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Autore: Hazel Grace    26/02/2015    2 recensioni
Irina è una giovane, dolce e coraggiosa ragazza ucraina. Lei abita in uno shtetl, cioè un paesino abitato e creato da soli ebrei, Tranchimbrod.
Irina vive con la nonna e il fratellino ancora in fasce Jonathan, fino a quando una notte qualcosa di terribile accadrà nel luogo in cui vive, che segnerà la sua vita, e quella di molti altri.
Ma soprattutto di una persona: Alexsej, il ragazzo degli alberi, il suo migliore amico.
Genere: Drammatico, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Olocausto
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~~Sono arrivati all'ora più buia della notte. Venivano semplicemente da un'altra città, e dopo sarebbero andati in un'altra, e in un’ altra ancora, per svolgere la medesima mansione.

Erano consci di quello che facevano, erano molto organizzati, meglio dei tedeschi.
Più efficienti, infatti non lasciavano tracce. Forme invisibili che viaggiavano alla velocità della morte.
Con il loro arrivo la nostra fine era già scritta, e ogni persona, animale o spirito, sapeva che  nessuno si sarebbe salvato.
Mi ricordo benissimo quella sensazione: il letto che trema, il cuore che batte fortissimo e brucia in gola, sì, riesco ancora a sentirmelo farsi spazio su per il collo, facendomi male.
Al confronto un terremoto era niente. Nessuno di noi sapeva veramente cos’era un terremoto, a Tranchimbrod è un evento più unico che raro.
Il terremoto era il suono dei loro carriarmati che si facevano strada per le strette vie della città, i vetri che vibrano, i suppellettili che tremano e cadono a terra con suoni agghiaccianti.
Avevo molta paura, il mio cuore continuava a battere all’impazzata, e i miei occhi erano sempre più secchi, la bocca sempre più arida, e il cuore… il cuore che non riusciva più a battere.
-Che cosa? Cosa c'è?- urlò di soprassalto la nonna, mentre stringeva forte la coperta.
Io mi alzai, e andai alla finestra per guardare cosa stava succedendo di fuori.
Che cosa ho visto?
Ho visto l’inferno che avanzava verso di noi. Quattro carrarmati verdi e ombre di demoni infuocati che ci camminavano accanto.
Questi avevano i fucili, e ognuno di loro li puntava contro le nostre porte e le finestre, in caso che qualcuno provasse a scappare. Era buio, ma la mia vista, più giovane e allenata della nonna, mi permetteva di vedere lo stesso.
Riuscivo a sentire i loro sguardi scuri e freddi raggelarmi, attraverso quel sottile strato di vetro. Continuavo a chiedermi: perché proprio da noi dovevano venire?
Non pensavo che prima o poi sarebbe accaduto.
Ci sono così tanti shtetl  nella zona, e noi viviamo in un luogo dimenticato da Dio!
Mi girai di scatto e dissi alla nonna di prendere Jonathan ed di andare giù in cantina, cercando di non fare alcun rumore, ma anche di non spaventarsi e che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Anche se sapevo che era inutile sprecare parole per dirlo, lo sapeva anche lei.
Ad un tratto il rumore dei carrarmati cessò, e per un momento sono stata così stupida da pensare che era finita, che avevano deciso di tornare indietro e finire la Guerra, perché non piace a nessuno la guerra, nemmeno a quelli che sopravvivono, nemmeno ai vincitori.
Ma naturalmente non se ne erano andati via, si erano solo fermati davanti alla sinagoga. E uscirono fuori dai carrarmati altri uomini che si schierarono a formare una linea parallela davanti alle case.
Il Generale, con i capelli scuri si era messo un microfono davanti alla faccia ruvida e priva di qualsiasi emotività, e cominciò a parlare in ucraino dicendo che tutti dovevano venire alla sinagoga, tutti senza eccezioni.
Con queste parole i soldati dettero dei pugni a tutte le porte con i fucili e in seguito controllarono le case per essere sicuri che tutti stessero andando davanti alla sinagoga.
Così dissi alla nonna di tornare su con Jonathan perché avevo paura che li scoprissero dentro in cantina e gli sparassero per via del nascondiglio.
Alexsey, pensavo, Alexsey, anche lui deve scappare, dannazione! lui deve scappare!
Forse è già scappato, forse ha già sentito i carrarmati e se n’è andato prima.
