Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars
Segui la storia  |       
Autore: Claire Penny    24/02/2015    0 recensioni
Vita da rockstar. Nessuna regola. Più soldi di quanti se ne possano contare. Droghe più o meno leggere. Lusso sfrenato. Sesso senza inibizioni. Jared Leto.
Avete presente?
Ecco, la vita di Zoe non ha niente di tutto ciò.
Perchè Zoe ha ventidue anni e considera ormai concluso il capitolo della sua giovinezza in cui sognava di girare il mondo, vivere la "vida loca" e incontrare i suoi idoli. Sente che è ora di tornare con i piedi per terra, iscriversi all'università o cercare un lavoro e cominciare a rendersi utile ad una società che offre alle nuove generazioni un futuro sempre più incerto.
Questo è quello che la ragazza si prepara suo malgrado a fare, mentre salta tra lavoretti in nero e stage sottopagati sperando nel miracolo di un contratto vero e proprio...almeno fino a quando la sua squinternata migliore amica non finisce per iscriverla a sua insaputa ad un casting per un reality show in cui i partecipanti selezionati prenderanno parte al tour dei 30 Seconds To Mars...come stagisti.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Dov'eravamo rimasti?
Ah, già, la sveglia.
Quella mattina è l'ultima in cui riesco a ricordare me stessa nei panni di una persona "normale" (presupponendo che io lo sia mai stata).
3 maggio, ore 6:30.
Spensi il maledetto aggeggio con una manata che, più che a fermare il consueto bip-bip, mirava a porre definitivamente fine alla sua esistenza, ma senza successo.
Il primo pensiero di quel giorno, combaciava con l'ultimo della sera precedente.
Il mio ragazzo?
AHAHAHAHAHAHAH
No.
Ecco, l'argomento "vita sentimentale" era l'unico che fino a quel momento era riuscito a superare di una posizione il ricordo dei miei anni alle superiori nella mia precedentemente citata classifica delle ragioni per cui avrei dovuto prendere seriamente in considerazione l'idea dell'elettroshock.
Il perché lo spiegherò più avanti, altrimenti ricomincio a divagare e perdo di nuovo il filo del discorso.
Dicevamo, il mio primo pensiero, all'alba di uno di quelli che più sarebbe dovuto essere uno dei giorni più belli della settimana (venerdì), non era affatto qualcosa di allegro, anzi, era una delle mie più grandi preoccupazioni da circa un paio di settimane: la scadenza del mio contratto.
Ricordate quando la mia amabile madre mi aveva spinto - in tutti i sensi -  a cercare la mia strada? Ovviamente ciò che intendeva era che mi cercassi un lavoro. Mi aveva incoraggiata ad accettare qualunque mansione, anche la più umile, perché, a suo dire, "tutto fa curriculum". Anche se si trattava di un lavoro in nero, o che non prevedeva nessuna possibilità di un'assunzione fissa o quantomeno legale, o datori di lavoro incontentabili o perennemente isterici, od orari lavorativi impossibili, o mansioni che rasentavano la riduzione in schiavitù.
Avete letto bene quest'elenco? Perfetto, ora sostituite tutte le "o" con "e" e otterrete un'accurata descrizione di tutti i lavoretti che avevo svolto prima di approdare all'unica azienda che mi aveva offerto il mio primo contratto VERO&PROPRIO.
Come stagista.
Beh, detta così non sembra poi così male, no? Del resto si parte sempre dal basso. Certo, peccato che di stagisti, oltre alla sottoscritta, ce ne fossero altri tre, tutti assunti all'incirca nello stesso periodo e che tra noi, nelle ultime settimane, si stessero disputando gli Hunger Games in versione aziendale. In premio c'era il contratto di apprendistato, l'anticamera dell'assunzione definitiva e forse anche di quella leggenda metropolitana altresì nota come "contratto a tempo indeterminato".
Lo ammetto, non sono esattamente la persona più sveglia del mondo. Sono più le volte in cui cado dalle nuvole che quelle in cui arrivo per prima alla conclusione. Tuttavia, nel momento stesso in cui avevo messo per la prima volta piede nell'ufficio che mi avrebbe ospitata durante tutta la durata dello stage, avevo avuto come la sensazione che le cose sarebbero state più difficili del previsto.
