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Autore: Claire Penny    22/02/2015    1 recensioni
Vita da rockstar. Nessuna regola. Più soldi di quanti se ne possano contare. Droghe più o meno leggere. Lusso sfrenato. Sesso senza inibizioni. Jared Leto.
Avete presente?
Ecco, la vita di Zoe non ha niente di tutto ciò.
Perchè Zoe ha ventidue anni e considera ormai concluso il capitolo della sua giovinezza in cui sognava di girare il mondo, vivere la "vida loca" e incontrare i suoi idoli. Sente che è ora di tornare con i piedi per terra, iscriversi all'università o cercare un lavoro e cominciare a rendersi utile ad una società che offre alle nuove generazioni un futuro sempre più incerto.
Questo è quello che la ragazza si prepara suo malgrado a fare, mentre salta tra lavoretti in nero e stage sottopagati sperando nel miracolo di un contratto vero e proprio...almeno fino a quando la sua squinternata migliore amica non finisce per iscriverla a sua insaputa ad un casting per un reality show in cui i partecipanti selezionati prenderanno parte al tour dei 30 Seconds To Mars...come stagisti.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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C'era una volta...una mail.
Lo so, è strano come inizio di una storia, però è cominciata proprio così, con poche righe di presentazione ed un file in allegato. Un file contenente un video lungo nove minuti e trentasette secondi.
Poi un indirizzo di posta elettronica, un clic e...puf! Un secondo dopo la suddetta mail si trovava nella posta in arrivo di un anonimo computer dall'altra parte del mondo.
Bene, fin qui potrebbe sembrare una storia parecchio stupida, no? Voglio dire, a questo punto perchè non scrivere un'introduzione su come si accende la lavatrice o su come si apre il frigorifero? Nel secondo poi, ho parecchia esperienza.
Semplice: perchè quella mail, identica a milioni e miliardi di altre mail, ha finito per stavolgermi totalmente la vita.
E dire che non l'ho nemmeno scritta io...
No, a scriverla, a mia completa insaputa, era stata la mia migliore amica, Elena. Probabilmente però neanche lei al momento dell'invio non era minimamente preparata alle conseguenze che quella breve lettera in formato elettronico avrebbe avuto sulle nostre vite.
Invece eccomi qui, a raccontare del giorno in cui venni a sapere dell'esistenza di quella mail...

