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Autore: Ink Voice    20/02/2015    5 recensioni
Erano davvero bei vecchi tempi quelli in cui, pur avendo perso la propria quotidianità e la propria famiglia, si aveva un altro punto di riferimento a cui tornare con il proprio cuore; si era trovata una nuova casa rassicurante che scacciava i pericoli esterni e lasciava che, anche in tempi tanto burrascosi, ci si sentisse al sicuro dentro pareti e stanze che ormai si conoscevano come le proprie tasche.
Ma tutto questo si è dissolto nel nulla, o meglio: è stato demolito. L’Accademia che tanto rassicurava i giovani delle Forze del Bene è ormai un cumulo di macerie a causa dell’ennesima mossa andata a buon fine del Nemico: ora tutti sono chiamati a combattere, in un modo o nell’altro, volenti o nolenti.
Le ferite sono più intime che mai ed Eleonora lo imparerà a sue spese, perdendo le sue certezze e la spensieratezza di un tempo, in cambio di troppe tempeste da affrontare e nessuna sicurezza sul suo avvenire.
[La seconda di tre parti, serie Not the same story. Qualcuno mi ha detto di avvertire: non adatta ai depressi cronici.]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Not the same story'
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XIV
Le mie guerre

 

-Charizard, usa Solarraggio!
Il lucertolone sputafuoco obbedì istantaneamente al comando di Ilenia. Grazie all’effetto di Giornodisole attivo riuscì a caricare la mossa nel minor tempo possibile: Altair fu investita in pieno dal fascio di abbagliante luce color prato e, già stancata da una lotta che andava avanti da troppi minuti con un esito poco prevedibile, barcollò e si abbassò di quota.
Iniziavano a piacermi abbastanza le lotte aeree, peccato che avessi solo due Pokémon a disposizione per provarle. Lo stesso valeva comunque per Ilenia che aveva Charizard e Flygon: il secondo era andato K.O. dopo aver battuto Diamond, il mio Staraptor, grazie ad un unico colpo di Altair. Adesso mi ritrovavo a combattere una lotta assolutamente alla pari.
-Trespolo- borbottai tra i denti. La mia compagna scese a terra appena udì il mio ordine e si riposò, recuperando un po’ di energie. Charizard ne approfittò, non per attaccarla ma per creare l’ennesimo Muro di Fumo, che aveva fatto fallire la maggior parte degli attacchi di Altair. Mi ero dovuta affidare all’infallibile ma inefficiente Aeroassalto che al mostruoso rettile aveva fatto poco meno del solletico. D’altra parte pure l’avversario con i suoi attacchi poco efficaci non era granché avvantaggiato nemmeno ora.
Ilenia notò il mio sguardo, che in quel momento era un misto tra l’annoiato, il seccato e lo stanco. Mi piacevano le lotte aeree, questo sì, ma non stava a significare che quella battaglia mi stava soddisfacendo. Scosse la testa e richiamò Charizard nella sua Poké Ball. Io la imitai senza lamentarmi, dichiarando dentro di me che quella era l’ennesima parità. L’avversaria me lo confermò con un tono di voce giù di corda.
-Quanto mi piacerebbe vincere seriamente una volta tanto…- sbuffai mentre andavamo insieme all’infermeria.
Lei annuì con poco vigore. -Già, peccato che ormai siamo tutti allo stesso livello, noi “guerrieri”… saranno mesi che vinco solo per fortuna con quelli del nostro corso, altrimenti si tratta di sole parità. Altrimenti perdo per un soffio. Con gli altri vinco quasi sempre, almeno…
Per altri intendeva ovviamente le spie, i tecnici e via dicendo chi si trovava nella base e non apparteneva al nostro gruppo di reclute.
-Lo stesso vale per me- ribattei aprendo la porta dell’infermeria. La conversazione cadde nel silenzio mentre le sfere dei nostri Pokémon venivano affidate alle cure dell’infermiera, che ce li avrebbe restituiti di lì a poco di nuovo in forze.
Ci sedemmo sui divanetti rossi. Sentivo lo sguardo di Ilenia addosso a me, un formicolio fastidioso sulla mia fronte abbassata mi informava dello studio accurato che i suoi occhi verdi stavano effettuando sulla sottoscritta. Non riuscivo però a trovare né la voglia né la forza di ricambiare le sue occhiate sospettose, quindi me ne stavo in silenzio in attesa che le preziose Ball di Altair e Diamond tornassero tra le mie mani, la testa infossata nelle spalle e rivolta verso il basso. Ingobbita com’ero non dovevo essere un bello spettacolo, ma tant’era.
-Ele, tutto ok?- riuscì a domandarmi dopo avermi esaminata abbastanza a lungo.
Feci spallucce. -Sto bene. Semplicemente sono molto annoiata dalla routine- risposi più o meno sinceramente, parlando a denti stretti e muovendo appena le labbra. Lei a malapena mi sentì.
