccato da June, che scuoteva animatamente la testolina castana.
  «Il dottore è dentro.»
  «Qualcosa non va?»
  June sembrò ponderare se spiegarsi o meno, poi lo prese per un gomito e lo allontanò.
  «Il dottor Callighan si è consultato con un chirurgo, il dottor Gale. Stanno pensando di provvedere a un innesto cutaneo sull'addome e parte del fianco.»
  «Okay...» mormorò Kelly, non certo di capire fino in fondo cosa comportasse. La porta della stanza si aprì e June fece qualche passo indietro, girandosi poi e avviandosi verso la postazione delle infermiere, come se non sapesse esattamente cosa fare.
  Il dottor Gallighan la seguì con lo sguardo, prima di essere approcciato dal tenente.
  «Dottore, tutto okay?» chiese, indicando con un cenno del capo la stanza.
  «Volevo annunciarlo a tempo debito» disse il dottore con lieve disappunto. «Visto che è qui... Matthew ha dato il consenso per un'operazione di ricostruzione. Intendiamo operare un autotrapianto per aiutare la guarigione dell'ustione più profonda. Preleveremo una sezione rettangolare dalla coscia sana e la trapianteremo sulla parte lesa di addome e fianco. Sono già passati cinque giorni dall'incidente, se operiamo adesso gli esiti cicatriziali saranno minori. Questo aiuterà non solo dal punto di vista estetico, ma anche funzionale.»
  «E' sicuro operare adesso?»
  «Certo. È sveglio da due giorni senza complicanze e i suoi parametri vitali sono abbastanza buoni da poter reggere molto bene un'operazione.»
  Kelly si massaggiò il collo, pensando esattamente a cosa dire a Matt. L'idea che tornasse sotto i ferri non gli piaceva, malgrado avesse abbastanza conoscenze da sapere che la sua vita non era più in pericolo.
  «D'accordo, grazie dottore.»
  Raccolse i suoi pensieri ed entrò nella stanza. Sobbalzò quando, invece del corpo placidamente posato sul materasso, trovò Matt seduto sul bordo del letto con le mani salde sulle lenzuola e i piedi che sfioravano il pavimento. Il biondo alzò lo sguardo e i suoi occhi si allargarono come quelli di un bambino colto a disubbidire. Subito si rilassò, abbassando le spalle e aprendo un piccolo sorriso sul volto.
  «Sei sicuro di poterlo fare?» chiese Kelly richiudendo la porta. Sventolò in aria il sacchetto di carta che aveva con sé e lo poggiò sul materasso.
  «Dovrei starmene steso a letto per le prossime due settimane?»
  «Lucy-rossa che dice?»
  Matt rise al soprannome che Kelly aveva scelto per la sua fisioterapista.
  «Per lei dovrei continuare a farmi piegare gomiti e ginocchia come una bambola.»
  Kelly storse le labbra, decidendo di non argomentare sul bisogno di Matt di riprendere in mano la propria vita ed essere indipendente, malgrado vedesse il dolore sbiancargli il volto. Si sedette sulla sedia di fronte a lui e chinò di lato la testa per indicare il sacchetto non ancora degnato d'attenzione.
  Matt lo aprì e scrutò l'interno, prima di inarcare le sopracciglia. «E' quello che penso io?»
  «Esattamente quello che pensi tu. I migliori pancake di Chicago.»
  Il biondo rise, estraendo il contenitore di plastica e poggiandolo sul tavolino. «Non sono i migliori, solo quelli più vicini all'accademia.»
  «In realtà, sono quelli a metà strada tra una notte da leoni e l'accademia.»
  Entrambi risero al ricordo delle colazioni fatte da King Kong, la piccola rosticceria che frequentavano ai tempi dell'accademia. Kelly premette il pulsante per sistemare il letto in modo che Matt potesse sedervici senza fare sforzi, quindi prese le forchette e i piatti dalla busta e servì entrambi. Mentre mangiava, lanciava rapide occhiate all'altro, notando come spiluccasse in cibo con poco interesse.
  «Ho parlato con Callighan» disse con nonchalance, ingoiando un boccone e controllando le sue reazioni. «Quand'è che ti operano?»
  Dal modo in cui Matt frenò la forchetta a mezz'aria, Kelly seppe di aver toccato il punto della sua distrazione.
  «Domani.»
  Per un paio di minuti non disse altro e lui pensò non avesse intenzione di farlo, finché non poggiò il piatto ancora pieno sul comodino, risistemandosi sui cuscini. «Mi terranno fermo per almeno cinque giorni dopo l'intervento e ci vorrà un mese perché la guarigione sia totale.»
