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Autore: Papaya    08/12/2008    2 recensioni
Ho sempre scritto o letto la maggior parte delle storie sotto il punto di vista di una ragazza. Con questa nuova fic ho deciso di dare sfogo anche ai pensieri di un ragazzo, e non è stato del tutto semplice. La storia tratta prevalentemente dell'amore rincorso tra Gippal e Rikku ed è descritta in prima persona da Gippal. Attenzione agli spoiler. Premesso questo non posso che augurarvi buona lettura!
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gippal, Rikku
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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“Gippal, ci sei?” Quella voce soave che mi faceva sempre sentire bene.

“Si, sono nella mia camera. Sali, Rikku” Ah, già. La mia camera della mia casa a Luka. Rikku veniva spesso a trovarmi. E altrettanto spesso andavo io da lei. Mi trovò seduto sul letto con un espressione tutt’altro che felice. E Rikku se ne accorse.

“Ehi, ti senti bene? Qual è il problema?” Si sedette sul letto accanto a me e mi diede un bacio sulla guancia. “Andata male al lavoro?” chiese. Poi sorrise. “Tranquillo, lo so che tu sei un fenomeno. Qualunque cosa sia successa, non c’è niente che non puoi sistemare!” Mi diede una pacca sulla spalla, ma vedendo che io non cambiavo espressione, ritornò seria. “Ehi, amore…cosa c’è che non va?” Si spostò a sedersi sul pavimento di fronte a me. “Sai che puoi parlarmi di qualunque cosa, non c’è bisogno che te lo ripeta.  Sei stanco di fare il pendolare da qui a Djose ogni giorno, vero? Ti capisco, però stai tranquillo. D’altronde ti è sempre piaciuto fare il meccanico, è una cosa che fai volentieri, no? E quando passerai al grado di ‘capo’ avrai un mucchio di soddisfazioni ogni giorno! E poi quando non sei…”

“Mi trasferisco.” 

Silenzio. Rikku sgranò gli occhi. Fece non so che tipo di calcolo a mente per farle ritornare il sorriso.

“E’ questo il problema? Ovunque tu vada io verrò con te, e lo sai. Papy capirà. Tesoro, devi solo stare tranquillo, chiaro?” Più faceva così, più mi faceva male. Volevo solo farmi odiare, perché lei non soffrisse di quella mia scelta.

“No, tu non puoi venire.” Lei si fece di nuovo seria.

“Perché non potrei?” chiese con una punta di irritazione.

“Perché io non voglio” E uno. Un passo avanti per arrivare a spezzarle il cuore.

“Cosa?” sgranò gli occhi.

“Non voglio che vieni con me”

“E perché mai?”

“Ho una missione alquanto pericolosa da svolgere e non ho intenzione di coinvolgerti” A queste parole tirò un sospiro di sollievo e di addolcì di nuovo.

“Qualunque cosa sia, non sarà abbastanza pericolosa per me!” disse col sorriso sul volto.

Ho detto no” E due. Un altro passo avanti per spezzarle il cuore.

“Ma…Gippal, dai…Di certo non permetterò che tu faccia un qualcosa di pericoloso. Io voglio stare con te, per sempre. Quindi o vengo con te, o non ti permetterò di andare. Che missione è?”  Ci avvicinavamo al terzo passo. Non volevo rivelarle la mia missione. Però lo feci.

“Formeremo un esercito di Automi e li guideremo contro…” presi un bel respiro prima di pronunciare quel nome. “… Vegnagun. Tenteremo di mettere fine all’angoscia di tutti.”  Non trovo parole per descrivere l’espressione di Rikku nell’istante in cui pronunciai quelle parole.

“Tentare? TENTARE? Hai idea del significato di questa parola? Cosa succede se fallite??” Non le risposi. I suoi occhi divennero lucidi, ma trattenne le lacrime. Non le piaceva piangere davanti a qualcuno. Non lo faceva mai. Ecco il terzo passo in più per arrivare a spezzarle il cuore.

“Gippal, mi sembra ovvio che io non ti lascerò andare” La guardai intensamente.

“Rikku, è inutile. Non mi fermi”. Mi guardò negli occhi.

“Se mi ami, resta.”  Questo trucchetto lo usava spesso e quando lo usava l’aveva sempre vinta lei.

