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Autore: quirke    23/02/2015    1 recensioni
"Che cazzo ti prende?" urlò ferito, "Vuoi risvegliarti, Harry? Sei soltanto una testa di cazzo che vuole buttare giù chiunque, lì con te" E si avvicinò spintonandolo, ignorando i respiri irregolari di Harry ed i singhiozzi irruenti. "Ma io non ci sto più a questo stupido gioco, stronzo. O la smetti di fare il bastardo, o me ne vado io" Con l'ultima spinta, lo addossò al bancone, facendogli male alla schiena.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo doveva essere il capitolo finale ma, eliminando un grandissimo pezzettone alla fine, ho fatto sì che ce ne fosse un quinto, e mi piace solo che dovrei migliorarlo e quindi non potrò garantirvi un aggiornamento vicino.
Ma intanto accontentiamoci di questo haha
Non voglio anticiparvi nulla, e non mi soffermerò a spiegare i comportamenti dei personaggi dato che poi rovinerei la sorpresa, per ogni dubbio o perplessità, o se magari volete solo commentare, vi aspetto :)
Inoltre vi ricordo per l'ennesima volta la nota musicale, perchè rende il tutto migliore, intensifica, ecco.
Vi lascio con Harry, Ashley e Pedro!
A presto, :)
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golden age


Golden Age

Capitolo IV - Winter
 

“Quando hai diciassette anni 
non fai veramente sul serio

 

L'unica lampada accesa all'interno della casa era quella del bagno, che fioca e sensibile ronzava posandosi sui leggeri delineamenti del viso di Harry.
Il silenzio rimbombava all'interno dell'abitazione astratto e comunque palpabile, irruento ed arrogante. I suoi genitori erano partiti il fine settimana da sua nonna, materna, per vedere se le sue cure stessero procedendo bene, se non meglio.
Harry lo sperava vivamente, perché senza tanti giri di parole inutili, non aveva per niente voglia di assorbire assordanti chiacchiere superflue da parte di qualche parente di troppo una volta arrivato, o di sopportare due ore di viaggio tortuoso e monotono, con sua madre che piagnucolava e il suo patrigno, incapace di tenere stretto il volante tra le mani tozze per più di qualche minuto senza rischiare di andare nella corsia opposta. Almeno in quel caso non sarebbe apparso come un superficiale e viziato nipote ingrato. Quindi sì, sperava soltanto che le sue cure stessero procedendo a gonfie vele.
Alzò sui fianchi morbidi il paio di jeans nero, sistemò meglio il maglioncino scuro e agganciò le dita affusolate sui capelli, sospirando frustrato, come se non riconoscesse più la figura che davanti a lui giaceva inerme e piegata. Ancora in piedi, nonostante tutto.
Gli occhi leggermente lucidi e la pelle ruvida, modellata dai sferzanti e freddi baci del vento che avevano caraterrizzato quella settimana. I suoi occhi si spostarono docili sulla vasca da bagno alle sue spalle, restando comunque fedele alla sua precedente posizione. Non mosse nemmeno un muscolo, si limitò ad osservare la sala da bagno dallo specchio.
Strinse la cuffia blu nella sua mano, aggrottando le sopracciglia folte e reprimendo un singhiozzo, fuori posto e sopratutto troppo femminile.
Intercettò qualche confezione di chips e un tramezzino lasciato a metà, i resti della cena della sera precedente traballanti sui bordi della vasca.
Arricciò le labbra, e deglutì rumorosamente pretendendo di ignorare completamente quel che c'era dentro la vasca da bagno, e quel che vi aveva lasciato. Semplicemente una parte di se stesso che ancora cercava di reprimere invano.
Ma quel nodo amaro e frustrante ancora giaceva nella sua gola, non permettendogli più di respirare come una volta o di andare avanti, proseguire, dimenticare e buttarsi nuovamente a capofitto su qualcos'altro, come era solito fare. Vivere e rivivere con qualsiasi parte del suo corpo, intensificare il tutto, ma così tanto da non sentire più niente l'attimo dopo. E di nuovo tutto.