  «Ma così potrai tornare a lavoro in non più di un mese, no?»
  Matt accennò un breve sorriso, tradito dagli occhi cupi.
  Kelly gli prese la mano, attirando il suo sguardo. «So che vorresti solo uscire di qui e mandare tutto a quel paese.»
  Il biondo attese che finisse di parlare e, quando capì che aveva finito, rise di cuore.
  «Sei un disastro con le consolazioni.»
  Kelly si chinò e lo baciò, cogliendolo di sorpresa. Gli ci volle un attimo per rispondere, stringendogli più forte la mano. «Meglio?» chiese sulle sue labbra.
  «Giusto un po'.»
  Il tenente tornò ai suoi pancake, abbandonandosi alla sedia come fosse una comoda poltrona davanti ad un focolare. Matt lo osservò attentamente, notando tutti i segni di stanchezza che conosceva apparire su quel volto quando qualcosa occupava la sua mente. Li riconosceva immediatamente, dopo anni di lavoro insieme. In quel momento pensò di chiedergli delle indagini, ma c'era qualcos'altro che gli premeva di più, un argomento che non poteva più essere evitato.
  «La mattina dell'incendio dovevo andare in Caserma per parlare con Boden.»
  «Lo so» rispose Kelly, alzando uno sguardo confuso dal piatto.
  «Se non fosse successo quello che, bhe, è successo, dopo sarei venuto a parlare con te.»
  Lo vide irrigidirsi e scrutarlo all'angolo degli occhi, mentre tornava a infilzare i pancake.
  «Dobbiamo parlare, Kelly» disse con fermezza.
  Il moro posò la forchetta e lo guardò come se lo avesse appena colpito in pieno viso. Si massaggiò il collo e tentò un sorriso. «Sì, certo. Uhm...okay, non sono un asso in queste cose.»
  Matt non rise, non rispose al suo tentativo di alleggerire la situazione, ma continuò a guardarlo dritto attendendo che parlasse. Anche se non gli fosse piaciuto quello che avrebbe detto, anche se Kelly avesse fatto un passo indietro, Matt non poteva più aspettare.
   Cominciava a credere che non avrebbe più parlato, quando un trillo acuto li destò entrambi. Kelly tastò le tasche della giacca, fino a trovare il cellulare.
  Quando lesse il numero, Matt vide qualcosa di cupo passargli negli occhi.
  La conversazione durò poco e, dalla parte di Kelly, fu solo un annuire seguito da un arrivo deciso.
  «Devo andare» annuciò, alzandosi e guardando con frenesia i piatti e i fazzoletti sparsi. «Torno stasera con un hamburger.»
  «Devo rimettermi in forma, non prendere dieci chili.»
  Kelly rimase incerto, la mente che correva altrove.
  «Stasera, okay? Parlaremo stasera.»
  Il biondo abbandonò la schiena ai cuscini. «Vai, Severide» lo incitò.
 
 




  Attraversando i corridoi della stazione di polizia, Severide si ritrovò a camminare così velocemente da sfiorare la corsa. Nella sua mente le parole di Matt rimbalzavano, scontrandosi con l'annuncio di Antonio. Si fermò e scrollò le spalle per riprendere controllo, prima di aprire le porte e avvicinarsi all'ufficio di Voight. All'interno lo trovò attaccato al telefono, un'espressione contrita sul volto, e Antonio in piedi ad attendere con le braccia giunte sul petto.
  Quando Voight ebbe riattaccato, si alzò e fece il giro della scrivania, sedendosi poi sul bordo.
  «Allora? Li avete presi?»
  I due uomini si scambiarono uno sguardo, poi Voight fece un cenno del capo al più giovane, che prese un fascicolo dalla scrivania e lo passò al tenente.
  Kelly lo aprì, trovandosi davanti la foto di uomo, l'identikit descritto da Casey attaccato sopra con una graffetta.
  «Tenente Severide, faccia la conoscenza di Anthony Messer» disse Voight sarcastiamente. «Piccolo delinquente e ora aspirante piromane.»
  Il tenente guardò Voight, poi Antonio.
  «Abbiamo mandato in giro l'identikit, non trovando nulla qui. Un paio di ore fa mi chiama questo amico da New York e mi dice che conosce bene questo tizio, che lo ha arrestato personalmente un paio di volte. Tutti reati minori, è un piccolo delinquente. Qualche mese fa la madre muore e lui perde il lavoro, così viene a stare qui dal padre che è rimasto solo.»