Uscii dalla casa, e mi incamminai con la paura al mio fianco.
Tutto, intorno a me, aveva un aspetto diverso: più tenebroso e quasi cimiteriale.
Ogni trave di legno che componeva una casa era il nome di un uomo, una donna, o un bambino dello shtetl che conoscevo.
File e file di nomi che lampeggiavano davanti a me con una luce accecante e pulsante.
Le case non erano più i luoghi pittoreschi, adornati da fiori e pitture, che erano una volta.
La strada non era più il nostro parco giochi: era la strada per il Calvario.
Quando arrivai alla sinagoga, lo vidi, Alexsey, il ragazzo degli alberi.
Un ragazzo alto, e con delle braccia forti, che si fortificavano ogni giorno dalle lunghe ore passate a tagliare, sollevare e incidere tronchi di legno.
Il suo viso e i suoi occhi azzurri mi avevano sempre affascinata, ma in quel momento, per la prima volta, non c’era coraggio nei suoi lineamenti, c’era paura, terrore e preoccupazione.
Un emozione che non avevo mai visto su di lui.
Lo guardai, e lui ricambiò il mio sguardo dopo neanche un attimo.
Ci eravamo messi uno accanto all’altro, perché è questo che fanno gli amici al cospetto del male o dell'amore.
- Cosa succederà, Irina?- mi chiese.
-Non so….- e la verità era che nessuno di noi lo sapeva davvero, anche se si sapeva che sarebbe stato qualcosa di orribile.
I soldati persero tanto tempo a finire il loro controllo delle case, dovevano essere sicuri che nessuno si sarebbe salvato, e che tutti fossero davanti alla sinagoga.
- Ho paura- disse Alexsey, e una lacrima gli tagliò il viso, e allora gli dissi che non c’era motivo di piangere, anche se io avrei fatto lo stesso.
Non avevo paura solo per me, ma anche per la nonna e per Jonathan!
Soprattutto per lui che così piccolo avrebbe già visto la morte.
Ci misero in fila, e mi ritrovai, alla mia destra Anna e dalla parte opposta Alexsey, mentre davanti a me un’altra fila di donne che  stavano piangendo, perché avevano tanta paura dei fucili dei soldati, e pensavano che tutti noi saremmo morti da un momento all’altro.
Il Generale portò il microfono alla faccia: -Voi dovete ascoltare bene, e fare tutto quello che vi è ordinato altrimenti verrete fucilati.-.
A quelle parole sentii Alexsey rabbrividire.
Avrei voluto dirgli di scappare, e che avrebbe avuto più speranze se fosse scappato.
Era buio, era veloce, avrebbe potuto farcela, ma comunque quelli avrebbero visto subito.
-Chi è il rabbino?- chiese il Generale e il rabbino alzò con sicurezza la mano.
Subito due delle guardie presero il rabbino e lo spinsero con il fucile puntato sulla schiena nella sinagoga.
-Chi è il cantore?- chiese di nuovo il Generale e il cantore fece la stessa cosa che fece il rabbino: alzò la mano.
Ma non era così sereno ad andare verso la sua morte imminente, come il rabbino. Lui piangeva e ripeteva “No” a sua moglie, “No No No No No”, ma anche lei alzò la mano, e le due guardie la presero e misero anche lei nella sinagoga.
 -Chi sono gli ebrei qui? Tutti gli ebrei facciano un passo avanti- disse il Generale, ma nessuno lo fece.
-Tutti gli ebrei devono venire avanti!- ripeté, e questa volta lui gridava, ma nessuno fece nulla.
Il Generale si avvicino alla prima fila e disse nel microfono: -Voi indicate un ebreo o sarete considerati ebrei!- e la prima persona da cui andò era un ebreo, Abraham.
Da lì cominciò la decimazione sul posto di ogni uomo o donna o bambino che fosse, che venivano condotti nella sinagoga.
Ad un certo punto un uomo fece resistenza e la risposta fu un colpo in testa.
Quando sentimmo il suono delle ossa frantumate, sentii la mano di Alexsey che toccava la mia, ed ogni volta che sparava me la stringeva più forte.
Gli strinsi anche io la mano, sempre più forte, perché anche io ero umana.
Anche io avevo paura e anche io volevo essere da qualche altra parte con Alexsey, la nonna e Jonathan, volevo che fossimo in un prato, distesi, a guardare le nuvole che viaggiano per il cielo, a guardare mentre cambiano forma, e vedere gli aquiloni ondeggiare.