“Finiscila, devo andare.”  Quattro. Sgranò di nuovo gli occhi, incredula.

“Gippal, tu…mi ami, vero?”  Non le risposi nemmeno in quel momento. Mi alzai dal letto e uscii dalla camera. Mi voltai solo una volta e vidi Rikku immobile nella posizione in cui l’avevo lasciata prima. Sembrava una statua. Guardava nel punto in cui prima ero seduto. Sospirai. La guardai per un’ ultima volta per poi uscire di casa, senza una parola.  Ero ancora davanti casa mia, quando sentii aprire la porta alle mie spalle e due braccia che mi cinsero la vita.

“Non andare, ti prego! Io ti amo! Capito? TI AMO! Ti prego, non andare! Resta con me…resta con me, ti prego…”  Usai tutta la forza che mi rimaneva per pronunciale le ultime parole.

“Rikku, lasciami in pace!” E a quel punto scoppiò in lacrime. Ci vogliono cinque passi per spezzare il cuore ad una persona. E io li percorsi tutti, quella sera. La lasciai davanti la porta di casa mia, mentre io mi allontanai diretto per non so dove. Comunque non volevo vederla. Non in quello stato. Non per colpa mia.

Le strade di Luka erano trafficate, nonostante quella sera facesse molto freddo. Ogni negozio, ogni pub, ogni angolo della città pullulava di vita. Passeggiavo con sguardo vuoto, poco attento su dove stessi andando. Le insegne luminose scorrevano man mano andavo avanti. Avevo bisogno di sfogarmi. Avevo bisogno di dimenticare. Perché inseguire un obiettivo era sempre così difficile? Perché si doveva rinunciare per forza a qualcosa? Quella mia scelta distrusse anche me, quella sera. Ma sentivo che era quella giusta. Dovevo, volevo eliminare il male che come un’ombra insegue Spira da millenni.  Fare del male ad una persona per aiutarne cento. Anzi, a due persone.

Le gambe mi portarono dinanzi l’insegna luminosa di un locale. Era il pub di un hotel e già dall’esterno si sentiva che dentro c’era un inferno: si sentivano lo sghignazzare e il parlare di uomini burberi e risatine e grida giocose di donne ubriache. Sembrava il ritrovo di barboni e donne facili, per dirla pulita. Ma non mancavano persone giuste, ma disperate. Non quando entrai io, perlomeno. Mi addentrai fra la bolgia e mi diressi quasi meccanicamente verso uno sgabello libero davanti al bancone e ordinai un cocktail qualsiasi. Diedi la scelta al barista, raccomandandogli che fosse bello forte. Cominciai a bere e mi piacque così tanto che ne ordinai un altro, e poi un altro e un altro ancora.

“Ciao, Gippal” Una voce femminile familiare.

“Paine” dissi, come saluto.

“E’ insolito vederti qui” Si  sedette sullo sgabello accanto al mio.

“Già” dissi solo.  

“Come va?”  Mi chiesi perché la gente ha sempre voglia di rompere le palle nei momenti meno opportuni…

“Una meraviglia, grazie”  dissi sarcastico e finii di bere il quarto bicchiere, se bicchiere si poteva chiamare quella roba gigantesca. “Un altro, per favore” dissi al barista ad alta voce, per sovrastare quelle squillanti di quel centinaio di persone che c’erano ai tavoli alle mie spalle e quella della cantante alla radio che sembrava stesse avendo un orgasmo più che cantando una canzone. Immaginai che era quel genere di canzoni che si addicevano ad un pub e ad un pugno di ubriaconi disperati.

“Non ti sembra di esagerare?” chiese Paine, ma non era preoccupata. Cominciò a preoccuparsi due boccali più avanti, dopo che smise di credere che ero capace di reggere a tutti quelli che stavo ordinando.

“Gippal, sei già al settimo!” disse lei, quasi disgustata.

“Vuoi assaggiare?”  Le porsi il boccale. Lei mi guardò e forse acconsentì solo per togliermi il boccale di mano. Ma quando stava per prenderlo, me lo riportai alla bocca e bevvi un'altra sorsata.

“Ehi, avevo detto di si!”  Non badai troppo a lei. Abbassai il boccale e avvicinai veemente le mie labbra a quelle di Paine. Le schiusi e feci passare il cocktail dalla mia bocca alla sua. Mi allontanai da lei ghignando.