  «Johnny Messer» intervenne Voight, facendo cenno a Kelly di sfogliare il fascicolo. La foto era di un uomo sui cinquanta, occhi grigi e volto pallido. «Lui non ha mai toccato manco un gatto, ha rigato così dritto da avere sì o no due multe per eccesso di velocità risalenti a vent'anni fa.»
  Kelly, rimasto in attonito silenzio, chiuse di colpo il fascicolo e lo lanciò sulla scrivania. Dei dettagli non gli importava nulla, voleva solo arrivare al sodo. «Okay, dove sono?»
  Antonio guardò Voight e sospirò. «Al momento non ne abbiamo idea. Siamo andati al domicilio del padre, ma sembra abbiano lasciato la casa.»
  «Che vuol dire?»
  Voight si staccò dalla scrivania e si avvicinò al tenente. «Vuol dire che si nascondono in qualche buco o che hanno preso il volo.»
  Kelly non era certo di riuscire a mantenere il proprio pugno lungo il fianco. Qualcosa nell'espressione di Voight gli suonava come una sfida.
  «Abbiamo diramato un avviso di cattura» disse Antonio, annusando la tensione. Voight fece un passo indietro, gli occhi sempre fissi sul tenente. «Ora non possono uscire da Chicago senza che lo sappiamo, ma non possiamo essere sicuri che non siano già andati via.»
  Sentendo il mondo scivolargli dai piedi, Kelly non seppe se era sul punto di piangere o urlare. Respirò a fondo, cercando di comporsi. Aveva passato una settimana a covare quella rabbia e ora che l'obiettivo era stato identificato, lui era impotente.
  «Quindi ora cosa facciamo?»
  «Noi continueremo a chiedere in giro e a fare le nostre indagini» rispose Voight. «Tu torni al tuo lavoro e cerchi di metterti l'anima in pace. Non c'è niente che tu possa fare, al momento.»
  Decisamente troppo, pensò Kelly. Si vide bene dal colpire Voight proprio lì nel suo ufficio. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma vedere Voight in azione gli aveva dimostrato quanto sapesse fare il suo lavoro, anche se nei modi sbagliati. Se c'era qualcuno che poteva arrivare ai Messer era lui.
  Fece un passo indietro prima di rischiare di compromettere tutto, tentato ancor più dalla faccia di Voight che sembrava reclamare i suoi pugni.
  «Dai, ti accompagno» si offrì Antonio, spronandolo a lasciare l'edificio in sicurezza.
  Una volta fuori, Kelly intrecciò le dita dietro la nuca nel tentativo di contenersi, prima di colpire un cestino vicino.
  «Okay, immagino che questo sia il danno minore» disse sarcasticamente Antonio. Lo vide rivolgergli uno sguardo che, malgrado la rabbia, era di scusa, per poi salire in auto e ripartire ferocemente.
  Sospirò, saggiando la propria frustrazione. Quando tornò da Voight, l'uomo aveva perso il suo solito ghigno e aveva un'espressione tesa sul volto.
  «Quello lì» disse indicando la porta dalla quale Severide era uscito. «Un giorno finirà col farsi ammazzare.»
  Antonio sbuffò una risata, abbandonandosi pesantemente alla sedia. «E' quello che dicono anche di te, da anni.»

......


  Antonio Dowson entrò nel piccolo bar e subito sentì il bisogno di scrollarsi di dosso il cappotto. L'aria era pesante e congestionata, rendendo l'ambiente privo di riscaldamenti estremamente accaldato.
  Si sedette su uno sgabello, poggiando il giubotto di pelle su quello accanto, e ordinò una birra. In attesa, scrutò i dintorni, notando appena tre tavoli occupati. Nessun volto gli destava allarme. Estrasse il cellulare e inviò un messaggio, riponendolo con un ghigno. Quando il barista gli stappò una birra, la porta alle sue spalle si aprì, colpendogli la nuca con una folata del freddo vento di Chicago. Alla periferia del suo campo visivo, riconobbe immediatamente l'andatura nervosa.
  «Come lo hai capito?» chiese Kelly scivolando sullo sgabello accanto al suo, il cellulare aperto sul messaggio.
 «Che mi stavi pedinando?» sbuffò Antonio. «Amico, sono un polizziotto.»
 Fece cenno al barista di portare un'altra birra e posò la propria, prima di voltarsi e scrutare Kelly. Riconobbe subito un pattern che aveva visto alla specchio mille volte: occhi arrossati, occhiaie violacee e pelle tesa. Attese che avesse la possibilità di confortarsi con una birra, prima di parlare.
