In the middle of the Night
CAPITOLO 2: GOOD IMPRESSION? YOU’RE DOING IT IN THE WRONG WAY, BELLAMY
Remember the day
'Cause this is what dreams should always be
I just want to stay
I just want to keep this dream in me
Ricorda quel giorno,
Perchè è così che dovrebbero sempre essere i sogni.
Voglio solo restare,
Voglio solo continuare a tenere questo sogno dentro di me.
Dopo
il pranzo che Abby aveva amorevolmente preparato insieme a Marcus in
onore del ritorno di sua figlia, Clarke tornò in camera sua e si
decise a disfare le valige.
Odiava
partire, o arrivare. In realtà odiava preparare e disfare i
bagagli, non le importava se fosse perché era tornata a casa o
in partenza per un viaggio in capo al mondo. La innervosiva e basta e
per questo si riduceva sempre all’ultimo, spesso dimenticando
qualcosa.
Yeti
dormicchiava sul tappeto ai piedi del letto di Clarke, dopo essersi
ingozzato fino a scoppiare e la ragazza gli lanciò
un’occhiata divertita. Quel gatto mangiava davvero troppo, temeva
che un giorno o l’altro sarebbe scoppiato come un palloncino
proprio davanti ai suoi occhi. La ragazza scacciò
l’immagine e riprese a sistemare i suoi vestiti.
Non
aveva detto a nessuno dei suoi amici del liceo che sarebbe tornata a
casa per l’intera estate e, in realtà, non sapeva neanche
spiegarsi il perché.
Wells
abitava proprio nella casa di fianco alla sua e le loro camere da letto
erano allo stesso piano. Da ragazzi aprivano le rispettive finestre ed
erano capaci di stare ore e ore a parlare, che fosse notte o giorno non
importava. Clarke ricordò con affetto di quando l’amico le
chiedeva chiarimenti in biologia e lei allora gli spiegava tutto a
voce, dalla sua stanza, mentre Wells, con il libro appoggiato al
davanzale della finestra, la ascoltava attentamente, prendendo appunti.
La sua adolescenza era passata in quel modo e poi suo padre se n’era improvvisamente andato e tutto era cambiato.
La
ragazza non pensava a suo padre da molto, non da sveglia ad ogni modo,
perché il ricordo di lui la tormentava comunque ogni notte e lei
non si sarebbe mai aspettata che tornare a casa le avrebbe fatto un
tale effetto.
Chiuse
gli occhi mentre riponeva la valigia ormai vuota nello spazio angusto
tra l’armadio e il muro. Conosceva quella stanza troppo bene dopo
tutti gli anni passati lì.
Avrebbe
tanto voluto essere come Yeti. Avrebbe voluto che la sua unica
preoccupazione fosse quella di mangiare e ricevere coccole a
sufficienza, ma i suoi problemi erano ben altri.
I suoi problemi la divoravano come se qualcuno, nascosto nell’ombra, provasse gusto nel vederla soffrire.
Uno dei suoi maggiori problemi, era che non fosse mai stato scoperto
l’assassino di suo padre. Non era stata fatta giustizia.
Il
labbro inferiore di Clarke tremò sotto la minaccia incombente
delle lacrime. Lacrime che non versava ormai da più di sei anni.
Dal giorno del funerale, in cui si era stretta a sua madre con una tale
forza che la donna aveva dovuto faticare non poco per tenerle in piedi
entrambe. Poi Wells l’aveva trascinata lontano, insieme a Jasper
e Monty e lei non aveva mai più pianto da quel momento.
Aveva cominciato ad erigere un muro intorno a sé stessa. Un muro che solo Thalia, da allora, era riuscita a valicare.
Se
non fosse stato per lei, Clarke non sapeva davvero come avrebbe fatto a
superare gli anni del college, ma l’amica era rimasta al suo
fianco, sostenendola sempre.
Trovarla era stata una fortuna.
La
ragazza ricacciò indietro le lacrime e si diede un contegno.
