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Autore: Abigail_Cherry    24/02/2015    2 recensioni
2100 d.C. Charlotte Mason vive a Greenwich durante un dopoguerra che ha trasformato la tranquilla monarchia in cui viveva in una dittatura in cui la legge principale è che, entro i diciott'anni, i ragazzi debbano pesare almeno 80kg le femmine e 100kg i maschi. Il problema? Charlotte è ben sotto quegli 80kg che dovrebbe pesare, e ciò avrà conseguenze devastanti...
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Due

 

Non so se siano passati minuti o ore quando vengo svegliata dal rumore del motore del camion che si accende.

Mi siedo, ancora ad occhi socchiusi, analizzando confusa le informazioni che arrivano dall'esterno: c'è della luce, adesso, una piccola lampadina che riesce ad illuminare buona parte del camion. Mi guardo attorno fino a trovare il cellulare e guardo l'ora. 21:30. Ho dormito ben cinque ore!

<< Dove mi state portando? >> urlo, sicurissima del fatto che possano sentirmi.

Ma nessuno mi risponde.

Decido che posso solo aspettare che qualcosa accada, così resto seduta, immobile, e dopo parecchi minuti, comincio anche a canticchiare qualche stupida canzone per ammazzare il tempo.

Alla terza strofa della quinta canzone il camion si ferma e l'androide di prima apre il portellone.

Mi costringo a muovere le gambe. Mi alzo e scendo dal furgone con un piccolo salto. L'androide mi costringe a seguirlo finché non entriamo in un edificio scuro, o forse è solo la notte che lo riflette così.

L'interno dell'edificio somiglia quasi ad un ospedale: le pareti sono azzurre e bianche ed il pavimento è a piastrelle chiare, solo... non ci sono finestre.

Percorriamo un paio di corridoi poi ci fermiamo davanti ad una porta, affiancata da molte altre lungo il corridoio. << Questa è la sua stanza. La prego di consegnarmi i suoi effetti personali. >> dice il robot, tendendo una mano a palmo aperto. Gli consegno il cellulare e le chiavi di casa (non ho altro con me) e lui mi costringe ad entrare nella mia nuova camera. << La sveglia sarà domani mattina alle dieci. >> continua lui. << Indossi i vestiti che troverà sul suo letto prima di presentarsi a colazione, che sarà servita alle dieci e mezza in mensa. Dalle 22:00 fino alle 10:00 la sua stanza sarà chiusa a chiave e non le sarà permesso uscire dalla stanza, mentre dalle 10:00 alle 22:00 potrà andare dove vuole, ovviamente senza uscire dalla struttura e nei limiti a lei concessi. Domande? >>.

<< No. >> rispondo, scuotendo leggermente la testa.

<< Molto bene. Le auguro una rilassante nottata, signorina Charlotte. >>.

 

Dite pure quello che volete, ma i vestiti che sono obbligata ad indossare sono davvero tristi: un camice azzurro, composto da pantaloni con elastico e una maglietta a maniche corte, entrambi larghi e leggeri, mutandine bianche taglia “XXS” (che, una volta mi hanno detto, corrispondeva ad una “S”), niente reggiseno (ma decido di tenere il mio perché altrimenti mi sentirei terribilmente a disagio) e delle scarpe bianche di tela.

Mi guardo alla specchio storcendo la bocca. Okay, non sarà il massimo ma devo ammettere che questo completo non mi sta particolarmente male.

Non so che ore siano esattamente, ma lo capisco dallo scattare della serratura della porta: le 10:00. Posso uscire.

Appena mi avvicino alla porta quella si apre e oltrepasso la soglia per poi ritrovarmi in un corridoio affollato da numerosi ragazzi.

Allora non sono sola...

Osservo la massa che cammina in una sola direzione: maschi, femmine, camici azzurri, verdi, viola e la maggior parte sottopeso.

Continuo a guardarli ancora qualche secondo prima di cominciare a correre, ma dalla parte opposta alla loro.

Passano svariati minuti prima che io trovi un corridoio vuoto. A quel punto mi fermo, di nuovo sola. Devo trovare un'uscita, ci sarà da qualche parte!

Cammino velocemente, annaspando, mentre guardo le poche indicazioni sui muri, ma nessuna indica l'uscita. Svolto l'ennesimo angolo, ma a qual punto mi ritrovo davanti ad un androide.

Merda.