-A dir la verità credo che tu non sia proprio in forma- insistette. -Puoi parlarmene se vuoi, penso che sarebbe anche un buon momento per farlo.
Alzai la testa e la guardai. Il suo viso rifletteva un’espressione di seria sincerità ed era visibilmente dubbiosa, nonché preoccupata. -Mi sembra che tutti mi stiano voltando le spalle- sospirai dopo un po’. -Chiara all’improvvisto mi ha abbandonata senza darmi alcuna spiegazione o una possibilità di parlare e rimettere a posto le cose, dimostrandosi per la persona immatura qual è, ma che non volevo riconoscere nella mia migliore amica. Bellocchio non mi fa capire cosa voglia da me e quasi tutti i miei amici se ne fregano del fatto che io sia sempre mogia e annoiata. È come se fossero ciechi, proprio non vedono il mio stato d’animo. Capisci?
Fu Ilenia ad abbassare lo sguardo stavolta. -Forse è perché abbiamo tutti un po’ da fare… gli allenamenti sembrano non finire mai e ci sono sempre corsi diversi, spesso obbligatori, ogni volta si pretende che miglioriamo sempre più. Poi magari siamo impensieriti dalle missioni…
-Vorrei esserlo anche io, ma nonostante mi abbia detto che potrebbe chiamarmi a breve per una missione, Bellocchio non mi ha ancora assegnato nulla- borbottai. -Poi ho una Galladite e non so che farmene perché dice che il Megabracciale o qualsiasi cosa del genere devo meritarmelo… senza che mi dia il modo di mostrarmi “degna di esso”, ovviamente, logico com’è dovevo aspettarmi una prova del genere.
-Mi dispiace, ci sarà un motivo dietro tutto ciò…
-No- sbottai seccamente. -Bellocchio è solo terribilmente incoerente, se non infantile. E lui deve essere il mio - il nostro capo! Mi regala la Megapietra, bene, mi hai fatto credere a una tregua tra noi due e pensavo che volessi aggiustare i rapporti con una recluta che a quanto pare ritieni piena di potenziale… e poi? La tengo in tasca per bellezza, questa biglia colorata? Ma ti sembra normale?
-Non proprio, ma non credo sia giusto accusarlo così pesantemente, dopotutto… se lui è il capo saprà cosa sta facendo, no?- fece lei timidamente. Avrei voluto risponderle no.
Me lo impedii ricordandomi di tutto ciò che mi aveva raccontato Enigma, quindi tenni a freno la lingua sulla quale si stavano accumulando dozzine di insulti e critiche. Ero ormai sicura che Bellocchio fosse diventato il capo solo perché da lui era partita l’idea dell’opposizione al nascente Victory Team, perché avrei potuto elencare tantissimi altri comandanti più validi tra Capipalestra, Superquattro e Campioni. Chi era lui? A quanto pareva non possedeva nemmeno Pokémon, quell’Honchkrow che l’aveva difeso dagli attacchi di Aramis era stato allenato da qualcun altro e messo a sua difesa - lo sapevo perché mi era stato raccontato tempo prima.
-Non so che dirti- dissi infine -ma lui non mi piace per niente.
Prima che lei potesse aggiungere qualcosa, l’infermiera ci chiamò e, sorridendo, ci porse le Ball dei nostri Pokémon. -Ele, allora…
-Devo scappare, ho bisogno di fare una cosa, ci vediamo- la interruppi correndo via, lasciandola sola con un palmo di naso.

Chiusi alle mie spalle con accortezza la porta della biblioteca. L’eco di quel pallido suono riverberò nel silenzio e ad esso si aggiunse il ticchettio dei miei passi frettolosi sul pavimento.
Avevo scoperto la biblioteca quasi per caso, prima dell’inizio del nuovo anno, sbagliando la strada per il posto in cui ero diretta.
Ciò però mi aveva fruttato la scoperta di un luogo magico e meraviglioso: più volte dopo essere uscita mi era stato detto che odoravo di carta, segno delle ore che passavo là dentro, e che avevo gli occhi stralunati e pieni di storie che appannavano il mio sguardo rivolto alla realtà. La cosa non mi dispiaceva affatto, anche perché era l’unica attrattiva che in quel periodo riusciva a distrarmi e farmi stare meglio - o per lo meno farmi dimenticare di tutte le cose che non andavano, ed erano davvero tante.
La biblioteca era grandissima, era più o meno il doppio dell’insieme dei due dormitori. Le straordinarie dimensioni erano dovute al fatto che quello era anche un posto di lavoro, oltre che di svago, per decifrare documenti antichi oppure consultare qualche tomo utile. Inoltre le conoscenze della vera Storia, gli scritti e le opere riguardanti essa, e non le falsità che erano state somministrate al mondo prima di iniziare la guerra, erano oggetto di contesa tra le due fazioni nemiche: molte le avevamo noi ma tante altre erano invece tra le mani dei Victory, che probabilmente avevano intenzione di modificarle e manipolarle per i loro ciclopici progetti.