Risoluto, inficcò sulla testa la sua cuffia, uscì a grandi passi dal bagno, evitando le lattine di birra e, prima di chiudersi alle spalle la porta dell'appartamento, afferrò alla cieca il giubbetto in velluto marrone dall'attaccappani.
"Vieni?" digitò sul cellulare.
Inficcò le chiavi nella toppa lucida e dorata, girandola più volte e bloccando quindi la porta.
Scese le scale correndo, senza saltarne qualcuna, ma comunque velocizzando sempre di più i gesti, sfiorando il corrimano delicatamente con i polpastrelli umidi e nervosi.
Uscì solo quando ebbe visualizzato la risposta al suo messaggio, che non tardò.
"Mi aspetti all'entrata, no?"
Una folata gelida ed invernale gli scompigliò le ciocche che erano sfuggite dal beanie, si strinse nel cappotto senza guadagnarci molto. Saltellò sul posto, cercando di riscaldare i piedi ed il resto del suo corpo, sussultando poi per lo strepito assordante che provocò il portone alle sue spalle, elegante e raffinato.
Il quartiere era silenzioso, distante. Al centro della strada davanti a lui, si prolungavano una serie di alberi allineati uno dopo l'altro, alti e possenti danzavano sotto le note dell'irruente vento, che si erano permessi di dividere il sentiero  in due stradine più piccole.
Avanzò un poco, prestando attenzione alle poche macchine che rigavano l'asfalto bagnato. Saltò sul marciapiede opposto rabbrividendo, attraversò un secondo sentiero quasi mettendosi a correre, sotto il cielo nuvoloso e buio, e svoltò poco dopo un angolo.
I lampioni del quartiere ronzavano, illuminando il viottolo muto scarsamente.
Harry, con le mani in tasca e la bocca stretta in una smorfia infastidita, procedette a testa in giù, fissando più il vuoto che le gambe magre che si muovevano rapidamente.
Una volta arrivato alla stazione del bus, si concedette un rumoroso sospiro, sotto l'occhio vigile di un ragazzino più piccolo, magari spaesato e sopratutto spaventato dall'eventualità di essere attaccato da qualcuno più grande di lui.
Harry non si era mai capacitato del fatto di far paura a qualcuno, di spaventare, perché semplicemente non era concepibile che qualcuno come lui potesse fare paura.
Per questo, si permise di sorridergli amichevolmente, più per cacciarsi dalla testa quei stupidi pensieri e quindi non preoccuparsi più del fatto di causare a quel povero tredicenne un infarto, che per altro.
Ritornò poi a vedere gli orari, una volta che quel bambino gli sorrise di ricambio, forse forzando un po'. E sbuffò ancora, gonfiando le guancie ed accarezzandosi la nuca. Non aveva proprio voglia di aspettare quindici minuti, tardare all'appuntamento e rimandare quella sottospecie di sollievo, appagamento futuro e prossimo.
Ricacciò le mani grandi e morbide dentro le tasche del suo giubbetto, cercò di rimpicciolirsi e ripararsi dal freddo, e riprese a camminare, dirigendosi verso il marciapiede opposto, e quindi alla metropolitana.
Montò prontamente dei gradini in ferro, che davano al cavalcavia. Cercò spesso di alzare sempre di più la zip del giubbetto, seppur questa fosse al limite. Sentì le ossa arrugginirsi, i muscoli stridere ed intorpidirsi. Camminò sul ponticello guardandosi intorno, solo ed abbandonato a se stesso. Attorniato da graffiti e murales di qualsiasi tipo che imbrattavano le mura sudice e scrostate. Fu questione di un paio di minuti che si ritrovò davanti alla scalinata che portava giù la metropolitana. Scese i gradini sporchi sempre con la solita rapidità che lo caraterizzava, rilassandosi solo una volta incontrato un calore meno rigido rispetto a quello esterno e una soffice canzone indie mormorata appena. Aspettò silenzioso l'arrivo del mezzo, stringendo gli occhi in due fessure, serrandoli completamente. Poi aprendoli, respirando a fatica, regolarizzando subito dopo il suo respiro. Cercando di non pensarci più.