<< Signorina Charlotte. >> dice, facendomi un veloce scanner del corpo e modulando una voce sorpresa. << Deve essersi persa. >>

Non rispondo.

<< Mi segua, l'accompagno in mensa. >> continua.

Appena l'androide mi si avvicina, veloce gli assesto una ginocchiata in ciò che dovrebbe essere lo stomaco per gli umani, rendendomi conto subito dopo di aver commesso una stupidaggine.

Pessima, pessima idea.

Cado a terra dolorante, stringendo il ginocchio tra le mani. Come ho fatto a non pensare che gli androidi sono fatti di metallo e che, soprattutto, non possono sentire dolore?

<< Questo verrà tenuto in conto. >> dice l'androide, mi solleva da terra come se fossi la cosa più leggera del mondo e mi appoggia sulla sua spalla, serrandomi le gambe con un braccio. Poi comincia a camminare.

Cerco di dimenarmi, ma la sua spalla dura che preme contro il mio stomaco mi impedisce quasi di respirare, e sento il mio sangue che continua a pulsare nel ginocchio che ha colpito l'androide. Non so cosa voglia dire con quella frase, ma non mi dice niente di buono.

Mi trasporta in quel modo più che imbarazzante per qualche minuto finché non arriviamo davanti alla sala mensa.

L'androide mi poggia non troppo delicatamente a terra, il ginocchio mi fa ancora un po' male, ma ora riesco a camminare. Mi guardo attorno e vedo ameno duecento ragazzi seduti immobili ed in silenzio su vari tavoli e decido di sedermi, un po' zoppicante, al primo posto libero che trovo.

<< Che cosa stiamo aspettando? >> chiedo alla persona di fronte a me, vestita con un camice viola. Il ragazzo si sporge verso sinistra per guardare oltre me, poi alza un braccio e con l'indice indica qualcosa. << Lei. >> dice poi, ed abbassa la mano.

Mi giro e vedo una donna in uniforme grigia che si avvicina al centro della stanza. Poi si ferma, e riesco a notare un microfono appeso al suo orecchio. Dovrà dire qualcosa?

<< Ben ritrovati, ragazzi. >> dice in tono serio, ma nessuno risponde. << Come ogni mattina, chiedo che i ragazzi chiamati mi seguano. >> c'è un attimo di pausa in cui la donna tira fuori dalla tasca un foglio piegato in quattro e lo apre. << Natalie Dummer. >> una ragazza bionda, esile, con il camice azzurro si alza e cammina a sguardo basso verso la donna che, intanto, continua a pronunciare nomi. << Eric Siser. Ashley Contain, Laureen Mich. >> continua ancora per una decina di nomi, con tutti i ragazzi che, lentamente, si ammassano vicino alla donna. << Bene. Buona colazione, ragazzi. >> dice lei, poi fa un gesto con la mano. << Voi, invece, seguitemi! >> comincia a camminare verso l'uscita della mensa mentre i ragazzi nominati la seguono titubanti e spaventati.

Poi le porte della mensa si chiudono.

E la donna sparisce, assieme a quella ventina di ragazzi.

 

Degli androidi vestiti da camerieri ci portano una marea di piatti con un sacco di cibo invitante: uova, bacon, brioches, salsicce, cioccolato... di tutto.

Resto a fissare il cibo dubbiosa sul da farsi per parecchi minuti, abbastanza da attirare l'attenzione del ragazzo col camice viola di fronte a me.

<< Dovresti mangiare. >> osserva, con sguardo quasi annoiato, ma rivolto altrove.

Guardo il viso di lui, poi il suo piatto. È vuoto. << Anche tu. >> rispondo secca.

L'angolo della bocca del ragazzo ha un guizzo, e finalmente comincia a guardarmi in volto. << Il mio era solo un consiglio. “Mangia e non ti succederà niente”, praticamente è questa la loro regola principale. Se sai leggere tra le righe. >>

<< Loro chi? >> chiedo. << Chi era quella donna e dove ha portato quei ragazzi? Mi faranno del male? Rivedrò la mia famiglia? È... è possibile? >>.

<< Ehi, ehi, ehi! >> mi interrompe il ragazzo parlando a voce più alta. << Fai troppe domande, azzurra. >>.

<< Azzurra? Non mi chiamo “Azzurra”! >> faccio, confusa.

<< Vediamo se ci arrivi. >> il ragazzo, gomiti sul tavolo, unisce le mani e ci appoggia il mento.

