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Autore: L o t t i e    27/02/2015    2 recensioni
«Sei una cretina», iniziò lui accomodandosi sul letto ad una piazza e mezza: aveva ancora la giacca. «Puoi accusarlo di tutto, tranne che non ti voglia bene... a modo suo.»
Ah, ecco.
William sottolineò, a mente, «a modo suo» un paio di volte, in rosso. Ripassandolo più volte.
Quelle semplici frasi stesero un velo scuro sul viso di porcellana della vampira, la quale preferì stare in piedi; se si aspettava la comprensione faceva prima a gettarsi dalla finestra, l'umano. Non dopo aver parlato al cellulare con una fanatica, non dopo aver ricevuto un bacio dal suo creatore ubriaco e con chissà quali sensi di colpa venuti a galla.
«Non ti permetto di parlarmi così», si impose pacatezza, danzando verso l'armadio per prelevare dei vestiti più leggeri. Vide il ragazzo schiudere le labbra, forse per parlare ancora, protestare. Fu più veloce.
[Da revisionare!]
Genere: Fantasy, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vampire - the series.'
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Resonate in the echo.








Il giorno dopo, la routine riprese: la scuola non aspettava mica.
Dopo l'episodio del pianoforte, inutile dirlo, non riuscì a cavare un ragno dal buco. La bocca di Claude era sigillata o rispondeva in modo evasivo, minaccioso, teso. Claude Von Ritcher che era teso.
Questa sì che è bella!, esclamò mentalmente William arricciando una ciocca di capelli bianchi, il gomito poggiato sul bracciolo dell'auto. Diede una fugace occhiata al riflesso del vampiro: gli stavano bene quei Ray-Ban, i quali con le lenti nere non facevano intravedere lo sguardo verde ― quello stesso sguardo che continuava ad ignorarla dallo scorso giorno. Sembrava che i ruoli si fossero invertiti.
Henrike Ophelia Krämer, quel nome non riusciva a toglierselo dalla testa. Pensando e ripensando, setacciando ogni informazione su Claude in suo possesso concluse che forse Henrike sarebbe potuta essere una qualche parente lontana o, peggio, una sorta di amore platonico. Aveva persino chiesto a Trevor, ma era evidente che non poteva rispondere: era facile riconoscere quel tono di voce degno di una segreteria telefonica pre-registrata post soggiogazione. Sbuffò, accidenti.
L'auto nera si fermò proprio di fronte al cancello della scuola, William vide Samantha aspettarla qualche metro più avanti, sulle scale. Scese.
«Ti vengo a prendere io, non fare scherzi», la ammonì il vampiro, abbassando di qualche centimetro il finestrino per osservarla.
«Sta' tranquillo», gli ringhiò in risposta.

Raggiunta l'amica sulle scale, finalmente alzò lo sguardo, poggiando le mani ghiacciate sul viso leggermente arrossato. Poi Samantha le circondò le spalle con un braccio, sghignazzando.
«La sai l'ultima?»
Oddio, pensò l'altra, scuotendo il capo.
«Hanno trovato un professore di inglese!», esclamò la rossa tutta euforica.
L'albina si chiese come facesse a reperire certe informazioni; a chi cavolo si rivolgeva? Solo lei poteva vantarsi di avere pochi amici e quasi zero conoscenti? Pazienza.
«Sul serio?», domandò dapprima, un pizzico scettica, «Pensavo non studiassimo più quella materia.»
«Mi hanno detto che è anche figo, ah! E albino, Will!»
Quest'ultima sussultò, nemmeno si fosse scottata col sole di mezzogiorno e fuggì dalla presa dell'amica per guardarla negli occhi, accigliata. «Mi sembri una specie di stalker», borbottò, «Come fai a saperlo?»
«Ho solo chattato con Melanie. Sai, esiste una cosa chiamata Facebook!», cantilenò.
«Scusa se sto insieme ad un vampiro maniaco del controllo che mi ha tolto pure internet, Samantha», sbuffò... ancora. «Quindi è albino, eh? Povero tizio.»
«Uh. Io riporto solo ciò che mi ha detto lei. Non sei curiosa?»
«Per nulla», mugugnò. «Comunque, cos'era quella storia dei nomi?»