“Se t’è piaciuto ne ordino uno anche per te” dissi. Ormai non ero più in me, ma forse ero convinto del contrario. Mai avevo visto Paine scossa. Per la prima volta vidi vacillare quella ragazza forte e imperturbabile che conoscevo. Poi mi alzai.

“Vieni” le dissi porgendole la mano.

“Dove?” mi chiese, un po’ impaurita dal mio comportamento.

“Tu vieni” incitai.

“Gippal, sei ubriaco!”

“Non sono ubriaco” ne ero proprio convinto.

“Gippal…tu non stai bene…dovresti tornare a casa e…”

“Prova ancora a dirmi quello che devo fare e ti uccido.” Paine sbuffò, per niente intimidita. Certo che era strana: si faceva intimidire da un bacio, ma le minacce non la toccavano minimamente.

“Allora vuoi venire con me o no?”  insistetti. Lei mi guardò per un attimo, poi tornò a fissare la bottiglia di vodka riposta in uno scaffale al di là del bancone.

“Si” disse, cercando di dare l’impressione di disinteressamento. Ma lo sapevo che era sincera. Finii di bere la mia bibita e presi una camera per la notte, mettendo in tasca la chiave della stanza 013 .

“Ti sei deciso ad andare a dormire, eh”  disse con un mezzo sorriso. Io mi alzai dallo sgabello e per un momento vidi muoversi le bottiglie sullo scaffale, lo scaffale stesso, il bancone. Tutta la sala stava ruotando. Barcollai e mi tenni stretto al bancone per evitare di cadere per terra.

“Santo cielo…” sussurrò Paine. Mi prese per un braccio e si diresse con me – barcollante – alla scalinata che conduceva al piano superiore, dove c’erano le stanze. Rischiai di rovinare giù per le scale più di una volta, ma alla fine riuscii ad arrivare sano e salvo dinanzi alla porta 022. Le orecchie cominciarono a riposarsi, una volta affievolito il gracchiare delle voci del piano inferiore. Solo la musica era un po’ troppo forte.

“Chiave” disse lei porgendomi un palmo aperto. La guardai ghignando, infilai la mano in tasca e estrassi la chiave che adagiai sulla sua mano, sempre senza staccarle gli occhi di dosso. Aprì la porta ed entrammo. Dopo che la porta si richiuse alle mie spalle, anche la musica cessò.

“E adesso vedi di riprenderti, non hai una bella cera” disse, mentre posava la chiave sul comodino accanto al letto.  “Hai davvero esagerato, oggi, con i cocktail. Riposati.”  Andò verso la porta, l’aprì. Forse voleva davvero andarsene, ma io la richiusi e fissai Paine negli occhi.

“Era proprio qui che desideravo che tu venissi” dissi, ghignando. Le presi il volto con la mani e la baciai violentemente. Non so che cosa avevo per la testa in quel momento. Però lo ricordai, ricordai benissimo che, non so in quale angolo del mio cervello, avevo impressa davanti a me l’immagine di una ragazza bionda, sorridente, desiderosa, come lo ero io di farla mia, lì in quel momento. Ma la realtà era un’altra: la ragazza desiderosa c’era, ma non era Rikku.

E io non lo sapevo.   

Spinsi Paine verso il letto e cademmo sulle bianche lenzuola. Continuai a baciarle le labbra, il collo, l’orecchio anche mentre la privavo dei vestiti. E ad un certo punto vidi anche i miei vestiti in un angolo lontano dal letto, dal mio corpo.

“Mi ami?” mi interruppe lei. Io le sorrisi, dolce.

“Certo che ti amo” ovviamente “Rikku” era sottinteso. Certo che amavo Rikku. Certo che la volevo, la desideravo, certo, certo che era più importante della mia stessa vita, per me.

E così ci perdemmo in un sogno ambito da tanto.