Aveva deciso che sarebbe andata a trovare Wells e che poi avrebbe
telefonato a Jasper e Monty e si sarebbero messi d’accordo per
uscire tutti insieme una sera. Aveva bisogno di un equilibrio. Aveva
bisogno di sapere che i suoi vecchi amici erano ancora lì.
Si
cambiò, indossando un paio di shorts di jeans e una canottiera
blu, scese le scale che portavano al primo piano e poi ancora la rampa
fino a ritrovarsi al piano terra.
Marcus
e sua madre erano seduti sul divano a guardare un film, l’uomo
passava distrattamente un braccio intorno alle spalle di lei, e
quell’immagine le fece inaspettatamente male.
Clarke
poteva dirsi tutte le bugie del mondo, ma nel profondo sapeva che non
si sarebbe mai abituata a vedere sua madre con un altro.
«Tesoro, stai uscendo?» scattò la donna non appena la vide.
«Sì, io… pensavo di andare a trovare Wells».
«Mi
sembra un’ottima idea» sorrise Abby in risposta. «Ti
farà bene passare un po’ di tempo con i tuoi amici del
liceo».
Clarke
accennò un sorriso di circostanza e fece un breve cenno di
saluto alla coppia, che Marcus ricambiò con la mano in cui
teneva il telecomando della televisione.
La
temperatura esterna era calda e afosa e la bionda percorse i pochi
metri che la separavano dal portico di casa Jaha sempre più
elettrizzata. Non era mai rimasta seriamente a riflettere su come
sarebbe stato rincontrare davvero i suoi amici, ma… lo avrebbe
scoperto a breve.
Una
volta davanti alla porta, suonò il campanello
dell’abitazione una volta, con discrezione e, una manciata di
istanti dopo, la familiare figura di Thelonius Jaha le si parò
davanti, il viso attraversato da un lampo di stupore non appena
realizzò chi si trovasse davanti.
«Clarke?».
«Salve, signor Jaha».
Senza
che nemmeno se ne rendesse conto, l’uomo le aveva circondato il
torace in un abbraccio paterno e, per un momento, la bionda rimase
rigida in quella posizione.
«Vieni, entra… » le disse poi lui, scostandosi da una parte per lasciarla entrare in casa propria.
Clarke
attraversò l’ingresso e, in un solo istante, una miriade
di ricordi le turbinò nella mente. I pomeriggi passati con
Wells, le loro chiacchierate, le ore di studio, i momenti in cui
sottovoce si erano raccontati i loro “problemi” riguardo
alle persone che interessavano rispettivamente all’uno e
all’altra. E il dolore di Wells quando le aveva raccontato della
morte di sua madre, quando lui aveva solo dieci anni e lei si era
ammalata di leucemia. Clarke non aveva mai conosciuto Angeline Jaha, ma
dalle parole dell’amico, doveva essere una donna straordinaria.
«Posso offrirti qualcosa, Clarke?» la riportò alla realtà Thelonius.
«Sto bene così, grazie».
«Immagino
che tu sia qui per mio figlio, quindi… beh, non ti trattengo
oltre. Credo che tu conosca bene la strada» disse sorridendo.
Lei annuì, salì le scale e poi di nuovo, arrivando sul corridoio della mansarda.
Bussò
tre volte alla porta, piano, e, dall’interno, sentì un
rumore secco. Non si era nemmeno resa conto di aver appena usato il
segnale che lei e Wells avevano stabilito da ragazzini, per capire
immediatamente che non poteva trattarsi di qualcun altro.
La
porta in legno scuro della stanza del suo migliore amico si aprì
di scatto e la figura massiccia del ragazzo torreggiò su di lei,
uno sguardo ancor più sorpreso di quello del padre, dipinto in
volto.
«Clarke… la mia Clarke… ».
Prima
che se ne rendesse conto, il ragazzo l’aveva già presa per
mano, portandola all’interno della stanza e richiudendosi la
porta alle spalle.
Per
un momento, all’interno delle quattro pareti, aleggiò uno
strano silenzio, un silenzio teso, prima che Clarke gettasse le braccia
al collo dell’amico, tenendolo stretto a sé.