Sbuffò. Cacciò una mano dentro le tasche del suo jeans, pescò un cofanetto argentato e posò la sigaretta sulle labbra secche.
Da quando aveva cominciato a fumare? E perché non riusciva più a farne a meno?
Torturò più volte i suoi capelli, e se doveva grattarsi una porzione di pelle ruvida del suo viso, allora la graffiava senza accorgersene. Si smontava, non rendendosi conto di quanto male gli facesse in realtà, inspirava dalla sua sigaretta quel acerbo fumo, raggrinzendo i suoi polmoni, raschiandoli per quanto tratteneva quella foschia aspra e velenosa dentro di sé.
Buttava fuori nuvolette di condensa, qualche paio di secondi dopo, socchiudendo gli occhi e spostando per l'ennesima volta il mozzicone sulla bocca rossa.
Sbuffando, stringendosi. Vivendo fino ad arrivare ad annullarsi per qualche secondo. Beato. Ma la stava comunque cercando intorno a sé. Ancora. Nonostante tutto.

Alle sue spalle, l'insegna luminosa indicava il nome del locale a caratteri cubitali: Tropico.
E, dietro di lui, ad infastidire le sue orecchie con un ronzio acuto e fastidioso, continuo, alla sinistra della porticina in ferro, ci pensava la targa che accennava all'apertura del club.
Harry, paziente come non mai, stringeva tra le dita il terzo mozzicone, ignorando il freddo, abituandosene.
Aveva ricevuto diverse spintonate, assorbite passivamente, quasi sembrava addormentato e stanco. Ma stanco non lo era solo fisicamente.
Si addossò a un palo, ricevendo l'ennesima spinta da un gruppo di ragazzi allegri e spensierati, che entrarono poi dentro.
"Harry?"
Harry aveva appena posato la sigaretta sulle labbra screpolate, e distolse lo sguardo dalla strada davanti a lui solo quando soffiò via il fumo, girandosi quindi verso chi lo aveva chiamato.
Schiuse la bocca per rispondere.
"Scusa. C'era un traffico del cazzo, non ci ho fatto apposta" si giustificò l'altro, servendosi delle mani per enfatizzare meglio il concetto.
Harry chiuse allora la bocca, spegnendo la sigaretta consumata contro il palo e lanciandola alle sue spalle, da qualche parte.
Silenzioso, avanzò dentro il locale, seguendolo.

Non se ne rese conto, non riusciva più a ricordare nulla e non sapeva nemmeno come fosse arrivato a ritrovarsi così consunto e deprimente, un completo straccio fradicio di alcool e tabacco, forse qualcosa di più.
Era ancora vivo, traballava sul posto, rispondeva alla musica muovendo piano i fianchi e bevendo i suoi stessi soldi. Sommergendosi di vodka, birra e disperazione alluncinante. Preso dal panico, lanciò uno sguardo davanti a lui, abbandonando il bicchiere colmo di birra noiosa sul bancone. Osservava la partita di biliardo perso e confuso, non sapendo ricollegare nulla, riconoscendo solo la musica che pompavano dall'altra parte della sala e che comunque arrivava alle sue orecchie fastidiosa ed assordante, arrogante.
Le luci psichedeliche del locale saettavano da ogni parte, arrivando spesso a colorargli il viso, corrugato in una smorfia patetica e triste.
Cercò Pedro con lo sguardo, reprimette un singhiozzo amaro, deglutì tremante. Fiacco, debole e così fragile da fare schifo. Si faceva pena.
E per la prima volta nessuno lo stava assillando con le solite domande di cortesia, o gonfiando di quei stupidi consigli da quattro soldi. Lui non riusciva a dimenticarla, e se avesse avuto l'opportunità di farlo, l'avrebbe semplicemente fatto senza giri di parole perché, sempre semplicemente, la odiava. La stava odiando con tutto se stesso, con le mani, con la bocca, con gli occhi lucidi e rossi. Con i pianti silenziosi in bagno, le unghia inficcate dentro i suoi pugni per non abbandonarsi nemmeno un momento ed andare avanti, spedito e contro tutto e tutti. Contro di lei, che vaffanculo.
