BREVE INTRODUZIONE: ritorno a pubblicare su EFP dopo essermi dedicato ampiamente alla filosofia e allo studio, così da ampliare lessico e strutture letterarie. Spero che a qualcuno oltre me piacerà questa inezia appena scritta. Vi prego di lasciare qualche commento o un opinione (possibilmente con all'interno un forte senso critico) così da poter migliorare. Ve ne sarei molto grato.
Una volta una musa mi ha cantato Baudelaire. Parole melliflue che dalle sue labbra smorte, ondeggianti, giungevano a me, scivolando per gli afflati del suo respiro, per la dolce pietra serena del borgo, in sul calar delle tenebre. Non mi sussurrò che seguirla e per le vaste vie vuote, illuminate solo dalla luna, le corsi dietro tentando invano di essere la sua coda raggiante e soffice. Passo una via, poi un'altra, poi svolto sbattendo i piedi, battendo il tempo dei suoi passi di rugiada mentre lei, muta, non faceva rumore, quasi si preoccupasse di non svegliare alcun chi. Non ostentava nel suo leggiadro fluttuare alcunché di superiore, alcunché di divino, se non che lei lo fosse. Al primo lampione irradiante una luce rosso sangre, vivida per l'abbraccio moribondo degli ultimi istanti di giorno, sparì, voltandosi però prima per mostrarmi un sorriso. Ah, musa dalle bianche gote, fosti tanto crudele ad abbandonarmi per il borgo sconosciuto, a incantarmi con quelle parole leggiadre, con quel francese leggero, con quegli occhi chiari. Sparisti dietro una fitta coltre mattutina l'indomani del nostro primo incontro. Io ti scorsi mentre le strade non pulsavano ancora di genti, mentre la notte consegnava pace al dedalo che mi intrappolò nella ricerca di te. Una sillaba mia tu non ti voltasti e sparisti dopo un passo. Non ti corsi dietro quel giorno. Stremato com'ero m'accascia su un'arrugginita panchina e mi addormentai. Credo che ti sognai poiché al mio risvegli ti volli ricercare. Ma per le vene della città i globuli rossi, quelli bianchi, le piastrine e quel che vuoi si addensavano formando grumi, accalcandosi agli snodi principali, impedendomi di vedere a oltre un metro dai miei occhi scuri. Mi immisi nell'arteria principale e tornai a casa. I giorni si accatastarono uguali in quel paesotto bruno, finemente medievale. Non ebbi più il coraggio di discendere le scale asimmetriche e immergermi nella masnada fervente. Preferii sorella miseria. Al dì prima della sera d'addio andai per gli scarni porti. Odori di pesce morto e lavoro mi ricondussero nella sfavillante via dove t'incontrai. Lontana omai quella notte ornata di ghirlande e spine ove m'immersi nei tuoi larghi occhi perdendomi. Non ti ripensai fin la sera. La notte è brigante e il treno non volle giungere, 'sì che io mi detti ai bagordi come altri mille come me, ma con qualcosa in meno (tu). Ti incontrai! -Che Dio mi sia testimone, che Ei mi fu testimone- ti incontrai. Ma dov'era il tuo sorriso? La tua dolce voce suadente? E quegli occhi chiari, perché ora trasalivano di spietata durezza? Perché le tue gote ora s'inasprivano di un'acre giallo? E i tuoi capelli sparsi e oro perché erano attorti e consunti? Perché le tue labbra -barca dei miei sogni- ora parevano ebbre donne di provincia pulsanti di cocktails e amaro sale? Ebbi in mente il tuo viso dolce, ora scarno, i tuoi fianchi scabri e ossuti, il tuo corpo ossuto, ora, deperito, come se la nostra distanza ti avesse transumata in un mostro. E il tuo francese? Morto nella volgarità di uno stretto dialetto sillabico, straziato da un accento tutt'altro che naturale, lacerato e poi sparso in rivoli di parole tronfie. Eri nata e morta in una notte, cara musa.