«Scusa se non mi sono mai fatta sentire».
«È
tutto a posto, Clarke… è tutto a posto»
ripeté lui incoraggiante, accarezzandole piano la schiena con
atteggiamento affettuoso.
Clarke
annuì, chiudendo gli occhi al contatto con il torace di Wells.
Quel ragazzo era sempre stato incredibilmente alto per la sua
età e, di fatto, lei gli arrivava a stento alla spalla.
«Sei
il mio migliore amico da dieci anni, Wells, il primo che mi abbia teso
una mano quando sono arrivata qui e… io ti ho praticamente
ignorato negli ultimi sei anni. Come puoi ancora volermi bene?».
«Perché,
come hai appena detto, sei la mia migliore amica da dieci anni, Clarke
Griffin e non si può semplicemente smettere di voler bene ad una
persona» le rispose lui con un sorriso sulle labbra.
Clarke
si abbandonò sul letto dell’amico e lui si sedette al suo
fianco. In un attimo tornarono di nuovo quindicenni e spensierati e
Clarke lo permise, perché in quel momento l’affetto che
provava per Wells era maggiore di qualunque altra cosa che provasse
dentro e si sentì perfino in colpa nei confronti di suo padre.
Lui non c’era più, quindi con quale diritto lei si sentiva
tanto bene? Ma, per quanto si detestasse, non riusciva a fare
altrimenti. Trovarsi lì in quel momento la riportò
indietro negli anni.
*«Wells! Allora… come sto?».
Clarke
uscì dal bagno della sua camera da letto indossando
l’abito che aveva scelto con mesi di anticipo per il ballo di
fine anno. Era un abito davvero fiabesco: un mono-spalla blu notte
lungo fino ai piedi e fatto di un tessuto talmente morbido e scivoloso
da sembrare liquido. In vita aveva un inserto argentato e uno spacco
sulla gamba destra.
La
bionda lanciò uno sguardo impaziente in direzione del suo
migliore amico, che continuava a tenere la bocca chiusa e gli occhi
fissi su di lei come se avesse improvvisamente perso l’uso della
parola.
«Wells!» lo richiamò spazientita.
A quel punto il ragazzo parve riscuotersi.
«Sei… stai d’incanto».
«Dici che piacerà a Finn?».
«Beh,
dico che se non dovesse piacergli, avrebbe senz’altro bisogno di
una visita oculistica… o psichiatrica».
«Sei proprio un idiota… ».
Lui
accennò ad un breve sorriso, poi si alzò dal letto
dell’amica con addosso il suo smoking elegante e le porse il
braccio sinistro.
«Posso avere l’onore?».
Clarke
si aggrappò a lui, anche per avere una certa stabilità su
quei tacchi vertiginosi date le due rampe di scale che li attendevano.
Una volta giunti all’ingresso, Jake Griffin si parò loro davanti con una macchina fotografica tra le mani.
«Papà! Devi fare questo teatrino ogni anno?» gli chiese Clarke con tono falsamente scocciato.
«Assolutamente sì! Devo immortalare o no la mia bambina quindicenne la sera del ballo di fine anno?».
«Non sono più una bambina, papà».
Lui la abbracciò e le stampò un lieve bacio sulla fronte.
«Tu sarai sempre la mia bambina», disse infine.
Clarke
sorrise nonostante tutto e abbracciò suo padre con affetto, poi
fece lo stesso con sua madre, si lasciò scattare quella foto e
infine, insieme a Wells, uscì di casa.
L’amico
guidò fino ad arrivare alla loro scuola: la “Mount Weather
High”. Era lì che si erano dati appuntamento con i
rispettivi accompagnatori: Clarke era stata invitata da Finn Collins,
un ragazzo che aveva iniziato a frequentare da poco che usciva da una
relazione storica con la ex Raven Reyes, un anno più grande di
loro.