Ciò che interessava a me però erano i romanzi: essi erano a disposizione di tutti, poiché la maggior parte non servivano a particolari studi sulla Storia o su che altro si combinasse nel retro della biblioteca. “Tanto meglio” mi ero detta quando l’avevo scoperto, poco prima di fiondarmi a leggere il primo libro interessante che mi capitasse sotto gli occhi.
Salutai la vecchina all’ingresso, un’affabile bibliotecaria inchiodata dai reumatismi su una scomoda sedia di plastica, ma un poco esagerata quando si trattava di curare quei volumi vecchi e polverosi. I capelli bianchissimi parevano brillare nella penombra del posto, così poco illuminato. Si riusciva a leggere bene, lì dentro, solo sedendosi ai larghi e spogli tavoli sui quali si trovavano le classiche lampadine da scrivania.
I libri non potevano essere spostati dagli scaffali né portati fuori anche solo per il minimo tempo possibile. Si poteva stare dentro quanto si voleva, ovviamente non durante il coprifuoco, e quando si andava via si chiudeva il libro e lo si rimetteva al suo posto. Se si doveva continuare nella lettura ci si segnava da qualche parte la pagina e il capitolo, poiché il segnalibro non poteva essere usato. Guai inoltre a fare l’orecchio alla pagina alla quale si era arrivati, che il libro si rovinava irrimediabilmente!
Io quel giorno come tanti altri mi rifugiavo volendo un po’ di pace dalla routine, alla ricerca di un’avventura diversa da quella semi tragica che stavo vivendo io e che potesse impegnare per un po’ la mia immaginazione. Magari una storia più tranquilla della mia, o addirittura più movimentata e meno drammatica, assolutamente: ne avevo le tasche piene di tutti quei dispiaceri. Mi sarei fatta ispirare come al solito da un titolo qualunque che avrei trovato così, casualmente, semplicemente scorrendo con lo sguardo i dorsi delle varie copertine sgargianti.
Così sceglievo i compagni che sarebbero stati con me per gran parte dei giorni successivi. Spaziavo tra generi vari e autori di cui non molto spesso ricordavo il nome: preferivo concentrarmi sulle vicende del libro e quasi mai, scegliendo il titolo, mi veniva in mente di scoprire chi fosse l’autore, e nemmeno mi curavo di conoscerlo a lettura finita. Il volume tornava sul proprio scaffale un po’ meno impolverato di prima, in attesa che qualcun altro si accorgesse di esso. A volte mi sfuggiva anche il titolo, ed era un peccato: quando volevo parlarne a qualcuno era una vera impresa tornare in biblioteca a cercare quel volume.
Così anche quella tarda mattinata girovagavo per i corridoi piuttosto bui della biblioteca, della quale apprezzavo tanto l’odore di carta e di legno, così vivo e forte in contrasto con il freddo acciaio e ferro che almeno lì si assentava quasi del tutto. Silenziosamente giravo la testa a destra e a manca in cerca di un titolo affascinante e di un colore che mi attraesse, per quanto poco fossero visibili i colori là dentro e ogni copertina apparisse di sfuggita sempre nera o blu notte. Solo facendo più attenzione si rivelavano essere color prato, bordeaux, porpora, rossicce, marroncine o azzurro polvere, erano una gamma cromatica infinita e varissima che era una gioia per gli occhi.
Sfilai da uno scaffale di chissà quale sezione un libriccino dal titolo e dal nome dell’autore sbiadito, quasi illeggibile. La copertina era ingrigita dal tempo e anche nelle sue condizioni migliori doveva essere stata un colore tenue e sensibile. Non sapevo dire cosa mi avesse attratto per scegliere quel cosino anonimo e piccino.
Non mi preoccupai di decifrare i caratteri recanti quelle informazioni a mio parere abbastanza superflue e, facendo attenzione a non produrre troppo rumore, spostai una sedia dal tavolo vuoto che divideva due lunghe file di scaffali e, con una lampadina là sopra, iniziai a leggere. La carta era particolarmente delicata e fina; quando voltavo una pagina suonava più del normale con rumorini accartocciati, che sospiravano quanto quel libriccino vetusto fosse stato maneggiato e sfogliato più o meno accuratamente.
Le mie palpebre automaticamente si abbassarono di qualche millimetro mentre scorrevano veloci ogni parola, calme e confortate dalla tranquillità del luogo. Assorbivo ogni frase avida di sapere, intanto la vicenda stessa assorbiva me e il tempo scorreva via senza che io ci facessi granché caso. In alcuni momenti avevo dei cali di attenzione, di solito nelle pause tra un capitolo e l’altro, quindi controllavo l’orario sul PokéGear e ripensavo alla lotta di quella mattina presto. Si avvicinava l’ora di pranzo ma io non accennavo a volermene andare, quindi finché il mio stomaco non avesse iniziato ad insultare il libro, avrei continuato imperterrita a leggere.