Capisco subito dopo. Mi sento così stupida a non aver capito subito a cosa si riferisse! << Il camice! >> esclamo.

<< Esatto. >> prende il suo bicchiere e ne beve il contenuto arancione. Aranciata?

<< Quindi tu saresti... un viola? >>.

<< Capisci al volo le cose, eh? >> scherza, forse un po' seccato. Ma da cosa, poi? Lo annoio?

<< Allora... chi sarebbe la donna di prima vestita di grigio? >> chiedo.

<< Aghata Leener. Qui è lei che comanda, amministra tutto ciò che succede qui dentro. Non farla arrabbiare o Dio solo sa che cosa sarebbe capace di fare. >>.

<< Tu ne sai qualcosa? >> chiedo.

Lui si ferma un attimo, stupito dalla domanda. Mi osserva nei dettagli, come se volesse mettere a nudo i miei pensieri. Vedo, anzi, sento i suoi occhi scrutare insistenti nei miei. Forse ho toccato un punto dolente, sono stata indelicata.

<< Stai fuori dai guai. Chiaro? >> dice in tono duro, fermo, ma in un certo senso stanco. Si passa una mano sulla faccia, poi si alza dalla sedia e si avvia verso l'uscita.

Resto qualche secondo immobile, stupita dal comportamento del ragazzo vestito di viola. Poi, le mie gambe si muovono da sole:

Mi alzo anch'io.

E corro dietro di lui.

 

<< Aspetta! >> gli urlo, raggiungendolo nel corridoio appena fuori dalla mensa. << Mi devi ancora spiegare molte cose! >>.

<< Io non devo spiegarti un bel niente. Non sono la tua guida. >> mi risponde in tono duro, tanto che ci resto un po' male.

<< Per favore! >> lo supplico.

<< Cercherò di ripetertelo molto lentamente, in modo che tu possa capirlo meglio: Non. Sono. La. Tua. Guida! >> dice, quasi furioso, poi se ne va via di nuovo, lasciandomi sola.

Resto immobile, ripetendo mille volte quella frase nella mia testa.

Non sono la tua guida.

È buffo. Lo conosco da neanche quindici minuti eppure pensavo di essermi trovata un amico. Che stupida.

Offesa e confusa, torno in sala mensa, risedendomi al posto che avevo lasciato vuoto, e guardo gli altri ragazzi mangiare. Effettivamente, sento un certo languorino... ma non me la sento di mangiare.

Cerco di parlare con gli altri ragazzi che mi siedono accanto, ma puntualmente mi ignorano. Nella stanza c'è un silenzio di tomba. Si sente giusto il ticchettare delle forchette sui piatti. Niente di più.

Forse... è vietato parlare? Ma se fosse così perché il ragazzo vestito di viola mi avrebbe parlato? Non lo so. Ho troppi pensieri che mi offuscano la mente, in più l'essere completamente ignorata mi rende sempre più nervosa.

D'un tratto sento il battito cardiaco accelerato, la fronte sudata, la vista appannata... Mi alzo di scatto dalla sedia ed esco dalla sala mensa. Ho bisogno di un luogo aperto, dove io possa respirare.

Ci risiamo. Odio quando succede. Fin da piccola soffro di claustrofobia e attacchi di panico, e spesso mi capita di sentirmi mancare, anche se, rispetto a qualche anno fa, ho imparato a gestire meglio la cosa. Però, a volte, gli attacchi possono essere troppo forti da reggere.

Cammino per i corridoi in cerca di un giardino, una finestra, qualsiasi cosa serva a d'armi un po' d'aria fresca, ma mi imbatto in un altro androide. Diamine! Quanti ce ne sono?!

<< Signorina Mason. >> dice lui, dopo aver eseguito rapido il suo solito scanner.

<< Ho... bisogno di prendere aria. Mi... mi lasci uscire. >> dico con affanno, mentre la figura dell'androide diventa sempre più sfocata e irregolare.

<< Non posso. È mio preciso dovere non lasciare uscire nessuno. >> risponde.

Sento le ginocchia che cominciano a cedermi. Mi aggrappo disperatamente alle braccia dell'androide, continuando a scendere finché non mi ritrovo con le ginocchia al pavimento.

Poi cado a terra.

Rimango cosciente ancora per qualche secondo.

Poi, tutto attorno a me diventa buio.

   
 
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