L'ora dell'intervallo arrivò molto velocemente, strano, in quanto le lezioni di francese sembravano sempre durare un'eternità. Insieme a Samantha decise di fare un giro per i corridoi prima di tornare in aula ― che Nicole fosse stata per tre ore consecutive al proprio banco, in silenzio, la inquietava a morte e non la convinceva per nulla. Quella ragazza stava tramando qualcosa: aveva un brutto presentimento. O forse era lei la paranoica che riconduceva tutti i brutti presentimenti alla castana.
«Non dirmi che non ti capita mai! Per esempio, tu ce l'hai, la faccia da William!»
«Sam, sarei pure potuta chiamarmi Ame-nigishi-kuni-nigishi-amatsuhiko-hiko-ho-no-ninigi-no-Mikoto, come la metti?»
«Impossibile», mugugnò la rossa.
«E tu cosa ne―»
«Impossibile.»
«Eh?»
Di fronte a loro, la capigliatura color cioccolato fondente scarmigliata, la pelle di un colore bello ― dovete sapere che ci sono cose impossibili da spiegare: una di queste era il colore della pelle di Marcel, la quale, a prima vista faceva pensare al tepore del sole, al fresco dell'ombra al mare. Gli occhi vispi color nocciola del diciassettenne erano proprio puntati sulle due amiche e le mani mollemente aggrappate alle tasche dei pantaloni.
Quel tipo portava solo camice a fantasia tartan.
Diamine, si sarebbe potuto dire attraente.
«Carotina e Blance-Neige!», le salutò sogghignando.
«Cioccolatino», grugnì Samantha.
Quello sorrise, tra gli incisivi una strana cosa verde ― forse della lattuga.
«Al primo anno non c'è nessuno da importunare quindi ci cercavi?», incalzò William.
«Anche», ridacchiò. «Nicky la svitata», e le orecchie dell'albina improvvisamente iniziarono a gradire le parole del moro, «mi ha proposto di andare a casa sua...»
Le due amiche si scambiarono un'occhiata complice.
«Quando?», chiese la rossa.
«Oggi, ma mi scoccia troppo ad andarci. Non starà mica pensando di riunire la classe, vero? Che rottura», sbuffò grattandosi con l'indice una guancia.
«Eh?!», squittì l'irlandese, «E tu? Non provarci, a venire! Oggi abbiamo un impegno noi con lei!»
«Appunto, sapendo che ci saresti stata anche tu, carotina, non ho potuto rifiutare!» e con il tono di chi la sa lunga diede qualche colpetto di gomito alla sua interlocutrice.
«Ma smettila!», lo spinse lei, avvampando.
Approfittando della distrazione dei due, e sentendosi decisamente il terzo incomodo, si allontanò velocemente ― un principio di tic nervoso che le minacciava l'occhio. Non troppo innervosita però, in quanto Nicole era solo una scusa da rifilare a Claude. Giusto.
Sfilando tra i corridoi, destreggiandosi tra gli alunni che li intasavano ― eccola. Le pepite turchesi che aveva per occhi come chiodi si piantarono sulla chioma arancio-castana della compagna di classe. Si accorse che stava parlando con qualcuno. Aggrottò la fronte, poggiando una mano sul fianco, indispettita; non si aspettava proprio nulla Nicole, eh? Uno scherzetto non avrebbe guastato.
Con nonchalance si avvicinò ancora, a grandi falcate, il brutto presentimento che tornava a galla, strisciando sotto la pelle color porcellana. Ascoltava sempre il suo sesto senso, ma ora sembrava essere l'ago impazzito di una bussola.
Accidenti!
Nicole stava cinguettando qualcosa, da civetta quale era. Le diede qualche colpetto sulla spalla, facendola sussultare.
«Will!»
La sopracitata sogghignò soddisfatta, guardando di sfuggita l'interlocutore della mora. Anzi, lo guardò intensamente. Interdetta, si pietrificò sul posto, somigliando vagamente ad una statua di marmo bianco.
Bianco.
Era lì, spruzzato come vernice sui capelli di quel ragazzo.
Il tipo dell'aeroporto!, pensò dopo qualche attimo deglutendo rumorosamente: le si era creato un noto in gola. Colui che avevano scelto per insegnare loro inglese le sorrideva ― gli occhi quasi viola, proprio come piccoli universi... come quelli della sua mamma.
Una gomitata, con molta delicatezza, la riportò con i piedi a terra, nel corridoio del liceo.
«Parlavo di te sai? Perché non sei venuta, ieri?»
Sembrava che le corde vocali si fossero prima cristallizzate e poi frantumate.
«Gardienne», la richiamò il professore. «William Leroy», sorrise poi all'albina, calorosamente.
«Cosa le ha detto?», distolse lo sguardo, avvertendo un familiare formicolio vicino agli occhi.
«Sciocchezze» e la castana storse le labbra, contrariata. «Non mi fido mai di ciò che dicono, io preferisco conoscere. Mi dispiace di non averti visto durante la lezione di ieri. Sono il professore Neru.»
«Mh, Neru?», un angolo delle labbra le si alzò, come agganciato da un amo invisibile, «Neru-san wa neru no ga suki?1»
Elijah batté le palpebre, disorientato, poi riconobbe la lingua. Quella ragazza era giapponese e ciò lo stupì, anche se forse quell'altra ragazzina glielo aveva detto ― non aveva prestato molta attenzione a Nicole, invero, sarebbe dovuto pure andare via. William stava per scusarsi, non sentendo alcuna risposta. Vide la compagna di classe ancora più spaesata e ciò la fece ridacchiare.
«Ah? Mochiron!2», sentì poi esclamare il professore.
Stupita, finalmente lo guardò negli occhi. «Hontō?3», domandò senza accorgersene, strabuzzando gli occhi. «Nihongo o hanasu?4»
«Scusate!», la petulante voce della castana interruppe quel grazioso dialogo facendo scoppiare a ridere il norvegese, smontando quella già di per sé flebile aria professionale ― in effetti sembrava ancora molto giovane, l'albina gli avrebbe dato al massimo venticinque/ventisei anni. Dopodiché la fine dell'intervallo venne annunciata dal trillare della campanella: il professore si ricompose, si schiarì la voce.
«Mi dispiace, devo proprio andare», disse, quindi si avviò verso le scale principali quasi accennando una corsa.
«Cosa cavolo stavate dicendo?!», borbottò Nicole, rivoltasi immediatamente a William.
William che non si aspettava di rivedere il ragazzo con la sciarpa bianca dell'aeroporto, di provare come se fosse la prima volta la bruciante sete di sangue, di parlare in giapponese con qualcuno dall'accento così strano o incontrare un albino parziale. La risata del giovane ancora, come un eco, risuonava nelle sue orecchie, cristallina, piacevole. Sfiorò con la lingua i canini notevolmente allungati, chinando il viso di lato: che sensazione strana.
Ignorando la domanda che le era stata posta, quasi fosse un automa, iniziò a camminare per tornare in classe, seguita da una Nicole incavolata nera.