All’improvviso qualcosa turbò la nuvola di magica ovatta che mi separava dalla realtà, ma inizialmente non ci feci granché caso. A malapena mi accorsi di questo fastidioso qualcosa, lo ignorai bellamente continuando a leggere: ormai il libro si era fatto leggere fino a oltre la metà. Probabilmente era la voce della bibliotecaria che mi intimava di andarmene a pranzo perché doveva chiudere per un’oretta la stanza. E invece la voce apparteneva a qualcun altro.
Mi vergognai davvero tanto pensando di aver fatto una figuraccia, colta così di sorpresa mentre leggevo tutta assorta nella trama del libro, talmente tanto da essermi estraniata dal mondo reale. Infatti un ragazzo aveva cercato di salutarmi, sorpreso di trovarmi lì, forse, e ancor più sorpreso di non sentirmi rispondere.
-Ehm… ehi? Eleonora…?
Mi voltai grugnendo un “Mh?” distratto per ritrovarmi poi ad arrossire violentemente, a chiudere di scatto il libro che schioccò sonoramente, annunciando alle mie povere orecchie che ero tornata sul pianeta Terra.
Oxygen mi osservava con la testa un poco inclinata su una spalla, dubbioso e forse poi un po’ divertito dalla mia reazione improvvisa. Cercando di ritrovare un po’ di contegno e fallendo miseramente come c’era da aspettarsi, balbettai ancora tutta rossa: -C… ciao.
-Mi sa che il libro ti aveva presa parecchio- commentò sorridendo di sbieco. -Ti avevo salutata qualche altra volta prima…
-Oh sì, è piuttosto interessante e intrigante, mi piace molto come si sta svil… vabbè. Che, eh che fai?- chiesi dopo un poco, appoggiando il gomito sul tavolo e nascondendo una guancia con la mano, nel tentativo di non far vedere che ero diventata color Magby.
-Stavo cercando un libro che ho letto parecchi anni fa. Mi era piaciuto e mi è tornato in mente prima, ricordandomi di una scena che mi aveva colpito…
-E l’hai trovato? Come si chiama?
-Credo sia il libro che stavi leggendo tu, ho riconosciuto un’illustrazione…- ridacchiò lui grattandosi la nuca.
Feci una faccia indescrivibile, comica e ovviamente imbarazzata. Le mie emozioni in quel momento erano piuttosto esaltate e fuori controllo.
Glielo porsi con un movimento veloce, quasi sbattendoglielo sul petto stretto. -Tieni, tieni pure. Ah ah ah…
-Cosa? Ma lo stavi leggendo!- replicò lui sorpreso.
-Non fa niente davvero ho tanto tempo per leggere sto qui quasi sempre quindi appena finisci lo riprendo io- ribattei io. Le parole mi uscivano dalla bocca a velocità supersonica e si accavallavano l’una sull’altra, rendendo il tutto appena comprensibile. Mi ricordai di quando pure lui aveva fatto una cosa del genere mentre mi parlava e la mia faccia divenne ufficialmente perfetta per cuocere un uovo all’occhio di bue. Inoltre si trasformò di nuovo in un caldissimo color Magmar.
Oxygen prese il libro indeciso e imbarazzato. Nella penombra i suoi occhiali riflettevano la luce della lampada ed essa mi informò che anche lui, un pochino, era arrossito. Lo stadio successivo, il color Magmortar, stava arrivando molto velocemente.
-Allora, be’… grazie. Leggerò solo il punto che mi interessava, te lo riporto il prima possibile.
-Sì sì, certo- cercai di rallentare le mie parole. -Fai con comodo, sul serio.
Lui annuì senza sapere cos’altro aggiungere. Lo stesso facevo io, storcendo le labbra per impedirmi di ridere nervosa o battere i denti. Ero un caso perso.
-Ehm… ti piaceva davvero, comunque, il libro?- ritentò lui con mia sorpresa, quando ormai credevo che la conversazione fosse bella che finita.
-Oh, sì. È un po’ pieno di descrizioni e non è molto scorrevole, ma la trama è molto appassionante e stranamente i protagonisti mi stanno abbastanza simpatici. Di solito parteggio per i “cattivi” o per i personaggi secondari- commentai. -E poi c’è un’introspezione niente male…
-Già, è vero… descrive molto bene le emozioni dei personaggi, senza eccezioni…
-Forse anche troppo.