Wells
invece sarebbe andato con Roma Gordon, una loro coetanea che a Clarke
stava molto simpatica. La ragazza era davvero contenta del fatto che
Wells avesse finalmente trovato qualcuno; prima di allora il suo amico
non aveva mai dimostrato interesse nei confronti di qualcuna in
particolare, passando tutto il suo tempo con lei.
Wells
lasciò l’auto nel parcheggio gremito della scuola e i due
si avviarono verso l’ingresso. Finn e Roma li aspettavano in
atrio, chiacchierando tranquillamente tra di loro.
«Ehi… » disse Clarke una volta che fu giunta abbastanza vicina al suo cavaliere.
«Ehi… ehm… wow, Clarke… sei… fantastica».
La
ragazza stava per rifilargli una delle sue solite battute sarcastiche,
ma riuscì a trattenersi e si limitò a sorridere.
«Grazie. Anche tu non sei male… ».
Stavolta
fu Finn a sorridere, poi il ragazzo la invitò a prendere parte
alle danze e i due si avviarono in palestra, addobbata per
l’occasione.
Come
sempre in quelle occasioni, c’era una gran folla lì dentro
e i ragazzi si scatenavano in pista, alcuni accaldati e sorridenti,
altri più impacciati e a disagio.
«Quello non è il tuo amico?» chiese Finn dopo un po’, indicando un punto alle spalle di Clarke.
La
ragazza si voltò, puntando gli occhi su un Jasper evidentemente
ubriaco che si esibiva in certe mosse da ballo alquanto improbabili.
«Oh,
mio Dio… » disse cominciando ad avviarsi verso il ragazzo,
ma il suo accompagnatore la trattenne per un polso.
«Ehi, aspetta! Dove vai?».
«Devo
portarlo via da lì, prima che la cosa degeneri. L’anno
scorso era continuamente preso di mira da Blake e i suoi scagnozzi
idioti, se dovessero ricominciare non sarebbe più finita».
«Qual è il problema? Bellamy ormai non è più a scuola… ».
«Sì,
ma John, Atom e soprattutto Murphy sono all’ultimo anno e
sarebbero sicuramente capaci di rendergli la vita un vero
inferno».
In
realtà anche Murphy avrebbe ormai dovuto essere un ex allievo,
se non fosse per il fatto che era stato bocciato agli esami finali,
dovendo ripetere l’anno. Questo aveva peggiorato, se possibile,
il suo carattere già parecchio problematico e alle volte
violento, rendendolo un pericolo pubblico.
Ad
ogni modo a Clarke era bastato che il capobanda fosse fuori da
lì. L’anno precedente quel ragazzo attaccabrighe e
scalmanato aveva reso la vita scolastica di Clarke un vero incubo, fino
a che lei non lo aveva affrontato di petto un giorno in cui aveva
davvero perso la pazienza e da allora, il giovane Blake aveva smesso di
tormentare lei e i suoi amici.
La ragazza si avvicinò a Jasper e in quel momento anche Monty li raggiunse.
«Ehi, Clarke!».
«Monty, dovresti portarlo via di qui… davvero».
«Ma come? La festa è appena cominciata».
«Monty!».
«Ok ok… hai sentito, amico? Il capo ha detto che è ora di sgombrare».
«E
tu non darle retta… Clarke è una vera guastafeste»
rispose lui in modo talmente scoordinato che i suoi amici dovettero
seriamente concentrarsi per capire che diavolo stesse dicendo.
«Domani mattina mi ringrazierai, fidati».
Ma l’amico non le rispose più e, sorretto da Monty, si allontanò con passo malfermo.
«Disastro evitato?» Finn le si era nuovamente avvicinato e la osservava sorridendo.
«Sì, dov’eravamo rimasti?».
Lui le porse la mano sinistra e l’attirò a sé stringendola in vita.
«Qui, se non ricordo male… »*.
Clarke
sospirò. Le sembrava fosse passata una vita da quella sera e in
un certo senso era così. Di sicuro lei non era più la
stessa persona. Non le importava più così tanto come le
stessero addosso abiti lunghi ed eleganti, non le interessava se la
borsa si abbinava alle scarpe e il colore del trucco a quello del
vestito.