Alzò lo sguardo, accorgendosi di come Pedro lo stesse guardando dall'altra parte del tavolo da biliardo, stringendo le labbra e la stecca di legno in una mano. Guardandolo con compassione, e rimprovero dato che si parlava sempre di quel solito Pedro.
Non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo amico, Harry, allungò solo una mano alla cieca per afferrare la bottiglia di birra e portarla sulla bocca, sfidandolo. Annullando quel momento di debolezza che aveva visto Pedro come spettatore in prima fila, destandosi velocemente e mostrandogli quanto forte in realtà fosse.
Pedro si arrese, lo ignorò poi concentrandosi sulla partita.
Harry, invece, approfittò di quella lontananza, dato  che tra quella miriade di persone nessuno si stava interessando di lui. Inficcò una mano dentro la tasca del giubbetto, agguantando poi un mozzicone gonfio e nuovo, datogli poco prima da un ragazzo mai visto prima, e così amichevole.
"Un regalino a chi mi ha passato premurosamente la carta igienica" gli aveva detto quel Omar una volta uscito dal bagno, ringraziandolo per il fatto di averlo soccorso nel "momento del bisogno".
Harry, un po' spaventato all'inizio forse, aveva accettato la canna, che riprendeva maestamente la forma di una semplice sigaretta.
Avvicinò la canna sulle labbra, evitando per poco una gomitata da parte di uno dei giocatori della partita. Unì le palpebre degli occhi affatticati tacitamente.

 

E i pensieri cominciarono a svanire, dissolversi nel nulla dalla sua testa che andava allegerendosi minuto dopo minuto insieme al resto del suo corpo. Sembrava che fosse capace di alzarsi in volo da un momento all'altro.
Traballò sulle gambe molli, incespicò sui suoi stessi piedi. Indietreggiò incastrando il bacino contro il bancone, rabbrividendo. Continuò ad annullarsi, smontarsi in vari piccoli pezzi a lungo, cedette a un benessere che non aveva nulla di duraturo ed efficiente, vero.
"Smettila"
La fronte di Harry era imperlata di sudore, moriva di caldo. Schiuse leggermente gli occhi vitrei, ritrovandosi davanti Pedro.
I lineamenti del ragazzo erano duri, tesi e totalmente arrabbiati. La mascella rigida, i tratti che riprendevano l'origine nord europea, la pelle lattea. Gli stava gridando da tutti i pori il nervosismo che proprio lui era riuscito a scaturargli.
Lo ignorò, dedicandosi alle attenzioni docili e false che una ragazza accanto gli stava prestando da una decina di minuti. Non riusciva a mettere a fuoco il suo viso, e non ne comprendeva il motivo. Non si ricordava nemmeno dove fosse andata a finire quella canna che fino a poco tempo fa aveva annebbiato la sua testa, o magari era passato tanto tempo dall'ultima volta che ne aveva gustato il sapore?
Ignorò Pedro e si lasciò andare ancora una volta, reprimendo la voglia di piangere in un bacio lacerante e privo di significato.
"Non sei credibile" ripeté Pedro, controllato e calmo. "Smettila"
Non lo ascoltò.
Si accorse soltanto del cambio di canzone, di quel secondo di silenzio che gli aveva permesso di sentire doloramente i battiti irruenti del suo cuore. Si piegò per una frazione di secondo, riprese a respirare, sentire. Accorgersi del dolore che scivolava dentro il suo corpo continuamente, che miscelato al sangue scorreva nelle sue vene bruciandogli l'intera esistenza.
Ma subito se ne dimenticò, dato che l'attimo dopo la nuova canzone contaminò il locale, squarciandogli i timpani e spegnendolo ancora una volta. Anche le mani esperte della ragazza su di sé avevano il suo effetto, dopotutto.
Pedro scoppiò a ridere, osservando quella scenata patetica che si smontava da sola ai suoi occhi minuto dopo minuto.
"Vuoi davvero farmi credere che sei così fighetta?" esclamò a voce alta, intrufolandosi dentro la testa di Harry con enorme facilità. "Cerchi invano di cancellare Ashley con la prima biondina che ti ritrovi addosso? Sei davvero caduto in basso, eh!"