Ogni persona indicava qualcuno, il proprio vicino o una persona che conosceva bene, ma per qualche strano caso nessuno indicò mai Alexsey, forse perché io ero l'unica amica sua e lui non era tanto socievole e tanta gente non sapeva nemmeno che esistesse.
 Potevo essere l'unica ad indicare lui, o forse era perché era così buio che non lo vedevano bene. Non è passato troppo tempo che lui  rimase l’unico ebreo fuori dalla sinagoga.
Adesso il Generale era nella seconda fila e disse a un uomo, chi era ebreo e l'uomo rispose che erano tutti dentro la sinagoga perché lui non conosceva Alexsey o non sapeva che anche lui era ebreo.
Allora il Generale gli sparò in testa e io sentii la mano di Alexsey che toccava la mia, e cercai di fare attenzione a non guardarlo e immediatamente staccai la mia mano dalla sua.
Non che non volessi sentire la sua mano calda e morbida, ma era perché non pensassero che noi due fossimo legati.
Il Generale andò da quello dopo, e gli pose la stessa domanda.
Ma lui rispose: – Sono tutti dentro la sinagoga, deve credermi! Perché dovrei dire il falso, potete ucciderli tutti per quello che mi importa, ma per favore non mi uccida, per favore mi risparmi. - ricordo ancora il modo in cui cercava di salvarsi, pregandolo in ginocchio, e passando da un tono piagnucolante a odioso e velenoso come un serpente. Il Generale gli sparò in testa e disse che si stava spazientendo, e continuò.
Io sentivo ancora la mano di Alexsey che si faceva più forte, come quando, da ragazzini mi sollevava e mi faceva roteare; e sembrava che mi volesse dire: “ti prego Ira, ti prego, non voglio morire, ti prego non indicarmi!”.
 -Chi è ebreo? - mi chiese ancora il Generale e io tesi l’altra mano a Nonna e sapevo che lei teneva la mano al bambino, che la stava tenendo ai suoi figli, che la stava tenendo a tutti i suoi nipoti.
Allora io dissi: –Io sono ebrea, qui non ce ne sono altri, io sono l’unica ebrea di questo shtetl, la prego lasci andare gli altri. Non hanno fatto niente, hanno solo cercato di proteggermi, gli lasci andare, non hanno fatto niente a nessuno.– lo pregai, lo implorai.
Anche se non ero ebrea, lo pregai di risparmiare le uniche cose che mi erano rimaste e che amavo.
Ma vidi che il suo sguardo era inflessibile, e mi accorsi che era stufo e anche stanco di come fosse difficile liberarsi della feccia ebraica, per questo ordinò agli uomini di portarci nella sinagoga.
Allora anche io cominciai a piangere, accorgendomi di non essere servita a nulla, volevo urlare, ma ero troppo timida per farlo, e pensavo troppo.
Ma lo feci lo stesso, tanto in quel momento non avevo più nient’altro da perdere.
Urlai, cercando di liberare me e gli altri dai soldati. Ma uno di loro, con il cappotto nero tentò di spararmi al cuore, ma prese solo la spalla e il braccio.
Quello mi fermò e mi fece cadere per terra, quasi stecchita. Un altro soldato mi prese e mi trascinò fino alla sinagoga, e mi gettò a terra.

Sentii il calore della sua mano, che mi accarezzava il viso, la dolcezza della sua voce che cercava di calmarmi, di non farmi pensare. Anche se ormai la nostra morte era vicina.
I comunisti gettarono qualcosa contro la porta della sinagoga, che cominciò a bruciare e a fare del fumo nero, puzzolente che mi toglieva il respiro e continuava a divorare tutto quello che trovava. Nel frattempo sentivo il suono dei carrarmati che si faceva sempre più lontano e sempre più debole. Fino a scomparire.
Era la fine.
Mi guardavo intorno, e vedevo gli adulti e gli anziani piangere; mentre i bambini cantavano. Intonavano note per scacciare quei pensieri, per andare da qualche altra parte.
Quel coro angelico mi ricordava il paradiso, e mi continuava a rimbombare la frase : “Siederà alla destra del Padre.”
Continuava a ripetersi, una frase, che poteva diventare fastidiosa.