Non ho ancora capito se tale sensazione dipendesse dal mio sesto senso, o dal intuito femminile (sono la stessa cosa? Boh…), o dal fatto che la prima cosa su cui si erano posati i miei ingenui e spaesati occhi era stato lo sguardo inceneritore del mio collega nonché rivale lavorativo, Cristiano Mennoni. Per gli amici, Cris.
Per tutti gli altri, Quel Coglione.
Vogliate perdonare il mio linguaggio scurrile ma, come per tutti gli abitanti di questo mondo, anche per me esistono persone in grado di stimolare il mio lato da scaricatrice di porto.
E se dovessi stilare una classifica in proposito, Cristiano Mennoni otterrebbe sicuramente un ottimo piazzamento.
Erano infatti bastate un paio di settimane per far sì che la quotidiana routine di Cristiano divenisse la seguente:
- Ore 8.00: arrivo al lavoro (con mezz'ora di anticipo rispetto all'orario degli altri impiegati)
- Ore 8.01 - 9.00: cazzeggio nella sala relax a bere caffè e parlare con i suoi apostoli - tra cui spuntava il suo alleato e complice Nicola Bellini, stagista numero tre - di argomenti intellettualmente stimolanti quali "quel locale figo in cui sono stato sabato sera", "quella volta in cui mi sono ubriacato ammerda per poi vomitare l'anima", "quella gran figa che mi sono trombato l'altra sera"."a quanti chilometri orari ho fatto correre in autostrada la Range Rover regalatami da papino - personaggio meglio noto in azienda con il titolo di dottor Mennoni, direttore commerciale -".
- Ore 9.01: ritorno in ufficio e inizio dello svolgimento delle proprie mansioni (con mezz'ora di ritardo rispetto all'orario degli altri impiegati). Mansioni che prevedevano aprire un file di excel a caso e fingere di lavorarci mentre su un'altra pagina apriva facebook per chattare con le prossime candidate a diventare le protagoniste della rubrica a luci rosse precedentemente citata "quella gran figa che mi sono trombato l'altra sera".
- Ore 10.30: meritata pausa caffè dopo una faticosa ora e ventinove minuti di finto lavoro.
- Ore 10.50 - 12.30: ancora file excel di copertura/chat con ragazze dai tanti “like” e pochi vestiti sulle foto di facebook, attività questa volta alternata con un po' di sano terrorismo psicologico verso l'altra stagista (io), che da quella mattina non ha ancora avuto il tempo di esalare un respiro e sta correndo da una parte all'altra dell'ufficio come una pallina del flipper.
- Ore 12.30 - 14.00: Pranzo. Ovviamente, il fatto che per i dipendenti comuni mortali la pausa si concluda alle 13.30 è irrilevante.
-Ore 14.01 - 16.59: replica delle attività svolte in mattinata, con un particolare occhio di riguardo al mobbing verso l'altra stagista presente in ufficio (sempre io).
-Ore 17.00: fine della giornata lavorativa. Con mezz'ora di anticipo rispetto agli altri impiegati, perché lui arriva mezz'ora prima e quindi può.
Ovviamente, il suo status di progenie del braccio destro del grande boss gli garantiva la totale immunità dal licenziamento o eventuali richiami, nonché un bel vantaggio nella corsa al contratto di apprendistato, rispetto a noialtri babbani figli di nessuno.
Chiariamo: non è che questa cosa della gara al posto fisso fosse ufficiale, anche perché ho il vago sospetto che una cosa del genere non sarebbe considerata esattamente legale. Tuttavia, sin dal giorno in cui ero arrivata all'ufficio spedizioni, l'area a cui ero stata assegnata, avevo più o meno capito in che simpatica situazione fossi andata a cacciarmi. Intuizione rafforzata dopo aver origliato per puro caso due impiegati, uno dell'ufficio spedizioni, l'altra dell'ufficio acquisti, che durante la pausa caffè scommettevano su chi dei novellini sarebbe sopravvissuto al periodo di stage. Curiosamente, Mennoni Junior era quotato 1:2, tutti gli altri, 1:1.000.000.