* * *
C'era un'altra volta...una sveglia.
Una maledetta sveglia dall'età indefinita. Per quanto ne sapessi, potevano anche avermela regalata in culla, dal momento che l'avevo sempre vista lì, sopra al comodino, accanto al mio letto. Un oggettino piccolo, color verde schifo, apparentemente innocuo, che in realtà altro non era che un perfido strumento di tortura cammuffato.
Sin dal primo giorno della prima superiore - anche conosciuto come il momento in cui mi madre aveva decretato che ero ufficialmente grande abbastanza per svegliarmi e prepararmi da sola alla mattina - quell'aggeggio infernale aveva scandito l'inizio della maggior parte delle mie giornate con quel suo irritante bip-bip stonato e a volume decisamente troppo alto per permettermi di alzarmi senza provare qualche forma di istinto omicida.
Inoltre, dal momento che gli anni delle superiori restano tutt'oggi nella top five delle ragioni estremamente valide per le quali dovrei sottopormi ad almeno un paio di sedute di elettroshock, potrete facilmente intuire quanto il mio rapporto con quel fastidioso suono sia peggiorato nel tempo.
Già...ancora oggi,  quando quell'odioso segnale acustico irrompe nel mio sacrosanto sonno, mi assale la stessa angoscia che mi attanagliava tutte le mattine al solo pensiero di dover affontare un'altra giornata in quel girone infernale chiamato "scuola", tra professori in piena crisi di mezza età e perfidi coetanei in piena crisi adolescenziale/tempesta ormonale/qualunque sia la causa che rende buona parte degli appartenenti alla fascia d'età tra i quattordici ed i diciotto anni degli emeriti stronzi patentati.
Ad ogni modo, anche se ancora oggi a volte mi sembra impossibile da credere - e così è anche per chiunque mi conosca bene - sono riuscita  a diplomarmi. I miei genitori, per festeggiare l'evento (la cui portata era più o meno equiparabile al miracolo di Gesù che resuscita Lazzaro) si erano improvvisati Geni della Lampada e mi avevano concesso di esprimere un desiderio che loro avrebbero cercato di esaudire nei limiti delle loro possibilità.
Avrei potuto avere qualunque cosa desiderasse una normale ragazza in quel momento della sua vita: uno smartphone ultimo modello - ero l'unica della mia classe a non possederne ancora uno - , un computer nuovo, o addirittura il tradizionale viaggio della maturità!
Io però ero affezionata al mio vecchio laptop; il mio cellulare Nokia, nonostante risalisse al paleolitico, funzionava ancora alla grande - era uno di quei modelli che se anche cadeva dal quinto piano rimaneva perfettamente intatto e lasciava un cratere sull'asfalto - e purtroppo mi vidi costretta a reclinare anche l'offerta del viaggio perchè, per quanto, tra le proposte fosse la più allettante, non avevo modo di attuarla.
Il motivo era semplice: non avevo nessuno con cui partire.
Come forse avrete intuito dalla mia precedente breve descrizione dei miei anni alle superiori infatti, non ero mai stata esattamente miss popolarità.
Ok, questo è un eufemismo grande come Giove. La verità è che, nella gerarchia sociale scolastica, anche Gino, il bidello zoppo con lo sguardo da serial killer, era più benvoluto di me.
Avevo però trovato lo stesso un modo di riscuotere la ricompensa che mi spettava per il mio sudato "60" alla maturità - voto che è più o meno l'equivalente scolastico di un calcio nelle chiappe per farmi togliere dalla circolazione una volta per tutte - : per un anno, un meraviglioso, tranquillissimo e pacifico anno, mi era stato accordato il permesso di sospendere ogni attività e quindi, con la benedizione dei miei, mi ero concessa un periodo sabbatico, termine forbito che si usa per indicare un non meglio precisato lasso di tempo (di solito dodici mesi, ma può essere prolungato, se si riesce a trovare la scusa giusta) durante il quale si vive dormendo dalle dieci alle tredici ore al giorno, mentre quelle restanti si passano tra divano, facebook, telefilm in streaming e programmi tv in grado di abbassarti il quoziente intellettivo di dieci punti in cinque minuti.
I miei trecentosessantacinque giorni compresi tra i diciannove e i vent'anni erano trascorsi così. Ad essere sincera, non so precisamente quanto sarei stata in grado di continuare con quella pigra routine se qualcuno non si fosse premurato di interromperla al mio posto. Di sicuro almeno un altro anno. Forse anche due. Forse anche dieci.
I miei genitori però non intendevano transigere sulla durata del nostro accordo e così una mattina, all'incirca un mese dopo l'inizio del mio secondo decennio come abitante del pianeta Terra, mia madre decise che era ora di buttarmi giù dal divano sul quale, di giorno in giorno, mi stavo lentamente ma inesorabilente trasformando in un vegetale bavoso - sempre ammesso che i vegetali sbavassero - e sempre meno reattiva a qualunque genere di stimolo (fame esclusa).
E quando dico "buttarmi giù dal divano", intendo letteralmente.
Non mi ero accorta delle intenzioni della mia genitrice - nè tantomeno della sua presenza - fino al momento in cui non mi ero trovata a baciare il pavimento. Mia madre aveva infatti avuto la brillante idea di usare il copridivano come leva per costringermi a lasciare il mio comodissimo nido fatto di cuscini, coperte di plaid, telecomandi di varia utilità e briciole di cibo non meglio identificato.
In quel momento, mentre cercavo di recuperare l'uso dei miei arti atrofizzati e ormai prossimi alla cancrena per riuscire a rialzarmi, avevo capito di trovarmi davanti ad uno di quegli emblematici bivi all'apparenza stupidi, ma dal quale dipendeva qualcosa di importante. Nella fattispecie, la valutazione di mia madre a proposito della mia maturità - e non parlo ovviamente di quella scolastica.
In quel momento infatti, mi trovavo di fronte a due possibili modi di reagire:
1 - Incazzarmi e mettermi a inveire contro le sconsiderate gesta della stessa donna che mi aveva messa al mondo, scatenando di conseguenza qualcosa di molto simile alla Terza Guerra Mondiale, che si sarebbe sicuramente conclusa con la cara mammina che sfonderava la sua famigerata ciabatta-boomerang, arma segreta che nelle sue mani assumeva lo stesso effetto del disco con le lame nelle mani di Xena;
2 - Prenderla con filosofia e provare a vedere quell'atto all'apparenza dovuto all'esaurimento dell'ultima goccia di pazienza di mia madre (ma solo all'apparenza, eh!) come una metafora che mi invitava ad uscire dalla comfort-zone e cercare la mia strada per prepararmi al momento in cui avrei dovuto lasciare definitivamente il nido, sia in senso figurato, che letterale. Credo che mia madre intendesse soprattutto quello letterale.
Così alla fine, anche se riluttante, decisi di optare per la seconda opzione.
Ovviamente senza la minima idea di dove mi avrebbe portata.

   
 
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