Cominciai a ripetermela a bassa voce, più che altro sembrava un rantolio, come se recitassi un Ave Maria.
Cercavo un punto fisso dove guardare per non sentire più quel dolore, mentre stringevo la mano alla nonna.
Ed incontrai lo sguardo di Alexsey.
Guardai i suoi occhi celestiali, e il suo viso. Si vedeva chiaramente che era polacco.
Le mascelle pronunciate, il viso chiaro, gli occhi azzurri, i capelli bruni con dei riflessi dorati.
Non avevo mai notato come fosse.
Mi fermavo sempre all’immagine del ragazzo che si arrampicava sugli alberi, non mi ero mai fermata a guardarlo da vicino.
Come era possibile, ero sicura di conoscerlo così bene, e nella realtà io non lo conoscevo.
Lui mi sorrise, e quello fu la chiave che aprì la mia mente e i miei ricordi.
Pensai sempre a quella frase, e per un momento l’immagine di una porta nascosta, dietro all’altare dalla quale io, Herschel ed Alexsey ci divertivamo, da piccoli, ad entrare ed uscire, mentre il cantore ci rincorreva sgridandoci e il rabbino rideva sotto i baffi, fino a smuovere la sua anima, mi comparve davanti, dipingendosi con delle pennellate davanti ai miei occhi.
– Alexsey, ti ricordi la porta? Quella nascosta, quando riuscimmo a scappare dal cantore? Te la ricordi?...Fa uscire tutti!- dissi con tutto il fiato che avevo il gola.
Lui si fermò pochi secondi a pensare e urlò alla gente che piangeva, che pregava e si teneva le mani l’uno con l’altro.
Da quella parole ne scaturì una processione attraverso la piccola porticina.
Poco dopo mi accorsi che la nonna era scomparsa, probabilmente trascinata da quella massa informe di gente che tentava di uscire da una porticina così piccola.
Ma Alexsey, no, lui era rimasto lì, accanto a me.
Teneva la mia schiena sulle sue gambe.
–Alexsey, te ne devi andare!- gli ordinai. Ma lui non fece storie, mi prese e mi strinse di più a sé.
– Alexsey, brutto scemo di un ebreo! Devi andartene! Ti dico di andartene! Non puoi stare qui! Vattene!- mentre cercavo di arrabbiarmi con lui, cercando di far emergere il mio lato cattivo, cominciai a piangere e le lacrime scivolarono sul mio viso. Forse per il dolore atroce, o forse perché volevo che la persona a cui tenevo potesse sopravvivere al posto mio, che potesse vivere la mia vita al posto mio.
Vedevo il fuoco divorare tutto quello che c’era intorno a noi, e ci aveva praticamente circondati.
- Io non ti lascio, tu ti sei sacrificata per me, anche se io ero ebreo tu mi hai sempre trattato come un fratello, anche se nessuno mi voleva, tu mi hai tenuto con te. Quando a scuola tutti mi prendevano in giro tu sei sempre rimasta con me…. Tu sei l’unica persona che importa per me. - Alexsey mi prese in braccio, mi strinse forte a lui e si fece strada tra il fuoco, verso quella luce che era la porta.
Mentre camminava attraverso il fuoco, sembrava che non sentisse nulla, che fosse immune a tutto quello che stava accadendo.
Uscimmo e vidi il bosco che stava dietro alla sinagoga. Lui mi appoggiò delicatamente sull’erba, e mi tenne sempre la mano.
– Vedi, ce l’abbiamo fatta, insieme. – fece quel sorriso sghembo che adoravo.
Lo guardai negli occhi. – Ora andiamo a vedere le stelle? – domandai.
– Sì…- mi prese ancora in braccio e mi portò fino al grande prato, poco distante.
Mi fece sdraiare, mentre io continuavo a guardare il cielo, meravigliandomi di quante stelle ci fossero e di come solo ora me ne fossi accorta.
Guardai Alexsey, che si era sdraiato accanto a me.
Non so cosa mi prese, ma lo baciai. Lo baciai per un momento così lungo che il dolore era quasi inesistente. Sentivo le sue labbra secche, e le mie che erano distrutte, ma anche se baciarlo mi faceva male non mi importava, e mi sembrava di toccare la sabbia bollente del mare.
Mi sentivo davvero bene, e non mi importava dove fossi, chi ero, e cosa ne sarebbe stato di me, l’importante era che fossi con lui.

 

  
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