Lui sorrise appena. Io iniziai a tamburellare con le dita sul tavolo cercando di fare piano, nella speranza di prolungare ancora un po’ la scarna chiacchierata. Ero però scoraggiata dal fatto che lui non accennasse a volersi sedere e perciò timorosa che, nonostante tutto, volesse solo andarsene. “E poi, perché mai dovrebbe restare qui con me?” pensai in un borbottio rassegnato. “Probabilmente sta aspettando che…”
In quel momento un PokéGear iniziò a squillare. La suoneria era al minimo, ma si udiva comunque benissimo nel silenzio di tomba della biblioteca. Era il suo, e fatalità interruppe il mio pensiero: “che qualcuno lo chiami per qualcosa o comunque ha un impegno tra poco”.
-Oh, non così presto…- borbottò a mezza voce. Mi guardò per un istante, risentito ed imbarazzato. -Mi dispiace moltissimo, ma Kripton mi ha chiamato per preparare un corso che dovremo tenere, che poi, tra l’altro, non siamo nemmeno troppo sicuri di poter aprire… ma vabbè, ci proveremo.- Sorrise appena e abbozzò un cenno di saluto non troppo pronunciato. -Ci vediamo, allora.
-Sì. Ciao, a presto- soffiai quando lui subito si era voltato e frettolosamente andava via, svoltava l’angolo portando con sé il bel libro che speravo di finire a breve.
Chissà se gli dispiaceva davvero.
Intanto la voce seccata della bibliotecaria risuonava per tutti i corridoi, minacciando di una morte atroce il proprietario dell’aggeggio elettronico che aveva turbato la quiete del luogo.
Lo stesso pomeriggio passeggiavo in tondo, senza meta, per la base segreta, aspettando un’illuminazione che mi mostrasse qualcosa di bello e interessante da fare. Mi sarei accontentata anche di qualcosa per lo meno decente, comunque, che mi impegnasse per qualche oretta in attesa dell’ennesima lotta con qualcuno. Avevo le cuffiette nelle orecchie ma non facevo caso alle canzoni che la riproduzione casuale stava scegliendo.
No, facevo la cosa che meglio mi riusciva: pensare. Come al solito, d’altronde. Avevo sempre qualcosa per la testa e non riuscivo proprio a svuotare la mente, mai. Difficilmente non ero impegnata ad elaborare qualcosa su qualunque argomento. Onestamente, pensavo anche troppo, tanto che il confine tra la mia mente e la realtà si assottigliava proprio come quello tra lo stesso mondo reale e quello di un qualche libro.
Questo non faceva che allontanare la Eleonora che viveva giorno per giorno un anno e mezzo circa prima, con i compiti da fare per il giorno dopo all’Accademia e preoccupata per una piccola Swablu che cresceva di livello con immane lentezza e un maschio di Kirlia, mezzo autolesionista, che non accettava il suo femminile gonnellino.
Sospirai. “Non c’è più niente da fare, temo” pensai, non rattristata ma un po’ nostalgica. “Quei giorni sono ufficialmente finiti ormai. Non tornerò mai più la Eleonora di quei tempi, perché anche quei tempi se ne sono andati. Credevo di poterci riuscire qualche mese fa, ma adesso sono successe davvero troppe cose… è cambiato tutto, sono cambiata io in primis. Immagino siano fasi della crescita, fatto sta che ora sono più…”
Com’ero?
“Più matura, sì, indubbiamente; più esperta, anche più riservata, meno ridente e spensierata come mi ero invece ripromessa di essere tempo fa” ripresi nella mia mente, “e non so bene se sia un bene o un male, questa maturità che è aumentata tutto d’un tratto… quando ha cominciato? Forse con la morte di Iris, nonostante io mi fossi detta di essere più felice, ho iniziato a capire quanto sia effimero un istante e come la vita sia fragile? Penso alla Torre Dragospira e al fuoco, a quanto poco ci sia voluto per uccidere sia lei che la Campionessina. È lì che è cominciato tutto? Non ne sono molto sicura…
“No, non è da quel momento che ho iniziato a crescere più velocemente. Non sono state nemmeno le parole di Enigma di poche ore prima, così potenti e profonde e piene dell’esperienza di chi il mondo lo conosce… neanche la paura alla centrale nucleare di Flemminia, dove in ogni momento rischiavo di morire o di essere contaminata irrimediabilmente, o alla vista di Nightmare mentre cercavo di catturarlo e non potevo riuscire a immaginarne la sofferenza. Deve essere stato qualcosa successo a me in prima persona, che mi ha toccata tanto… ah.”
Gli allenamenti di preparazione alle missioni. Da lì, dapprima con lentezza e poi sempre più speditamente, la piccola Ele iniziava a sbiadire.
“Già, sicuramente sono stati quelli” affermai con decisione e anche un poco di riluttanza. “Ho iniziato ad allenare non solo il corpo, ma anche il carattere e… no, addirittura lo spirito no; ma il mio carattere è profondamente mutato, non so se in meglio o in peggio, a partire addirittura da lì, così presto. Sì, mi basta pensare alla reazione sconvolta alla vista delle armi che avrei dovuto adottare, il coltello e la pistola, e nonostante inizialmente mi rifiutassi categoricamente di toccare quelle due cose… prima che iniziasse l’estate gli allenamenti si sono fatti sempre più vari e frequenti…”
Ero arrivata nel dormitorio. Mi arrampicai sul letto e mi sdraiai sopra di esso, cercando di ignorare il vociare di un gruppetto di ragazze poco più lontano. Evitavo di pensare il più possibile a tutti i manichini che avevo infilzato anche con lanci da lontano o con spari più o meno precisi.