Si arrestò. Harry, colto in fragrante e spogliato da Pedro in un secondo, da un paio di occhi che ormai si erano abituati a conoscerlo e tradurre ogni suo gesto, fermò ogni cosa stesse facendo. Immobilizzò le mani vogliose sui fianchi della ragazza, cessò di respirarle sulla bocca e baciarle la mandibola umida, eccitarsi per qualcuno per cui non ne valeva la pena.
La ragazza, invece, sembrava non accorgersi di nulla, continuando così a tormentarlo e modellarlo a suo piacere.
"Fai pena, davvero"
Harry deglutì a vuoto, reprimendo la voglia di urlare e scaraventarsi addosso a lui. Tempestarlo di pugni fino a ritrovarselo addosso sfinito, sanguinante da ogni parte. Muto.
Allungò le braccia ed allontanò la ragazza, spingendola forse con troppa forza. Lei lo guardò soltanto male, prima di mollargli un ceffone ed allontanarsi da lui. Harry non se ne curò, fece pressione sullo sgabello su cui era seduto e si girò verso Pedro.
Il nome di Ahsley rimbombava possente dentro la sua testa, imbattibile. Ingurgitò il resto di vodka che giaceva sul bancone, cercando di cancellare quel nome e la sua faccia, osservando con arroganza il sorriso strafottente di Pedro, davanti a lui di qualche passo.
Posò il bicchiere dietro di lui, sulla superficie lucida. Scese dallo sgabello con un salto calmo, studiato. Si sistemò i capelli, incastrando la cuffia dentro la tasca del suo giubbetto ed avanzò verso l'altro lentamente, senza rimuovere lo sguardo nemmeno un secondo. A qualche paio di centimetri dal suo viso, irrigidì la mascella ripensando alle parole che gli aveva lanciato contro poco prima. Strinse i pugni.
Respirò profondamente buttando fuori tutto quello che lo corrodesse, senza preoccuparsi del fatto che stesse soffiando contro il viso di Pedro, su di lui.
E gli si lanciò contro, sfinito, stanco. Incapace di trattenere qualche paio di deboli delusioni, ferite minuscole che erano capaci di emarginarsi da sole a detta di tutti.
Aveva piagnucolato, strillato a tutti il suo dolore come un bambino, non sopportando il fatto di sentirsi bruciare il petto ogni qualvolta gli capitasse di pensarla, riportarla a galla. Aveva graffiato la sua stessa pelle non capacitandosi del fatto che lo avesse abbandonato, imbrattato le mura della città del suo nome specificando quanto fosse stronza ed insensibile. Senza curarsi nemmeno un secondo dello stato d'animo di Ashley, di preoccuparsi del fatto che forse anche lei ci stesse soffrendo, magari un po' di meno. Magari peggio di lui.
Si era lamentato ogni secondo con chiunque, addossando la colpa del suo stare male, del suo stato irriquieto ed instabile a lei, soltanto ad Ashley. Gonfiando Pedro di paranoie, dubbi e lamentosi pianti, fragilizzando qualsiasi cosa avesse intorno ed obbligando  chiunque ad accarezzare le sue ferite, curarlo. Odiare Ashley insieme a lui per farlo contento e meno triste.
Baciò Pedro, torturandogli le labbra gonfie, soffocandolo con le mani grandi strette attorno al suo collo, spremendosi contro di lui ed incastrandolo. Pedro si era rifiutato di prendere aria, cercava soltanto di scollarselo di dosso, spingerlo lontano. Disgustato, con gli occhi tanto stretti da far male, riuscì ad allontanarlo solo qualche paio di secondi dopo. Portando una mano sulla bocca e pulendosela, rimuovendo ogni traccia della debolezza di Harry.
"Che cazzo ti prende?" urlò ferito, "Vuoi risvegliarti, Harry? Sei soltanto una testa di cazzo che vuole buttare giù chiunque, lì con te" E si avvicinò spintonandolo, ignorando i respiri irregolari di Harry ed i singhiozzi irruenti. "Ma io non ci sto più a questo stupido gioco, stronzo. O la smetti di fare il bastardo, o me ne vado io" Con l'ultima spinta, lo addossò al bancone, facendogli male alla schiena.