  «Come sta Casey?»
  Kelly esito con le labbra sull'orlo della bottiglia, prima di bere un lungo sorso.
  «Meglio. Senti, sia tu che io sappiamo perché sono qui» tagliò corto, fissandolo con decisione.
  Antonio scrollò le spalle, poi controllò l'orologio. Era indeciso quanto fosse opportuno dire al tenente. Da lì a mezzora il suo informatore sarebbe entrato nel bar e lui non era certo di riuscire ad allontanare Kelly in tempo, se glielo avesse detto. Aveva sempre l'opzione della minaccia di un arresto per ostacolo alle indagini, cosa che non avrebbe mai fatto ma che Severide non poteva sapere per certo.
  Non si fidava del tenente, malgrado fosse convinto che le sue intenzioni fossero buone. Voleva giustizia per il suo amico e lui poteva capirlo fin troppo bene, così come sapeva che il confine tra giustizia e vendetta è labile e, a volte, perseguendo l'una si finisce intrappolati nell'altra. Antonio, dal canto suo, voleva solo assicurarsi che nessun ostacolo rovinasse le indagini.
  «Non lo so, Severide. Io sono qui per prendere una birra. Tu?»
  Kelly sbuffò una risata, voltandosi sullo sgabello per osservarlo.
  «Mi prendi in giro? Devo credere che non sei qui per incontrare qualcuno, magari qualcuno che per una volta sa qualcosa? Ti ho visto parlare con Voight. Ti ha mandato lui qu, no?»  
  «Non sono affari tuoi, e te lo dico da amico. Quello che potevi fare lo hai fatto e non è stato poco.»
  Il tenente sbattè una mano sul bancone, facendo sobbalzare i presenti.
  Antonio rimase impassibile e, dopo aver lasciato delle banconote davanti al barista, si alzò e afferrò il giaccone. «Senti, ti do un consiglio da amico» disse squadrando Severide dall'alto. «Io so cosa stai provando, ci sono passato.» Ignorò il suo sguardo scettico e continuò: «Noi siamo gli agenti e noi indaghiamo. Tu hai un solo compito ed è stare vicino al tuo amico. Guardati, sei qui a corrermi dietro e a fare domande in giro, per cosa? Mentre tu sbatti in giro la tua rabbia, il tuo amico, collega, compagno d'armi è da solo in un ospedale. Hai di meglio da fare che annusare eringhiare per tutta Chicago come un cane rabbioso. Il meglio che puoi fare ora è tornare a casa, farti una bella dormita e tornare in te.»
  Quando lo vide abbassare le spalle e distogliere lo sguardo, ogni traccia di rabbia che scivolava via, capì che forse aveva colto nel segno. Indossò la giacca e uscì.
  Cinque minuti dopo, nascosto in un vicolo, vide Kelly uscire dal bar e salire in auto. Sorrise, sperando di aver messo un po' di pace nel cuore dell'uomo, prima di tornare nel bar e attendere un altro informatore dirgli per l'ennesima volta che non conosceva i Messer.



......



Il corridoio dell'ospedale sembrava lungo come il viale da qui all'infinito. Kelly non riusciva a vederne la fine, ma sapeva di dover andare. I suoi passi non producevano eco sulle pareti. Non se ne curò. Una sola porta scintillava sulla destra e lui sapeva di dover girare la maniglia.
  Da qualche parte oltre il bianco, proveniva l'eco della voce di Heater e le risate dei ragazzi di Darden. Erano felici. Kelly chiese perché, ma nessuno rispose.
  Poggiò la mano sulla maniglia e la ritirò subito. Era incandescente. La porta si aprì e quando entrò, il letto era vuoto, tranne per un uomo seduto avviluppato in un camice bianco.
  Andy rise e alzò la testa, fissandolo con occhi scintillanti. La porta si chiuse con uno schiocco secco, portando via con sé le voci e le risate.
  Kelly scoprì con orrore di non poter parlare e gli sembrò di avere così tante domande da esserne sommerso.
  «Non c'è un'altra occasione, Kelly. Questo è l'ultimo colpo che hai.»
  Le tende dietro le spalle di Andy vennero via, tirate da una mano invisibile, rivelando oltre i vetri un muro di fiamme.
  «Quando entri in una casa in fiamme, correre ti ammazzerà. Fermarti a pensare troppo, farti troppe domande, ti ammazzerà. L'unica possibilità che hai è guardarti attorno e sapere a ogni passo cosa perderai.»