Potrete quindi comprendere la mia angoscia nel varcare la soglia di quello che per sei mesi era stato il mio ufficio, quella mattina. Potevo uscirne come dipendente quasi ufficiale o come disoccupata.
Mi bastò però arrivare alla fine della mattinata quando, dopo l'ennesima frase di circostanza del tipo: "Se non ci vediamo più, ti auguro buona fortuna" (traduzione: "Adesso sono cazzi tuoi. Adìos e tante care cose"), capii mio malgrado che quando quella sera avrei spento il computer, raccolto le mie cose e sputato nella bottiglietta di Gatorade blu che Cristiano teneva sempre accanto al suo computer, l'avrei fatto per l'ultima volta.
E così fu.
La mia ricompensa, dopo aver lavorato anche nove ore al giorno per trecento euro al mese, senza che nessuno mi pagasse gli straordinari e spesso con qualcun altro che si prendeva il merito del mio lavoro, fu una stretta di mano, un augurio di buona fortuna ed una fugace occhiata alle mie tette da parte dell’amministratore delegato, da me segretamente soprannominato “Mastro Lindo Quattrocchi”. Spiegare il perché penso sia superfluo.
Quindi aveva vinto il nepotismo, questa volta nei griffati panni di Cristiano…e forse avrebbe ottenuto un premio di consolazione anche colui che aveva tenuto per tutta la durata dello stage la sua viscida lingua appiccicata al fondoschiena di quest’ultimo, ossia Nicola.
Welcome to Italy.
Fui in parte consolata dal pensiero che semmai quel bulletto da quattro soldi - ovviamente in senso metaforico - fosse mai arrivato ad ereditare titolo e ufficio del padre, l’azienda sarebbe fallita nel giro di una settimana.

* * *

La fermata dell'autobus era stranamente vuota, quella sera. C'eravamo solo io e la mia ennesima delusione. Non avevo minimamente voglia di tornare a casa e dire ai miei speranzosi genitori che no, la loro unica e sfigata erede non ce l'aveva fatta neanche stavolta. Immaginai che probabilmente dovevano aver passato la giornata ad invocare santi e sacrificare agnelli agli dèi di varie religioni (tanto per andare sul sicuro) pur di vedermi tornare a casa sorridente e sentirsi comunicare che, sì, ce l'avevo fatta, avevo un lavoro da perfetta appartenente alla casta medio-borghese, dietro ad una scrivania e davanti ad un computer. Proprio quello che avevano sempre sognato per me.
Invece ero di nuovo senza lavoro, senza prospettive e senza neanche un fazzolettino di carta per soffiarmi il naso. Avevo solo voglia di stare sola.
Siccome però il destino nutriva qualche forma di risentimento karmico verso la sottoscritta - in una vita precedente dovevo essere stata Jack lo Squartatore o qualcosa di molto simile, perché mi rifiutavo di credere che quella sequenza infinita di sfighe fosse semplicemente frutto della casualità - , in quello stesso momento il mio cellulare iniziò a suonare.
Ora, vi prego di immaginare una scena deprimente come quella di una ventiduenne appena licenziata che frigna mentre aspetta da sola l'autobus, interrotta improvvisamente dalla canzone del Pulcino Pio. Mi maledissi per aver incautamente lasciato mio cugino undicenne solo col mio telefono per un intero minuto, il giorno prima.
Dopo essermi appuntata mentalmente di cambiare la suoneria il prima possibile e con qualcosa di più vicino al mio stato d’animo – magari qualcosa di Adele - , guardai il display: Elena. Alias, la mia migliore amica. Alias, colei che alla nascita fu benedetta dal preziosissimo dono della pazienza infinita nei miei confronti. Alias, futura santa.
Sospirai e mi preparai a deludere anche le sue aspettative.
-Ele, scusa ma…-
-ZOEEEEEEEEEE!!!- m’interruppe lei, gridando abbastanza forte da privarmi temporaneamente dell’uso di un timpano.