Si iniziava con la pistola. I primi tempi la mano, anzi, l’intero braccio tremava a stringere un contatto così stretto con essa, e i colpi erano imprecisi e impauriti. Non ero stata l’unica a entrare in crisi durante i primi allenamenti o a sbagliare completamente mira a causa del tremore, il quale faceva sì che alcuni spari andassero addirittura verso il terreno, non solo molto ai lati del bersaglio.
Alla fine i toni rabbiosi e concitati di Sandra e di altri “professori” imponevano una certa freddezza, un buon autocontrollo - quasi spontaneo, a dir la verità - e anche una precisione non indifferente. Involontariamente ci si impegnava perché non si riusciva più a sentire sempre le stesse critiche strillate nell’orecchio, ci si decideva a farla finita con quei continui fallimenti e errori ripetuti. Si familiarizzava con l’impressionante piccola esplosione che lo sparo produceva nella grossa stanza degli allenamenti e che riverberava mille volte dentro chi aveva premuto il grilletto, con un’eco infinita alla quale l’immaginazione abbinava immagini scandalose di un corpo morto, che chi aveva sparato aveva reso tale con quella maledetta arma.
Ma ci si faceva l’abitudine. I maggiorenni o comunque coloro che erano ritenuti più esperti e responsabili ne portavano una sempre con sé, anche perché spesso uscivano precipitosamente dalla base segreta per più giorni per qualche missione importante e urgente. Io per fortuna non ero costretta a vivere in simbiosi con quella cosa.
Il gradino successivo era il coltello. Dopo un allenamento a pranzo io e tutti gli altri evitavamo di toccarlo e tagliavamo tutto con la forchetta, sempre che avessimo ancora appetito. Quando si iniziava a maneggiarlo l’impatto dell’arma tra le tue mani era ormai stato superato, quello strumento micidiale che le circostanze ti imponevano di riuscire a padroneggiare era ormai dentro di te.
Nonostante ciò, le sensazioni erano molto diverse. Si aveva il coltello dalla parte del manico, già, faceva sentire potenti quando si capiva come usarlo al meglio. Ma io davvero i primi tempi avevo la sensazione che qualsiasi parte di esso fosse offensiva e potesse farmi male. Le mani non tremavano più al pensiero dell’arma, però dopo aver visto ciò che accadeva ai poveri manichini e aver viaggiato giusto un pochino con la mente, umanizzandoli al massimo, qualcuno del gruppo lottava per scappare dalla stanza e andare a piangere dai propri Pokémon o amici in cerca di rassicurazioni. In cerca della mamma, forse.
Eravamo costretti a studiare i punti deboli dell’essere umano, arrivando a ingoiare buona parte dei tomi di anatomia per sapere alla perfezione dove colpire e come. Agli inizi, agli allenamenti di quasi un anno prima, io lo facevo per autodifesa e nella lotta libera mi tornavano molto utili quei saperi. All’idea di rispolverare tutto quanto non per difendermi o per mettere momentaneamente fuori gioco l’avversario, ma per ucciderlo davvero, mi sentii piuttosto male. Così non eravamo tanto diversi da assassini, non sapevo più nemmeno se le nostre fossero buone cause e non riuscivo a perdonarmi per quello che stavo facendo.
“A saperlo mi facevo rinchiudere nei sotterranei insieme ad Angelica” pensai rigirandomi tra le mani la Poké Ball di Altair. Il battito che percepivo era regolare e tranquillo come al solito.
Mi raggomitolai su un fianco e mi ritrovai a pensare a Oxygen.
Ormai non potevo più nascondermelo, quel ragazzo con il tempo - e non ci aveva messo neanche troppo - aveva sortito una fortissima impressione su di me. Senza costringermi a troppi giri di parole, ero come minimo cotta di lui. “Innamorata” era una parola che riuscivo ad accettare a malapena, non sapevo cosa significasse né che si provasse quando lo si era realmente. Forse con questi presupposti non avrei mai capito cosa fosse l’amore vero perché mi sarei aspettata sempre qualcosa di più, ma ero ancora “piccola” per capire, almeno allora. “Se la guerra non mi vorrà togliere di mezzo troppo presto” pensai, “lo capirò, me lo prometto. E stavolta terrò fede.”