Le
importava solo del fatto che il delitto di suo padre fosse caduto nel
dimenticatoio e nessuno sembrava preoccuparsene. Anche per questo aveva
voluto andarsene da quella città, perché la rabbia che
aveva iniziato a covare nel petto dal momento in cui il caso era stato
archiviato, era talmente opprimente che a volte se ne spaventava lei
stessa.
E sì, nel profondo, era ancora furiosa con sua madre.
«Clarke? Ci sei?».
La voce di Wells la riscosse.
«Scusa, io… ».
«Eri andata a Pensierolandia?»
il suo amico aveva inventato quella parola in occasioni del genere,
quando si accorgeva che l’amica era assente, lo sguardo vuoto,
lontano. I suoi pensieri erano lontani e allora aveva deciso di coniare
quella nuova parola.
Clarke emise una risata leggera.
«Già… ».
La mano grande di Wells si posò sulla sua, più piccola.
«Sono contento che tu sia tornata, Clarke… ».
La bionda sorrise.
«Anch’io» “credo”, ma quell’ultima parola lasciò che si limitasse ad aleggiare nella sua testa.
Risin' up, back on the street
Did my time, took my chances
Went the distance now I'm back on my feet
Just a man and his will to survive
So many times it happens too fast
You trade your passion for glory
Don't lose your grip on the dreams of the past
You must fight just to keep them alive
Torno di nuovo sulla strada
Ho fatto il mio tempo, ho avuto le mie occasioni.
Sono stato lontano. Ora sono tornato sui miei passi
Solo un uomo con la sua voglia di sopravvivere.
Troppe volte succede cosi velocemente
Che tu in cambio di gloria svendi la tua passione
Non dimenticare mai i tuoi sogni del passato
Devi combattere per tenerli vivi.
Bellamy
sapeva che a un certo punto della sua vita avrebbe potuto intraprendere
solo due scelte: ridursi ad essere un reietto, oppure evolvere,
diventando qualcosa di migliore. Aveva optato per la seconda, la morte
di sua madre non gli aveva lasciato scelta, ma col senno di poi, sapeva
di aver preso la decisione giusta e Atom aveva seguito i suoi passi.
Smettere
di essere il ragazzino scapestrato del liceo e diventare l’uomo
che adesso era, era stata dura, doveva ammetterlo, ma vedere il sorriso
che adesso sua sorella aveva sulle labbra lo ripagava ogni istante.
Grazie
a Dio, sua madre aveva messo da parte dei risparmi per il college dei
suoi figli fin dal momento in cui aveva scoperto di aspettare il
primogenito e, facendo due lavori, alla fine aveva raccolto una piccola
somma.
Così,
dopo la sua scomparsa, Bellamy era riuscito a pagarsi la scuola di
formazione nazionale, dopo aver superato un concorso pubblico.
Mai,
prima di allora, avrebbe pensato che la sua vita potesse andare
così, ma si sa: ci si fanno tanti piani per il futuro e di
solito nessuno di essi si realizza.
Una
volta entrato a tutti gli effetti nel NYFD (Fire Department of New
York), era stata una grande soddisfazione per Bellamy e, finalmente,
aveva ricevuto il suo primo vero e proprio stipendio.
Così,
anche lui aveva iniziato a mettere da parte qualcosa e, una volta che
anche Octavia ebbe finito il liceo, tre anni dopo, riuscì a
permettersi il college per lei, che da qualche anno aveva deciso di
diventare infermiera e adesso lavorava presso l’Ark Medical
Center, nel reparto di chirurgia d’urgenza.
Bellamy era davvero orgoglioso della sua sorellina.
Fu improvvisamente distratto dalla suoneria del suo cellulare. Era Miller.
«Ehi!».
«Bellamy,
il capitano ci vuole alla stazione di polizia, tutti quanti. È
arrivato il nuovo comandante e vuole che andiamo tutti per la
presentazione».