Ora, urge una breve spiegazione. Gli unici casi in cui la mia esuberante amica grida il mio nome in questo modo, è quando ha qualcosa di veramente, veramente importante da dirmi. L’ultima volta in cui aveva ritenuto opportuno usarlo era stato quando mi aveva chiamata per comunicarmi che Matteo, il suo attuale ragazzo, le aveva chiesto di mettersi con lui. È una storia parecchio esilarante, che include un appuntamento al luna park, un letale mix “pranzo abbondante + montagne russe”, l’infermeria del parco e Matteo che si dichiara tra un conato di vomito e l'altro. Magari un giorno ve la racconterò.
Chiedo venia, sto divagando di nuovo.
-Porca vacca, Ele! Non urlare così!- la rimproverai.
-Ma…è successo che…io…tu..noi…- ansimò
-Grazie, Elena, i pronomi personali li conosco anch’io. Ora calmati e…-
-Tu NON capisci!- mi aggredì, interrompendomi di nuovo.
-E come faccio a capirti se parli come se stessi avendo un attacco epilettico?!- mi giustificai, chiedendomi nel frattempo quale potesse  essere la causa di tutta quell’agitazione.
-Scusami…è solo che…-. Seguì una lunga pausa fatta di suoni temporeggianti dalle più varie tonalità. -No, non posso dirtelo. Non così…non per telefono. Vieni da me. ORA!- mi ordinò, urlando l’ultima parola e mettendo K.O. anche il mio timpano superstite, dopodiché riagganciò.
Mi lasciò così, confusa, con gli occhi ancora acquosi, il naso sul punto di colare e con un centinaio di piccoli punti interrogativi che mi fluttuavano sopra la testa.

* * *

È inutile dire che il viaggio di ritorno – il mio ultimo viaggio di ritorno, sigh! – fu dedicato esclusivamente a tentare di formulare ipotesi che giustificassero lo strano comportamento di Elena e su cosa mi aspettasse una volta arrivata a casa sua.
In condizioni normali, la mia immaginazione si sarebbe scatenata e mi avrebbe messo davanti a scenari improbabili -  avete presente JD, il protagonista del serial Scrubs? Ecco, le mie fantasie sono molto simili alle sue - ma purtroppo il mio lato fantasioso, così come tutti gli altri lati che componevano la figura della mia personalità (escluso quello depresso e pessimista) erano rimasti nell’ufficio di Mastro Lindo Quattrocchi, congelati nell’istante in cui mi aveva stretto la mano e ringraziata per l’efficiente lavoro svolto, un attimo prima di licenziarmi.
Non mi rimaneva quindi che aspettare.
Ho sempre odiato le attese. Più delle interrogazioni di matematica. Più di Cristiano. Più del dentista quella volta in cui mi fece un’otturazione senza anestesia perché “tanto era una cosa veloce”.
Scesi due fermate prima del solito. Da lì, la casa di Elena distava duecento metri che mi sarei dovuta fare a piedi. Neanche a dirlo, il cielo che per tutta la giornata era stato solamente coperto, scelse proprio il momento in cui scesi per dare il via al diluvio universale parte seconda.
Entrare a casa di Elena fu la parte più bella della giornata. La stufa all'ingresso aveva riscaldato l'ambiente alla temperatura ottimale per appendere il mio cappotto ad asciugare (dopo averlo opportunamente strizzato).
-Ehi! sono io!- mi annunciai, per nulla sorpresa del fatto di non trovare nessuno ad accogliermi. Ormai erano anni che Elena ed io frequentavamo le reciproche case come se fossero il nostro secondo domicilio. I nostri genitori se n'erano fatti una ragione.
Mi diressi in cucina per prendermi un bicchiere d'acqua, ma non appena entrai, vidi qualcosa che decisamente non avrei dovuto vedere: qualcuno aveva lasciato una confezione di cioccolato al latte sola soletta nel bel mezzo del tavolo.
E lì, parte il dibattito interiore:
Meglio ignorarla.
Sono reduce da una giornata orribile. Dai, solo un pezzettino, tanto per sentire che gusto ha.
Sì, certo, probabilmente Hannibal Lecter ha avuto lo stesso pensiero all'inizio della sua carriera. E poi sai benissimo che gusto ha, non inventiamo scuse. Vuoi tornare ad essere Zoe-la-cicciona? Zoe-il-dirigibile? Zoe-ciambella? Ti ricordi quando ti chiamavano così?
Sì, me lo ricordo.