 

Non so quanto tempo trascorse. Tuttavia, dopo quel lasso di tempo che non so ben definire, accadde la cosa più spiacevole che potesse mai essere capitata nella mia vita. Quel sogno in cui io credevo di essermi perso, in realtà era un incubo. Tutta la mia vita, tutti i miei sogni, tutto, tutto si sgonfiò in quel momento. La ragione stava già cominciando a ritornare, anche se la sbronza non era del tutto passata. Ma era passata quanto bastava perché mi rendessi conto che la ragazza che avevo creduto fosse quella per cui avevo perso la testa parecchi mesi addietro, in realtà non era la stessa che dormicchiava sotto le coperte accanto a me quel giorno (o quella notte). Ma il vero momento in cui mi sentii crollare il mondo addosso fu quando mi voltai verso la porta.

Rikku era lì.

Immobile, braccia conserte, appoggiata con una spalla alla porta, mi guardava con quegli occhi accusatori, infuriati, pieni di dolore e lacrime. E fu lì che io credetti di stare ancora dormendo. Non potevo credere che era tutto realtà, sarebbe stato troppo per me. Provai ad aprire gli occhi, ma non ci riuscii perché erano già aperti, sbarrati. Quando finalmente collegai che tutto quello che stavo vivendo faceva parte di una crudele realtà, attesi. Attesi che qualcosa mi colpisse, un fulmine, una scarica elettrica, che potesse incenerirmi sul momento. Attesi che un qualunque dio avesse pietà di me e mi portasse con lui all’inferno, purché io non restassi in quella stanza un secondo in più. Dio non poteva essere così crudele da farmi rimanere li senza che morissi all’istante.

E invece appurai che lo era. Rimasi pietrificato, immobile, muto, ma il cuore non cessava di battere.

“Era per…questo che tu mi hai lasciata.”  Le sue parole mi trafissero il petto. Provai il dolore peggiore che un essere umano possa mai provare. Ma nemmeno quella volta morii. Avrei voluto difendermi, dirle che io…io…che cosa? Dirle che cosa?? “Oh, scusa, l’avevo scambiata per te”? I fatti dicevano tutto e non avevo modo di giustificarmi. Nemmeno il fatto che ero ubriaco era una giustificazione. Avevo sbagliato. Punto.  Boccheggiai qualcosa, ma non uscì alcun suono dalla gola.

“Come ho potuto essere così cieca?? Sono un’idiota!” sgorgarono altre lacrime. “In tutto questo tempo tu…non hai fatto altro che ingannarmi…”

“No” mi uscì, all’improvviso. Anche lei fu stupita di sentirmi parlare. Mi guardò per un momento, disgustata di me. “Tu sei…tutta la mia vita. Non ti ho mai ingannata, sono sempre stato sincero con te, potessi andare all’inferno se non lo fossi” sperai di andarci davvero, tutto sarebbe stato meglio di stare a vedere il viso indignato in lacrime della ragazza della mia vita.

“Gippal, stai zitto! Devi solo stare zitto!!” urlò tappandosi le orecchie. Scoppiò in singhiozzi. Eccome se mi ammutolì. Lei mi guardò di nuovo, sprezzante. Ma non riuscì a trattenersi. Venne verso di me a passo svelto, portò il gomito indietro e mi scagliò un potente pugno in piena faccia. Sbattei la testa sul muro dietro di me con un rumore sordo. Ah, finalmente. Finalmente arrivò questo colpo tanto atteso. Sperai in un trauma cranico, in un qualcosa che comunque mi avrebbe rinchiuso in ospedale per il resto della mia misera vita. Sentii la testa in fiamme. Non potevo sperare in un dolore più forte. Ma il mio istinto di sopravvivenza mi imponeva di non cedere.

“Muori, bastardo, MUORI!” Magari. La testa continuava bruciare. Infine sentii dei passi veloci allontanarsi sempre di più e capii che Rikku se n’era andata. Forse per sempre. Chiusi gli occhi. Sentivo il sapore del sangue in bocca, lo sentivo scorrere fra i miei capelli, sulla fronte. Sospirai. Improvvisamente sentii un fruscio di lenzuola accanto a me.

“Eri ubriaco e io mi sono illusa. Non t’importa se io ti amo, tu vuoi lei. Tutto quello che è successo ieri è stato solo un grosso errore per te, vero?”  Paine non dormiva dall’inizio. Aveva sentito tutto. Meglio così. Mi occorse un po’ di tempo prima di recepire la domanda, ma risposi sicuro di me.

“Già” dissi.

E finalmente caddi in quel sonno profondo tanto atteso.

  
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