Il ragazzo sbuffò, si era appena vestito per andare a fare una corsa al parco.
«Mi cambio e arrivo» disse invece.
D’altra
parte, molte volte capitava che polizia e vigili del fuoco lavorassero
a stretto contatto, quindi era logico che il capitano il richiamasse
per l’arrivo del nuovo comandante. Era davvero curioso di
conoscere la fantomatica donna di cui sua sorella aveva sentito parlare.
Tornò
in camera sua al piano superiore e si cambiò velocemente, ma,
nel prendere una maglietta sulla sedia della scrivania, fece volare
giù dal ripiano un pezzo di carta che si affrettò a
raccogliere e subito lo osservò sbigottito.
Era
l’invito ad un ballo della scuola di tanti anni prima, non sapeva
come avesse potuto ancora averlo lì, sulla scrivania. Doveva
essersi infilato da qualche parte ed ora era rispuntato
fuori. L’invito risaliva a quando lui era ormai un ex allievo e
aveva preso parte a quel ballo solo per rimediare una scopata a fine
serata. Sì, allora era quel tipo di ragazzo.
*Doveva
ammetterlo: era rimasto sorpreso quando Raven Reyes, una ragazza del
terzo anno, era andata da lui chiedendogli se volesse accompagnarla al
ballo di fine anno della scuola. E poi Raven non stava con quel Collins
da tipo… tutta la vita? Tra i due doveva essere davvero successo
qualcosa di grosso se la ragazza si era rivolta proprio a lui.
Ad
ogni modo, non stava a lui preoccuparsi dei problemi di cuore di una
qualunque ragazzina ferita, Raven gli sarebbe semplicemente stata utile
a fine serata.
Indossò
un paio di jeans scuri e una camicia bianca, più di così
non avrebbe fatto, prese le chiavi dell’auto e uscì di
casa seguito da una saltellante e dodicenne Octavia.
«Ehi,
che stai facendo? Torna dentro» la ammonì con il solito
tono da
“io-sono-il-fratello-più-grande-quindi-con-me-non-si-discute-signorina”.
«Bellamy, voglio venire anch’io al ballo!».
Lui sorrise.
«Senti,
O… tra due anni andrai anche tu al liceo e potrai andare al
ballo… sempre se prima non prendo a pugni chiunque ci provi con
te… ».
Lui era serio, ma sua sorella rise e gli gettò le braccia al collo.
«Ti voglio bene, Bell… ».
«Anch’io, O… ».
Stampò
un bacio sui capelli scuri della sorellina, l’unica ragazza di
cui gli importasse davvero, e si diresse verso l’auto di sua
madre.
Doveva
passare a prendere Raven, lei gli aveva scritto il suo indirizzo in un
messaggio, così Bellamy seguì le indicazioni e
arrivò in poco meno di venti minuti. Lei abitava nella zona del
Projects.
Arrivato
fuori dalla sua abitazione suonò il clacson due volte e, quando
la figura di Raven si stagliò sul portico di casa, per un
momento Bellamy rimase piacevolmente sorpreso.
A
scuola era abituato a vederla con vecchie giacche e un abbigliamento
semplice, ma adesso… ora indossava un abito argentato con una
scollatura più che generosa e la schiena quasi totalmente nuda.
Qualunque cosa fosse successa tra lei e Collins… beh, doveva averla fatta proprio incazzare.
«Andiamo»
fu il saluto di lei una volta all’interno dell’abitacolo
della macchina, e il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Forse
per quella sera i suoi progetti si sarebbero realizzati senza tanti
intoppi. Gli sarebbe bastato offrirle qualche drink et
voilà… addio inibizioni.
Già pregustandosi il suo personale after party, Bellamy ripartì con un sorriso vittorioso stampato sulle labbra.
Una
volta arrivati alla “Mount Weather High”, il ragazzo
lasciò la macchina nel parcheggio e si avviò
all’ingresso della scuola, fianco a fianco con la bruna, che non
aveva aperto bocca durante l’intero viaggio in auto.