  Un urlo esplose oltre le finestre. Kelly riconobbe in quel boato la propria voce.

 
   Severide spalancò gli occhi, emergendo dall'inquieto dormiveglia. Si strofinò il viso con una mano, cercando di lavarsi via il sonno e quel sogno così reale.
   Cambiò posizione, incontrando qualcosa di duro sotto il gomito. Svegliato completamente da quella sensazione, si accorse di essere in una delle sale d'attesa dell'ospedale, sdraiato sulle sedie di plastica. Si alzò a sedere, scrocchiando il collo indolenzito e stirando le braccia sulla testa. Non ricordava di essersi addormentato, ma di certo il suo corpo doveva aver reclamato a lungo un po' di sosta.
  «Buongiorno.»
  Alzò lo sguardo e incontrò il viso pallido ma sorridente di Matt. Vestito con il camice ospedaliero -Kelly odiava intensamente quegli stupidi disegni blu- era seduto sulla sedia a rotelle, accompagnato da una flebo e un'infermiera. Rivolse un rapido cenno alla ragazza che uscì in silenzio.
  «Qualcuno mi ha detto che un vigile stava occupando la sala d'attesa» annunciò con un sorriso beffardo.
  «Uhm, sì, credo...credo di essermi addormentato.»
  «Perspicace come sempre.» Matt rise e girò la ruota della sedia quanto bastava per avvicinarsi.   «Perché non mi hai svegliato? So che vedermi dormire deve essere uno spettacolo, ma hey da sveglio sono meglio.»
  Kelly inarcò le sopracciglia, prima di sbuffare una risata.
  «Com'è che Jeff non ti ha seguito?» chiese Kelly, controllando la porta per esser certo che l'ufficiale mandato da Antonio non fosse nei paraggi. Tutto il rispetto per il ragazzo, ma era un po' troppo caustico e giovane per i suoi gusti. La prima volta che l'aveva visto davanti alla stanza di Matt, aveva dovuto mostrargli il distintivo, come se la divisa non fosse abbastanza.
  «Credo non abbia dubbi che non lascerò l'ospedale in queste condizioni. Voglio dire, non credo che questo camice resisterebbe a un po' di pioggia e vento. Non ho voglia di correre per Chicago con il sedere al vento.»
  Kelly rise mentre si alzava e stirava la schiena. Non aveva intenzione di andarsene. Dopo le memorie e i sogni che continuavano ad assalirlo, nascondendo messaggi incomprensibili, non aveva alcuna voglia di tornare a casa, solo e frustrato.
  «Caffé?»
  Matt alzò la testa e annuì, prendendo a staccare con cura la febo.
  «Woa, che fai? Non credo dovresti farlo.»
  «Da quando Kelly Severide segue le ricette mediche?» lo canzonò Matt. «Sono solo vitamine e sali minerali. Passerò dopo a riprenderla, sono sicuro che nessuno la ruberà.»
  Kelly rise e afferrò i manubri della sedia, cominciando a spingerla lungo il corridoio, fino a fermarla accanto alla macchinetta.
  «Tutto okay?» chiese il moro, scrutando Matt all'angolo del suo campo visivo.
  «Sicuro» rispose velocemente Matt, prima di reclinare la testa in direzione del bicchiere di caffé che andava riempiendosi. «Certe cose non cambiano mai, eh?»
   Severide guardò il bicchiere come fosse un corpo estraneo. Era una cosa automatica, quella di riempire di zucchero il proprio caffé ogni volta che si sentiva agitato. Matt lo sapeva bene, perché era stato lui a farglielo notare.
  «Voglio farti vedere una cosa» annunciò Matt con un piccolo sorriso, afferrando il bicchiere e poggiandolo tra le gambe. «Segui le mie indicazioni, okay?»
  Kelly non aveva idea di cosa avesse in mente, ma eseguì. Spinse la carrozzina fino a un ascensore di servizio, molto più piccolo di quelli tipicamente riservati ai pazienti. Sul cartello c'era l'avviso di non entrare se non autorizzati e, quando Kelly guardò Matt interrogativo, lui si limitò a sventolare una mano in aria.
  Entrati nella cabina, salirono fino al penultimo piano, uscendo in un corridoio isolato. Percorrendolo, si trovarono affiancati dalle porte di ufficili privati.
 I dottori che incrociarono erano tutti troppo stanchi per dar peso alla loro presenza; un paio scambiarono cenni del capo con Matt, e Kelly realizzò che Hellie doveva averlo portato lì. Sentì una strana amarezza in gola.