Già durante le prime lezioni mi aveva colpito quel suo aspetto così delicato e i suoi modi di fare, era pacato e gentile ma ci sapeva fare come insegnante, sia perché era un ottimo Allenatore, sia perché individuava subito gli errori che commettevamo un po’ tutti. Sapeva dare consigli, era un vero esperto, ma non biasimava duramente come invece faceva quel menefreghista antipatico di Argon.
Quindi già come professore mi piaceva molto e aspettavo ogni volta con ansia le sue lezioni; poi scoprire che aveva un Altaria cromatico mi aveva ancor di più impressionata, e quello aveva segnato un punto di non ritorno da quella duratura simpatia. Altair invece, stranamente, se l’era fatto passare, quell’interesse alla vista di un Pokémon della sua specie tanto particolare.
Mi piaceva Oxygen perché era una bella persona, dentro e secondo me anche fuori. Non mancavano le prese in giro che le ragazze rivolgono a tutti i professori, nessuno escluso, perciò a volte mi ritrovavo costretta ad ascoltare, furente, le critiche sul suo naso un po’ aquilino, sulla pelle chiara da albino e sugli occhiali troppo grandi che, a detta loro, coprivano metà del suo bel faccino “spigoloso”. Cosa avesse di spigoloso io non lo avevo ancora capito: forse intendevano dire che essendo fisicamente mingherlino aveva il volto molto magro, ma a me non pareva affatto un motivo plausibile per scherzarci sopra.
Già, per me non esisteva alcuna ragione per prendere in giro qualcuno che mi piaceva così tanto. Ero innamorata della sua cortesia e sensibilità, del suo tatto e di quegli occhi azzurri, chiari e limpidi: mi mandava in confusione qualsiasi sua occhiata, leggermente vitrea e all’apparenza sempre persa nel vuoto. “Starà guardando me? È così? Che devo fare?” mi chiedevo dubbiosa ed emozionata. Quando mi si avvicinava di poco, anche per poi passare oltre per aiutare qualcuno durante una lezione, mi comportavo in maniera innaturale ed ero tesissima. Mi domandavo cosa convenisse dire e fare in sua presenza, per suscitare una buona impressione e fare in modo che la mia immagine, della quale ero tanto insicura, rimanesse impressa nella sua mente almeno per un po’. Che non si dimenticasse di quella Eleonora che come lui aveva un’Altaria e che amava lottare, che pur di rimanere in un grande gruppo di persone simili e diverse da lei, in cui potesse sentirsi utile a qualcosa e nel quale si sentiva almeno un minimo realizzata, aveva sopportato lezioni con armi e altre mille faccende sgradevoli.
Perché non sempre ero contenta e soddisfatta di ciò che mi toccava fare, no, anzi: la maggior parte delle volte ero costretta a stringere i denti e cercare di convincermi che, tanto, in altri ruoli mi sarei sentita inadeguata e poco capace. Che magari agli altri andava anche peggio e che, in fin dei conti, era meglio sopportare la fredda esplosione dentro me stessa all’udire lo scoppio dello sparo di una pistola, anziché ridurmi a un esserino accartocciato e ingiallito che non vedeva mai la luce del Sole, come Angelica nei sotterranei.
Quel giorno mi aveva salutata e aveva voluto parlare un po’ con me: era un buon segno o, siccome stava aspettando la chiamata dal fratello Kripton, doveva solo perdere del tempo in giro e io ero stata l’unica a capitare al momento giusto? Non sapevo dire se fosse stata interessante, per lui, la conversazione. La maledetta penombra della biblioteca non mi aveva permesso di vedere bene i suoi meravigliosi occhi, solo quel poco di rossore sulle sue guance, che poteva benissimo essere dovuto all’imbarazzo visto il mio comportamento impacciato. Ero davvero così visibilmente in fibrillazione ogni volta che lui si avvicinava? O la sorpresa di essermelo ritrovato al fianco mi aveva fatto quasi saltare dalla sedia e arrossire come una bambina?
“Non ho autocontrollo…” mi lamentai tra me e me, schiacciandomi buffamente il cuscino sul naso.
Potevo pensare a mille momenti in cui sembrava interessato e al contempo poteva benissimo non fregargliene nulla di me. E poiché non solo mancavo di autocontrollo, ma anche di autostima, non accettavo alcuna idea del tipo “Ehi, ma ti ha guardata parecchio a lungo senza un vero motivo! Forse qualcosa sotto sotto inizia a provarlo pure lui! Magari un po’ gli interessi, ti sei fatta notare!”.
Quando qualche pensiero del genere si insinuava nella mia mente da depressoide pessimista cosmica - mi facevo un po’ pena per questo, lo ammettevo senza problemi sentendomi ancora peggio - mi veniva da ridere e mi rispondevo: “Sì, come no. Sono una persona così piena di qualità, nevvero?”.
Dovevo avere qualche serio problema, ero giunta a questa conclusione da tempo. Mi serviva qualcuno che mi rassicurasse, mi mostrasse qualche mio punto di forza del quale potevo andar fiera e che mi rendesse in grado di riprendere a camminare a testa alta, non desiderando di passare inosservata e di essere lasciata in pace.