Giunti
in palestra, i due furono inghiottiti dal frastuono della musica e
dalle voci eccitate di un centinaio di ragazzi elettrizzati.
Raven
prese per mano Bellamy e lui glielo permise, lasciandosi trasportare
prima nelle vicinanze del tavolo dei cocktails, dove la ragazza
buttò giù un bicchiere di punch, probabilmente corretto
con del rum dato l’odore, e poi nel bel mezzo della pista da
ballo.
Guardandosi
intorno mentre Raven cominciava a ballare strusciandosi contro il suo
corpo, Bellamy ebbe improvvisamente tutto chiaro: poco distante da
loro, Collins e la nuova non più nuova ragazza, ballavano
apparentemente molto presi l’uno dall’altra.
Poi la biondina parve accorgersi della loro presenza e si irrigidì.
Diede di gomito al suo accompagnatore e Bellamy seppe che il vero divertimento stava per iniziare*.
Già… Clarke Griffin. Bellamy si ricordava bene di lei.
Quella sera la bionda lo aveva definito un disadattato sociopatico e pericoloso.
Lui aveva riso e, con il solito tono strafottente che tanto lo
caratterizzava, le aveva risposto a tono, chiamandola con quel
soprannome che le aveva affibbiato da quando la ragazza si era
trasferita a Fort Hill con la sua famiglia e che tanto la mandava in
bestia: Principessa.
Sì, in definitiva Clarke non era una persona di cui Bellamy si sarebbe scordato tanto facilmente, soprattutto non dopo quella notte e non si stava riferendo alla sera del ballo.
Riscuotendosi
dai suoi pensieri, il ragazzo infilò un paio di scarpe sportive
e uscì di casa, dirigendosi alla stazione di polizia.
Parcheggiò
nel primo posto vuoto che trovò e scese dall’auto,
avviandosi verso la grande porta di vetro della centrale.
«Ehi, Bell… » lo salutarono Miller e Atom, suoi due compagni di squadra.
Lui ricambiò il saluto e insieme camminarono verso la sala riunioni.
«Il nuovo comandante, eh?» disse Atom, incuriosito.
«Ho
sentito dire che si tratta praticamente di una ragazzina…
» rispose Bellamy distrattamente, ma una voce gelida alle sue
spalle lo fece irrigidire sul posto.
«Una ragazzina? Beh… staremo a vedere, Signor Nessuno».
I
tre si erano voltati lentamente per trovarsi faccia a faccia con una
giovane donna dagli occhi azzurri e lunghi capelli castano chiaro.
Lei li sorpassò con passo spedito senza più degnarli di uno sguardo ed entrò nella stanza.
Fra
i tre aleggiò un intenso momento di silenzio, poi Bellamy
deglutì a vuoto e Nathan prese parola: «Devo
ammeterlo amico... buona impressione? La stai facendo nel modo
sbagliato, Bellamy».
«Oh, taci Miller! Se era lei ho appena messo fine alla mia carriera».
«Che te ne importa? Non è mica lei il nostro capo».
«Atom… lavoriamo tanto con la polizia quasi quanto tra noi vigili del fuoco. Sono fottuto».
«D’accordo,
io volevo provare ad allentare un po’ la tensione, ma dato che
sei così pessimista, allora sì, beh… sei
fottuto».
Dopodiché,
il ragazzo gli diede un’amichevole pacca sulla spalla e,
sorridendo divertito, si apprestò ad oltrepassare la soglia
della stanza, seguito subito dopo dai due colleghi.
Bellamy
scosse la testa con aria scocciata ed entrò per ultimo. Polizia
e vigili del fuoco erano lì riuniti, insieme a qualche
autorità di spicco e, su una sedia all’estremità
del lungo tavolo sulla pedana rialzata in fondo alla stanza, stava
seduto Marcus Kane. Quell’uomo gli aveva sempre messo una
certa… soggezione. Orgoglioso com’era, Bellamy non lo
avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura, ma sul lavoro, Kane faceva
un certo effetto.