* * *









«Prinzessin, stai bene?», le chiese il vampiro, svoltando a destra per imboccare il viale che portava alla villa. «Hai un'aria trasognata», sibilò poi, quasi fosse un reato. Non portava più gli occhiali ed ora gli smeraldi che aveva incastonati splendevano come non mai.
«Devi rispondermi ancora ad una domanda», cantilenò lei, tamburellando ritmicamente con le dita sulla cartella. Era l'unico modo per zittire Claude al momento, tirare fuori Henrike.
Samantha ci era rimasta davvero male quando le aveva detto di aver incontrato il professore nuovo, infatti glielo descrisse con accuratezza per consolarla, anche se l'avrebbe visto fra due giorni in classe. Informato Claude della sua uscita di studio, il vampiro non aveva fatto storie e questo, nonostante le creasse qualche sospetto, le alleggerì un poco la giornata. Sam sarebbe venuta lì e poi insieme avrebbero raggiunto la casa di Nicole, in teoria. In pratica, il baule in mansarda stava aspettando solo lei ― non voleva ritardare.
Varcando la porta e scendendo i due scalini, la vampira notò immediatamente qualcosa di diverso; si bloccò avvertendo in seguito il tedesco sbatterle contro di proposito.
«Allora? Ti muovi?», grugnì.
«Chi c'è, oltre Trevor?», domandò, assottigliando lo sguardo.
«Oh, allora non sei proprio un caso perso!», esultò il vampiro sorpassandola. Tutto d'un tratto pieno d'allegria ― la quintessenza della lunaticità. «Una ragazza deliziosa, in tutti i sensi. È in camera, meglio che non sali», gli intimò ridacchiando come un bambino.
«Cosa?!», sbottò. Non che le desse fastidio, ma...
«Gelosa
«Mph», sbuffò, «tu non c'entri nulla, ovviamente.»
«Ovviamente.»