Iniziavo a credere che fosse anche una sorta di forma di egocentrismo il mio, quel bisogno di isolarmi da tutti, nella speranza però che qualcuno si ricordasse di me e notasse che avevo bisogno di qualcuno e qualcosa. Non capivo cosa mi stesse succedendo, ero cambiata davvero così in peggio?
Ormai ero scoraggiata, mi chiedevo se fosse ancora possibile tornare indietro e recuperare la spensieratezza di un solo anno prima. Ma poi una voce profonda, grave e soprattutto triste mi rammentava che no, potevo provarci quanto volevo, ma era evidentemente una battaglia persa. Tanto valeva arrendermi e risparmiarmi pesanti dispiaceri - come se non ne avessi già abbastanza.
Nonostante tutto ci provavo, silenziosamente e timidamente dentro di me, continuavo a cercare uno straccio di ingenua felicità che potesse farmi sorridere per ore e non per pochi istanti isolati. Da qualche parte doveva essere, ben nascosto dalla voce che mi consigliava di lasciar perdere tutto.
Ero una combattente anche in questo, non era solo un lavoro il mio ma anche un modo di essere. Peccato che anche la me contro cui lottavo fosse una potentissima guerriera, irremovibile e ben radicata nel mio essere, ormai. Ero diventata terribilmente cocciuta e ostinata.
Una cosa per me era certa: stavo combattendo troppe guerre e non sapevo dire quale fosse la più dura. Erano tutte onnipresenti e non potevo allontanare i miei pensieri da una sola di esse neanche per un secondo, i miei sonni erano agitati dalla fredda e rauca risata di Cyrus, dalla voce dentro di me che mi intimava di arrendermi e dallo sguardo tranquillo e cauto di Oxygen. Ero stanca, le occhiaie deformavano la mia espressione e mi sentivo un guscio vuoto tra le mani di Bellocchio, il mio burattinaio.
Strinsi i pugni. Non c’era bisogno di ricordarmi quanto fossi stanca, annoiata, irrimediabilmente triste e anche parecchio frustrata. Ero anche innamorata, arrabbiata e traballante sulle mie gambe.
La guerra contro i Victory mi faceva infuriare, mi riempiva del più puro odio e disumano desiderio di vendetta, che mai avrei creduto fosse possibile provare in prima persona. La cosa però non mi stupiva più, mi ero resa conto di queste emozioni che provavo nei loro confronti e mi convincevo che era questo ciò che avevo dentro, non potevo e non volevo negarmelo. Mi avevano portato via una vita felice e senza rischi, la mia casa, i miei genitori, gli amici di Nevepoli; anche la perdita di Chiara era una conseguenza dell’impegno che mettevo per combattere contro di loro. Non ero sicura che aver trovato i Pokémon e la mia squadra fosse una sufficiente consolazione a ciò che mi toccava sopportare.
Quella con me stessa mi stava distruggendo. Ero sul sottile confine che divide la voglia di lottare ancora e l’arrendersi all’evidenza, alla battaglia già persa che testarda mi ostinavo a continuare, non facendo altro che ferirmi ulteriormente e provocando in me ulteriori dispiaceri e problemi. Ero una stupida che si aggrappava alla speranza che ci fosse ancora la vecchia sé stessa, migliore di quella di quel periodo. Forse lei si sarebbe sostituita alla Eleonora peggiore e avrebbe fatto sì che le proprie qualità emergessero, che Oxygen si innamorasse di lei e che la rendesse ancor più felice.
Già, Oxygen. Un’altra guerra…
“Oxygen, tu verrai a salvarmi?”





Angolo ottuso di un'autrice ottusa - del quale non ricordo il colore, spero di averlo azzeccato.
Oh sono tornata! Non mi aspettavo di pubblicare questo mese, ma mi sono fatta forza e diciamo che mi sono sbloccata. Ma è tutto da vedersi ancora. Ho intenzione di allungare ulteriormente i capitoli tanto per darvi noia per migliorare alcune cose che credo ci sia bisogno di affinare.
E vabbè niente, la nostra Ele è innamorata follemente di Oxygen ma è troppo testarda per ammetterlo, lui invece è ambiguo e Bellocchio non si capisce cosa voglia. Spero vi piaccia questo quadretto poco felice che si svilupperà ulteriormente nei prossimi capitoli :P
Siamo al quattordicesimo capitolo, ufficialmente a metà storia, credo, contanto anche il prologo e l'extra che arriverà tra qualche capitolo. A breve cambierò un'altra volta l'impaginazione della storia perché questa non mi entusiasmava già prima molto, ora ne ho trovata una migliore - simile a quella della mia nuova bio - che mi piace di più, perciò quando non mi sveglierò pigra la cambierò.
Credo di aver finito. A presto!
Ink
  
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