Harry annuiva, silenziosamente e coscienzioso, forse non completamente.
Sembrò dimenticare subito l'accaduto e le parole di Pedro, poiché tirò fuori il telefono e se lo spiaccicò contro l'orecchio, aspettando pazientemente i squilli.
"Che cazzo fai?" Pedro gli rimosse all'istante il telefono, guardandolo di sfuggita. Sembrava aver capito che da lui non avrebbe ottenuto nulla, e per questo annullò la chiamata e si recò a vedere i messaggi.
Fece in tempo a leggere un paio di messaggi, che Harry si risvegliò e riprese il suo telefono.
"Sei una troia", "Ashley, spero vivamente che ti sia goduta questi mesi passati insieme. Il mio sarà l'ultimo cazzo enorme che avrà la pazienza di scoparti". Oppure: "Eri solo una puttana, ma mi hai fatto divertire almeno un po', dai".
E pedro sospirò profondamente, rendendosi conto di quanto Harry fosse infantile e stupido. Anche bastardo, un grandissimo stronzo che si faceva coraggio con qualche paio di Heineken per sparare enormi cazzate.
"Fai schifo" si premurò di dire Pedro, una volta incrociato lo sguardo. "Appoggierò chiunque vorrà mollarti, da oggi in poi"
Harry scrollò le spalle, incurante ed annoiato, ma non si dedicò più al suo cellulare.
"Vuoi davvero sprecarti così? Passare il resto dei tuoi giorni ad ubriacarti per Ashley?"
"La smetti di dire quello stupido nome?"
"Che bambinone!"
"Stronzo"
Incrociò lo sguardo di Pedro, duro e ferreo. Sicuro. Gli stava dicendo qualcosa senza nemmeno dare aria alle sue corde vocali. Magari Harry era davvero stupido, ma ne capì comunque qualcosa, di quelle parole nascoste.
Doveva rilevarsi e darsi importanza, seguire i consigli nascosti di Pedro, che indiretti e vacillanti gli sfuggivano dalla bocca senza che se ne accorgesse. Harry pensò che non era giusto, nemmeno per un secondo, diventare un qualsiasi altro personaggio nella sua storia, perdersi ed abbandonare il ruolo di protagonista. Farsi forza nonostante tutto.
Un leggero tintinnio dentro le sue tasche.

Harry strinse le dita sul manubrio del furgoncino di Pedro, stanco e confuso.
La notte aveva risucchiato la lieve luce opaca che contornava la strada deserta. I campi alla sua sinistra non erano altro che bozze di flora incompiute, avvolte da un manto di sbiadita precisione.
Imboccó lentamente la corsia a sinistra, sorridendo appena. Era riuscito a prelevare le chiavi dal giubbetto di Pedro senza che quest'ultimo se ne accorgesse.
Fu travolto da una fragrante esplosione di luce bianca, da qualsiasi parte questa assumeva anche altri colori, come il rosso o il verde.
Aveva serrato i finestrini, a malapena respirava. La radio trasmetteva qualcosa che mai aveva sentito prima d’ora ad un volume veramente basso, ma non se ne preoccupava. L’unica cosa veramente importante era seguire ogni parola borbottata dal cantante e comprenderla, assimilarla fino ad assorbirla.
Non avrebbe pensato a nient’altro, no?
Allungó un piede, strinse tra le labbra secche quel che rimaneva dell’ennesimo mozzicone e aggrottó le sopracciglia fino a sentire dolore. Fino a che le tempie sembravano bruciare, la mascella pizzicare e un retrogusto amaro salirgli in bocca, incendiandola.
Rallentó alla vista del semaforo, sciolse i muscoli della faccia e riprese a respirare sudicio ossigeno mischiato al fumo amaro.