Era
grazie a lui se la maggior parte delle celle di Fort Hill erano piene e
sempre lui aveva arrestato il suo vecchio compagno di scuola e di guai:
John Murphy.
Bellamy
immaginò che anche Murphy si fosse ritrovato davanti allo stesso
bivio suo e di Atom: reietto o persona migliore, ma, a quanto sembrava,
lui aveva fatto una scelta differente perché era stato sbattuto
dentro per spaccio.
I suoi pensieri galoppanti furono fermati alla vista di Kane che si alzava dalla sua sedia per prendere parola.
Fece
qualche discorso di cortesia, giusto per ricordare il vecchio
comandante, una certa Byrne di cui non ricordava il nome, deceduta
durante una missione, poi introdusse il nuovo comandante, tale Lexa War.
“Già il cognome dice tutto”, pensò Bellamy.
Per
un istante pregò di non vedere la giovane donna che aveva
incrociato prima nel corridoio, ma, dato che era Bellamy Blake e che il
destino sembrava divertirsi a giocare a dadi con la sua vita, fu
proprio lei a farsi avanti, mento in alto e sguardo fiero.
Il
comandante War aveva una voce ferma e determinata, era senz’altro
competente e consapevole di ciò di cui stesse parlando. Disse
che per lei un incarico simile era un onore data ancora la giovane
età e che avrebbe fatto del suo meglio per tenere sotto
controllo la criminalità a Staten Island.
Poi,
con tono freddo aggiunse: «Non tollererò comportamenti
indisciplinati di alcun genere» e, con queste parole, i suoi
occhi si fissarono in quelli di Bellamy, gelidi come lame di ghiaccio.
Miller
a quel punto, seduto alla sua destra, gli diede una lieve gomitata e
disse: «Sì, sei davvero fottuto. Adesso quella non ti
staccherà più gli occhi di dosso, amico».
Bellamy
liquidò il collega con un gesto scocciato della mano, si
alzò sbuffando e lasciò la stanza, unendosi alla folla di
gente che sciamava fuori dalla porta.
NOTE:
E rieccomi qui con il secondo capitolo! Spero vi sia piaciuto e che i personaggi comincino a definirsi un po’ meglio.
Allora… alcune spiegazioni:
1.
Angeline, la madre di Wells è presa dal libro, ma il nome
l’ho inventato perché non mi pare sia mai stato citato.
È morta davvero in seguito ad una malattia, quindi ho voluto
aggiungerlo anche qui.
2. Quando
nel flashback di Clarke ho scritto “John, Atom e soprattutto
Murphy”, con il primo John in questione mi riferivo
all’altro ragazzo, quello a cui, nella serie, i terrestri hanno
tagliato la gola nella puntata in cui è stata uccisa anche Roma.
Uno dei tizi che aveva seguito Murphy per dare la caccia a Charlotte.
3. Ho
deciso di far diventare Octavia infermiera ispirandomi alla puntata
della prima stagione “I am become Death”, quando Murphy
porta il virus al campo e lei resta sveglia tutta la notte a curare la
gente. È vero che nella seconda stagione il suo personaggio sta
prendendo tutta un’altra piega (che adoro), ma secondo me sarebbe
perfetta anche come infermiera.
Ok,
tutto quello che avevo da chiarire mi pare di averlo chiarito, se
doveste avere dei dubbi/domande/perplessità o quant’altro,
sono sempre qui.
Ah, sì… le due canzoni in questo capitolo sono: Losing your Memory, di Ryan Star per quanto riguarda Clarke e Eye of the Tiger per Bellamy. Trovo quella canzone molto adatta al ragazzo. Su Youtube c'è anche un video Bellarke, meraviglioso a parer mio, con il sottofondo di "Losing your Memory" e... beh, se volete distruggervi i feels ve lo consiglio. Vi lascio tutto qui sotto.
Per chi fosse interessato, qui c' anche il mio profilo FB. Melody Blake.
Bene, detto ciò vi lascio, fatemi sapere cosa ne pensate!
Mel