  «Qui» disse Matt, quando giunsero di fronte a un'ampia vetrata con tende opache. Kelly aprì un'anta, incontrando l'aria fresca della notte.
  La balconata era isolata e le tende permettevano privacy e silenzio. Sopra di loro solo il cielo e sotto il parcheggio semivuoto dell'ospedale. Matt si fece spingere fino alla balaustra, poggiandovi sopra il bicchiere di caffé. Alzò il braccio sano, afferrando il corrimano e puntando il piede a terra.
  «Woa, aspetta» intervenne Kelly, facendogli scivolare un braccio intorno alla vita. Lo aiutò a tirarsi su, cercando di non far stridere le garze. Non dovette essere facile per Matt trattenere un urlo, ma Kelly si aspettava una tale caparbietà. Ne sorride, guardandolo poggiare tutto il peso sull'avabraccio posto sulla balaustra.
  Un brivido lo scosse e solo allora Kelly registrò il freddo della notte.
  Si tolse la giacca e lo aiutò ad infilare il braccio sinistro.
  «Grazie» disse Matt, sorridendo. «Anche se fa molto cavaliere.»
  «Che vuoi che ti dica? Sono un gentiluomo.
  Tornarono ai loro caffé e al silenzio, lasciando che l'eco delle loro risate scivolasse nell'aria.
  «Mi piace questo posto» mormorò Matt strappandoli alla loro trance. «Voglio dire, ogni volta che potevo venivo qui, sai mentre Hellie finiva un turno o cose del genere.» Nel momento in cui il nome della sua ex fidanzata toccò le labbra, Matt distolse lo sguardo. «Qui ho preso alcune delle decisioni più importanti.»
  «Ad esempio?» chiese Kelly, schiarendosi la voce. Gli occhi fissi sul profilo di Matt erano pieni di aspettativa e ansia, come se sentisse che qualcosa era nell'aria. La quiete della notte non aiutava a debellare quella sensazione di calma prima della tempesta.
  «Come ad esempio se lasciarla o no.»
  Seguì uno strano silenzio che non era imbarazzato, ma teso.
  Kelly poggiava i gomiti alla balaustra di ferro, lanciando rapide occhiate al biondo. Sul viso di Matt era dipinto un lieve cipiglio, non quello tipico di una rabbia sommersa, ma il tipo che assumeva quando cercava di metabolizzare qualcosa. Cercò di seguirlo con lo sguardo, incontrando solo le luci distanti della città. Nella sua mente l'enigma di quel sogno, che pian piano svaniva nella nebbia, si sovrapponeva al mistero oltre quello sguardo e quelle parole. C'era un misto di contemplazione e fervore nei suoi occhi, qualcosa che gli faceva sentire una strana pressione alla base della nuca.
  «Cosa...» si schiarì ancora la voce, maledicendosi per il suono debole in cui si era rotta. «Cosa stai decidendo, ora?»
  Matt voltò la testa e lo fissò con occhi così grandi e scuri da disarmarlo. «Posso fidarmi di te? Dopo tutto quello che è successo, dopo...dopo Darden, Heater...posso fidarmi di noi? Posso fidarmi del fatto che non rovineremo tutto?»
  Kelly si sentì colpito al petto. Eccolo, il momento della verità era arrivato, quel momento che negli ultimi due giorni aveva cercato di schivare. Lui sentiva una spinta pura e semplice verso Matt, qualcosa che trascendeva la fiducia e la paura. Dopo averlo perso, avrebbe accettato di buon grado il rischio di perderlo ancora, se fosse servito ad averlo davvero. Sul campo, si fidava di lui fino al midollo e sapeva che avrebbe imparato a fidarsi in ogni altro campo, se solo lui gli avesse aperto le porte. Ma conosceva Matt...poteva dargli torto se non aveva più quella fiducia in lui? La verità era che non poteva biasimarlo se mai avrebbe potuto fidarsi di lui abbastanza da costruire qualcosa.
  Abbassò lo sguardo, desiderando avere anche una sola prova che lo convincesse.
  «Dimmelo tu» rispose alla fine. «Puoi fidarti? Perché io ti conosco, Matt, e lo so che questo non ha alcun senso se non puoi fidarti. Non ha futuro...»
  Matt soppesò le sue parole, serrando le labbra secche colpite dalla brezza. Malgrado il freddo, sentiva un intenso fuoco imporporargli il collo e il petto, nulla a che vedere con le ustioni. Fissò lo sguardo in quello di Kelly, cercando la risposta a quella domanda. Aveva senso, in primo luogo, porsela?