Il furgoncino su cui aveva sfogato tutta la sua frustrazione, graffiato fino a lacerarsi le unghia e i pensieri, cominció a rallentare fino a fermarsi del tutto nell’autostrada deserta, solo un’altra auto dall’altra parte. Era riuscito a rubare le chiavi a Pedro proprio quando si era scaraventato su di lui, tanta sorpresa sarebbe bastata a farlo sprofondare e dimenticare le chiavi, no?
Il motore rimbombava all’interno dell’abitacolo, e quest’ultimo era cosí caldo e puzzolente da sembrare quasi annebiato.
Harry tiró fuori il cellulare, tremando e rabbrividendo all’interno, sentendosi sciogliere, sbriciolare ogni goccia di orgoglio che gli era rimasta in quel corpo prosciugato e testardo.
“Sei davvero stronza, mi dispIace”
Non riusciva a mettere a fuoco lo schermo del suo telefono, scrisse le prime parole che gli rimbombarono in testa senza prestarci attenzione. Si assicuró soltanto che il mittente fosse davvero lei.
I suoi occhi furono accecati da un brillante verde che lo costrinse a deglutire a fatica e lanciare il telefono sul sedile accanto al suo. Ripiombó sul pedale dell’acceleratore come un forsennato, e solo all’ultimo secondo si decise di cambiare marcia, rallentare e allo stesso tempo curvare a sinistra senza prevenire chi gli stava dietro.
Appena qualche clacson gli fece notare lo sbaglio, Harry chiuse gli occhi, stringendoli alla soglia del dolore e gonfió i propri polmoni rinsecchiti e neri.
Urló, niente di preciso o particolare. Sfogó tutta la propria rabbia graffiandosi i propri timpani con quel suono lacerante e doloroso, facendo del male solo a se stesso senza rendersene conto per l'ennesima volta.
Nella stradina di campagna, tortuosa e stretta, accostó dopo una manciata di minuti. Esausto e confuso, stanco di prestare fin troppa attenzione alle buche.
Appena spense il motore, buttó la testa all’indietro con formidabile veemenza e trasse, forse, uno dei respiri più lunghi della sua vita.
Alla cieca, palpó il sedile accanto al suo fino a ritrovare quell’infernale cellulare. Ma prima di fare qualsiasi cosa, strappó dalla sua bocca rosea il mozzicone, lo spense contro il volante e lo buttó a terra.
“Scusa per quEllo che TI Ho sCRitto prima, non lo penso davvero”
Respiró per l’ennesima volta. La gola gli bruciava tantissimo, aveva voglia di grattarsi tutta la faccia costellata da peli radi e ispidi. Le mani ruvide accarezzavano, pizzicavano, confuse le cosce magre.
Si passó una mano sul viso stanco, si grattó gli occhi e riprese il telefono tra le mani. Schiuse la bocca, la richiuse e strinse gli occhi.
“Un certo Omar mi ha passATo chissá cosa, hO bevuto troppo questa sera. Però penso davVero che il mio sia il cazzo più GRAnde” invió, premendo il pulsante più volte, come a scaricare la tensione che alleggiava nel suo corpo scosso da lievi brividi.
“NoN so dove cazzo sono” serró definitivamente gli occhi, allungó i piedi e cercó di rilassarsi.
Con ogni messaggio che aveva inviato, aveva ricevuto solo degli stupidi trattini che gli indicavano che lei stava leggendo.
“MA NON so PERCHé CaZZO non riesco a dimenticare dovE VORREI STARE”
Abbandonó il controllo delle mani dopo aver inviato anche quell’ennesimo messaggio, facendo cosí scivolare il telefono tra le sue gambe.
Lo riprese, esasperato.
“tI ODIO”
Una macchiolina lucente e lontana si avvicinava lentamente. Man mano che la luce s’ingigantiva, Harry, venendone accecato, fu costretto a stirngere le palpebre degli occhi.
“Ma sei BELISSIMa”
Come l’auto sparí alle sue spalle, Harry ne trasse un sospiro di sollievo. Le mani che pizzicavano di non so cosa, l’esasperazione e la confusione che regnavano sovrane in quella notte buia e solitaria.
“Smettila. E cancella subito il mio numero, stronzo.”
Se muoio, ti ubriachi solo e soltanto per me? Vaffanculo!

 

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