Allora lascia perdere quella cosa, ha un sapore dolce ma porta a ricordi decisamente amari. Non ne vale la pena.
Però conosco il modo per evitare i sensi di colpa...

-Zoe...-
La voce di Elena alle mie spalle, interruppe la mia crisi di coscienza e mi fece sobbalzare come se mi avesse sorpresa ad ingozzarmi con quella maledetta cioccolata tentatrice che se ne stava ancora sopra la tavola a gridare "maaaangiamiiii!" con la voce da fantasma.
-Ciao Ele, scusa, volevo solo prendere...qualcosa da bere- improvvisai.
Per un istante mi parve di vedere l'antenna rileva-balle attivarsi sopra la testa della mia amica, che però decise di fingere di non essersi accorta di niente.
-Beh, serviti pure. Abbiamo acqua naturale e succo all'ACE. Altrimenti posso preparare del tè...-.
Mentre parlava, mi superò e si diresse verso il lavabo. Mentre passava accanto al tavolo, recuperò la tavoletta di cioccolata e la infilò nel frigorifero come niente fosse.
Nonostante ci conoscessimo ormai da un bel pezzo e tra noi non ci fossero mai stati segreti, non riuscii a non provare un senso di vergogna al pensiero che mi avesse colta proprio nel momento in cui stavo per cadere nuovamente in tentazione.
-Il succo va benissimo, grazie, ma prima vorrei che mi spiegassi che cos'avevi da urlare poco fa al telefono-.
Elena posò i bicchieri che aveva appena tirato fuori e si voltò verso di me con lo sguardo che brillava scintillava splendeva abbagliava.
-Ti spiegherò. Ma prima dimmi, com'è andata al lavoro? Ti hanno rinnovato il contratto?- chiese, con uno strano mezzo sorriso stampato in volto, molto simile ad un ghigno.
La cosa cominciava a farsi inquietante. Cercare di preservare quell'alone di mistero così a lungo non era da lei.
"Lei" era la stessa ragazza che qualche tempo addietro mi aveva telefonato alle tre e mezzo di notte di un giorno feriale solo per raccontarmi il finale della prima stagione di Arrow (che aveva guardato in streaming nel giro di un paio di giorni e che io non avevo ancora concluso).
"Lei" è la ragione per cui ora spengo sempre il cellulare prima di andare a dormire.
-Non so perchè ma immagino che tu lo sappia già- sospirai.
-Beh, era logico. Se ti avessero assunta mi avresti telefonato subito, o almeno mandato un messaggio per famelo sapere- disse, mentre versava succo. poi però il suo tono cambiò radicalmente e passò dalla modalità "comprensiva" a quella "euforica" senza nessuna ragione apparente. -Non avrei potuto sperare in una situazione migliore! Questo rende il tutto assolutamente perfetto!-
Sì, in un universo parallelo, forse.
-Spero che i miei vedano il mio ritrovato status di disoccupata con altrettanto ottimismo-commentai, prendendo il bicchiere che Elena mi stava porgendo.
-E...se ti dicessi che ti ho già trovato un altro lavoro?- chiese, con un sorriso furbo.
La squadrai con diffidenza. -In tal caso mi chiederei se mi sono persa qualche passaggio, dal momento che l'ultima volta che ho controllato eri ancora una studentessa di quinta superiore e non un'impiegata dell'ufficio di collocamento-
-Invece io ho un lavoro per te e non è affatto uno scherzo- asserì lei.
-Ti prego, piantala di fare la misteriosa. Cominci a innervosirmi. Parla chiaro- dissi, con la pazienza al limite.
-Okay. Però si tratta solo di uno stage...- mi avvertì
-Come se fosse una novità...-
-...di due mesi...-
-Alcuni miei lavori sono durati meno. Molto meno-.
-...Per il tour dei Thirty Seconds to Mars-.



*NdA: Hola! Grazie per aver speso un po' di tempo per leggere il primo capitolo della mia ff, Spero abbiate gradito! Questa è la mia prima storia e non sono il tipo che si mette a fare propaganda, per cui se vi va, lasciate un commento, altrimenti ci si vede al prossimo capitolo (spero)!*
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars / Vai alla pagina dell'autore: Claire Penny