  «Lo so a cosa stai pensando...C'è la Caserma, il lavoro e...è  passato troppo astio sotto il ponte, no? Se roviniamo questo» continuò Kelly, la voce più bassa e tormentata. «Matt, se roviniamo quello che ora c'è...»
  «Non potremo tornare indietro» concluse lui, annuendo di riflesso.
  Guardò ancora la città in lontananza, le luci di una Chicago che aveva conosciuto così bene. Essere lì, circondato dal buio, e vedere quelle luci così piccole, riusciva a mettere ogni cosa in prospettiva.
  Riusciva a sentire la pressione sotto la pelle di Kelly e il suo bisogno di afferrarlo, di dimostrare con i fatti e con il tempo le sue ragioni. Poi sentiva la pressione in fondo alla propria mente, la paura  e il groviglio di emozioni. Era sempre stata lì, stipata in un angolo a crescere in silenzio. Il bisogno di Kelly era nato quando l'aveva visto per la prima volta ed era rimasto silente, fino ad esplodere.
  «Quando Andy è morto...» mormorò, fissando la luce intermittente di un'ambulanza in lontananza. «Quello è stato uno dei giorni più brutti della mia vita. Ho perso un amico, una relazione stabile, la fiducia nelle mie capacità di leadership, e te.»
   Kelly annuì piano, stringendosi le mani e disegnando cerchi con i pollici nei palmi. «Siamo stati dei coglioni, abbiamo rovinato tutto. Andy ci avrebbe preso a calci in culo.»
  «Puoi scommetterci che l'avrebbe fatto.»
  Una risata triste riempì l'aria, rompendosi a metà come una canzone sbagliata.
  «Ogni volta che credevo di fare dei progressi» disse Matt, «tu facevi qualcosa che mi mandava in bestia. E ogni volta che mi offrivi una mano, io la ignoravo perché avevo altro per la testa.»
  «Direi che il tempismo non è il nostro forte.»
  «No, affatto. Come altre cose...»
  Ed era lì il nodo al quale tutti gli altri venivano, quello che li bloccava tutti, impedendo loro di raggiungere il bandolo della matassa. Kelly e Matt, Matt e Kelly...poteva davvero funzionare? Poteva non essere un suicidio programmato, una futura folie-à-deux?
  «Nell'incendio...» disse Matt, sentendosi sull'orlo delle lacrime. Cercò di ingoiare il groppo alla gola, sentendo quel calore sempre più forte. «L'ho visto, intendo Darden.»
  Quando i suoi occhi tornarono su Kelly, lo vide esitare, prima di sbuffare nervosamente. «Non ce ne libereremo mai, eh?»
  «Temo di no» rispose con un piccolo sorriso. «Mi ha detto...mille anni o anche solo un secondo.»
  «Cioè?»
  «La vita è breve, Kelly. Dannatamente breve. Un giorno ci sei con tutti i tuoi problemi e il giorno dopo...ti rendi conto che ci sono poche cose importanti nella vita.» Fece uno sforzo immenso per sollevare il braccio destro, ma alla fine riuscì ad afferrare il l'avambraccio di Kelly e a stringerlo con forza.
  C'erano stati in passato mille motivi che gli sorgevano alla mente e bloccavano ogni sua iniziativa. Avrebbe potuto buttarsi in qualcosa che, lo aveva sentito, sarebbe stata magnifica. C'era la fama di Severide il donnaiolo, la loro carriera nei vigili del fuoco, il bisogno di stabilità, la paura di perdere tutto. Ora, di fronte a quegli occhi che luccicavano come le luci distanti di Chicago, Matt si rendeva conto che nulla di tutto ciò aveva importanza. Era morto e tornato indietro, e l'unico rimpianto era stato lui.
  «Quello che facciamo, combattere gli incendi, è pericoloso ed è ciò che amiamo. Quante volte guardiamo in faccia la morte e ci chiediamo cosa perdo? Cosa resta di mio lì fuori? Voglio tentare, Kelly. Voglio che sia tu il mio resto.»