Dopo essersi preparata una tazza di thé, sotto delle occhiate stranite di Claude ― nemmeno stesse rubando, salì in camera sua. Sentiva Trevor e la voce di quella tizia, ridacchiare e parlottare. Non aveva che fare fino alle sei, per cui tirò fuori gli auricolari e si distese sul letto: avrebbe letto un libro.
Non sapeva che l'umano avesse una relazione, ma ciò non avrebbe dovuto lasciarla talmente sbigottita! Insomma, Trevor era un ragazzo come gli altri, aveva diritto a frequentare chi voleva. Almeno lui. Anche se fosse, lei escludeva a prescindere qualche relazione sentimentale. Pensandoci, forse avrebbe dovuto fare i compiti invece di riflettere su cose che non le riguardavano. Oltretutto non riusciva a leggere una frase che le lettere si attorcigliavano. Perfetto!, sbottò mentalmente, si sarebbe annoiata a morte e non aveva nemmeno qualcuno con cui passare il tempo.
Chiuse il libro e lo ripose sul comodino vicino al letto, bevendo un sorso di thé... insipido. Aggrottò le sopracciglia, perplessa, mentre le note di “La Pluie” continuavano a danzare, meste. Oh, quanto avrebbe voluto un po' di pioggia. Quella canzone riusciva sempre a rilassarla, in un modo o nell'altro.

All'ora stabilita, il campanello della Villa Von Ritcher suonò, puntuale come un orologio a cucù. Colui che andò ad accogliere Samantha fu Claude, con i sorriso più falso di una maschera da clown. Fece accomodare la rossa sul divano e salì le scale per chiamare l'albina che presunse si doveva essere addormentata per dimenticarsi del suo appuntamento. La porta come al solito era chiusa, ma non si disturbò di bussare. Entrò nella stanza avvolta dall'oscurità, poi quasi il sorriso non gli cascò direttamente dal viso. Giù, fino al pavimento come un mattone di cemento.
Immediatamente una smorfia di pura rabbia sostituì la bellezza sovrumana del vampiro, stravolgendogli i tratti facciali. Non poté trattenersi dallo sferrare un pugno alla parete, facendo cascare giù qualche frammento di muro, ringhiando sommessamente. Tutto all'internò dell'abitazione tacque ed il cuore di Samantha perse un battito per l'improvviso tonfo; indecisa, era tentata di salire su a controllare cosa fosse successo, ma prima che potesse fare anche solo un passo, un ragazzo sbucò da un corridoio tutto affannato.
«Cos'è successo?», domandò, accorgendosi solo in un primo momento della rossa. «E tu perché sei qui?»
«Dovrei uscire con Will, ma c'è stato un tonfo», spiego velocemente non facendo caso alla maglietta messa al rovescio ed i pantaloni sbottonati di Trevor.
Determinata, corse su per le scale seguita dal corvino.
Claude, di spalle sembrava emanare pericolo da ogni poro: i muscoli tesi si potevano osservare da sopra la stoffa della maglietta e suoni simili a fusa graffianti stordivano l'udito. Trevor gli si avvicinò, come se avesse a che fare con quella creatura tutti i giorni ― oh, ma era così!
Anche Samantha riluttante mosse qualche passo all'interno della stanza, ma della sua migliore amica nessuna traccia.
William non c'era.
Il candido bianco era scomparso, sbranato dal nero.
Deglutì, le gambe che minacciavano di cederle e una profonda angoscia strisciante stava insinuandosi in lei. Vide il ragazzo dagli occhi di ghiaccio voltarsi verso quella fanciulla dalle mille lentiggini, allarmato, le parole che rimbombavano, quasi si trovassero sott'acqua. Stava gridando?
Poi, anche lei fu inghiottita dal buio.













Deliri Note dell'autrice:
«Neru-san wa neru no ga suki?1»: “Le piace dormire?”, ma è anche un gioco di parole, in quanto neru (寝る) è il verbo dormire. VBB, COSE SQUALLIDE.
«Ah? Mochiron!2»: “Ah? Certo!”, a chi non piace dormire, scusateh.
«Hontō?3»: “Sul serio?/Davvero?”
«Nihongo o hanasu?4»: “Sa parlare giapponese?”

TA-DAH!
Potete anche lanciarmi patate, sono pronta con l'armatura. In questo capitolo finalmente Will ed Elijah si parlano, GENTEH, ceh. Ma poi Will scompare, quindi Claude distruggerà il mondo. Proprio mentre Trev iniziava a farsi una vita sociale. Samantha si trova lì alla cavolo. (???) Okay, no―... La situazione è alquanto critica e del tutto improvvisata, quindi nemmeno io riesco a prevedere come finirà il tutto. Penso che qualcuno mi picchierà. (...)
Non riesco a scrivere seriamente a quest'ora e dopo una giornata che nemmeno NONSOCHI.
Ma VABBENE. Pretendo l'oscar: avevo pure perso una pagina del capitolo, la quale fortunatamente ed ovviamente ho ritrovato. Quanto sono incapace. °A°"
Eeeeeee quindi nulla, a tutti quelli che nonostante i ritardi continuano a leggere g r a z i e.
Alla prossima, si spera puntualmente,
―L o t t i e.
  
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