   Matt lo stava osservando come se null'altro esistesse e per Kelly era così. Lo sguardo gli cadde sulle sue labbra, rosse e schiuse, poi di nuovo gli occhi magnetici. L'ultima cosa di cui Kelly fu cosciente era il proprio battito accellerato, poi il sapore delle sue labbra. Gli poggiò una mano sul volto, lì dove il livido si schiariva, e lo baciò come non aveva mai fatto. Era un bacio calmo, inteso ad assaporarsi a vicenda, prendendo tutto il tempo che avrebbero avuto da lì al futuro. Voleva che in quel bacio Matt sapesse che questo era tutto quello di cui aveva bisogno. Che questa era la sua prova di fiducia. In un solo contatto di labbra e lingue, voleva infondere tutto ciò che le parole non raggiungevano. Non avrebbe mai creduto un giorno di poter sentire così tanto in un semplice bacio. C'era calore e calma, nel modo in cui quelle labbra si muovevano assieme alle sue. C'era la lotta subdola della lingua contro la propria, il breve stridere dei denti tra loro.
   Reale.
   Quando si scostarono, gli sospirò sulle labbra e lo vide sorridere. Matt si sporse a lasciargli un bacio all'angolo della bocca, prima di riprendere il respiro e raddrizzarsi. Barcollò appena, zoppicando sul piede per non cadere. Kelly lo sostenne, attendendo che fosse stabile.
  Andy aveva ragione, pensò guardando quelle labbra inumidite. Lui doveva guardarsi attorno, guardare in quegli occhi lucidi, e vedere la propria verità. Era abituato a far parlare le azioni, riservando alle parole solo una cornice di fondo. Questa volta, però, sapeva che le azioni non bastavano.
  Con le dita serrate intorno alla stoffa della propria giacca, un po' troppo grande per Matt, Kelly mormorò: «Puoi fidarti di me, Matt. Io...io mi fido di me. So che è questo quello che voglio e non rovinerò tutto. Tutto il resto, troveremo un modo per venirne a capo. Quando ti ho visto in mezzo all'acqua...e poi in strada...Dio, Matt. Non mi sono mai sentito così-»
  «Perso» concluse Matt, stringendo le dita intorno al suo braccio.
  Kelly annuì, tentando un sorriso. «Che razza di idiota sarei se dopo tutto questo facessi un casino?»
  Se ti deludessi, pensò. Se mi deludessi.*
  «Un gran coglione» concordò Matt.
  Kelly assorbì la sua quieta risata, prima di sollevargli il mento e guardarlo negli occhi.
  «Non gioco più, non con te.»
  Matt guardò sul fondo di quegli occhi, il sinistro pienamente investito dalla luce al neon. In quel momento, non ebbe più alcun dubbio. Sarebbe potuto morire anche il giorno dopo, per quel che poteva saperne, e fare i patti con l'inatteso era parte del suo lavoro. Lui, come pochi altri sfortunati, lo aveva saggiato una volta di troppo, sfiorando la fine così da vicino da sentirne l'odore sulla pelle.
  E in quel momento, poco prima di chiudere gli occhi, aveva pensato agli occhi di Kelly e al suo sorriso. Come poteva, una cosa simile, non valere ogni rischio, ogni energia, ogni forza, per essere afferrata?
  Era così...reale, come nulla prima.
  Un sorriso gli illumino il voltò, mentre si chinava e posava le labbra sulle sue.
  Matt si fidava di loro.
  Severide capì, in quel momento, che non tutto era perduto e che il passato non aveva più nessuna importanza. Capì che Matt non sarebbe fuggito e che lui sarebbe rimasto, fino alla fine, non importava il resto. Un giorno il mondo sarebbe potuto crollar loro sulle spalle e ogni cosa sarebbe andata distrutta, ma lui era pronto a giurare che valesse la pena di rischiare anche un'Apocalisse, se poteva avere Matt. Perché se questa era l'ultima occasione, lui non l'aveva sprecata.
  «Niente più stronzate?» chiese Kelly guardandolo negli occhi.
  «Niente più stronzate.»
  «Bene, ora torniamo dentro, prima che ti congeli il culo.»
  Matt rise e si sedette sulla sedia, lanciando un ultimo sguardo alle luci di Chicago.
  Non gli erano mai sembrate così piccole e distanti.









Note: Hello! Ho scritto e riscritto questo capitolo così tante volte...sono approdata a questo, ma non so quanto abbia reso ciò che intendevo esprimere. (Capitolo un pizzichino più personale, perché riferimenti a luoghi e persone non sono del tutto casuali.) Quindi, consigli, critiche, pareri sono sempre stramegasuperben-accetti.
PS: Chi ha visto CSI:NY avrà forse storto il naso all'uso meschino del cognome Messer, ma per me è una specie di omaggio (!?).
      *Riferimento al discorso, e reinterpretazione del suddetto, di Benny Severide al figlio: Deludi chiunque, deluti tutti, ma non deludere mai te stesso.
Alla prossima, Ax.

  
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